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9 NOVEMBRE 1989-9 NOVEMBRE 2013: LA CADUTA DEL MURO DI BERLINO.

Pubblicato il 9 novembre, 2013 in Il territorio, Politica, Storia | No Comments »

Oggi ricorre il 24° anniversario della caduta del Muro di Berlino. Nessun giornale ne ha fatto oggetto neppure di un corsivo in prima, o magari in ultima pagina, per ricordare un evento che segnò la fine dell’impero del male e il ritorno alla libertà di metà del continente europeo, quello orientale, tenuto in catene con decine  e decine  di milioni di uomini e donne, dal più criminale dei regimi totalitari per oltre sette decenni. Lo ricordiamo in questa pagina, rendendo omaggio alla memoria  delle vittime, milioni di esseri umani!, sacrificati sull’altare di una “religione” che della schiavitù politica aveva fatto il suo credo e la sua ragione politica, distrutti, l’uno e l’altra, dai picconi   che nella notte tra il 9 e il 10 novembre del 1989  abbatterono, dopo 28 anni, il muro che divideva in due Berlino. Quelle immagini sono scolpite nella mente e nei cuori di quanti ebbero la ventura di vivere quelle ore con gli occhi puntati sui teleschermi che  le trasmettevano in tutto il mondo, insieme alle altre, a quelle della marea  di uomini, donne, bambini, sopratutto bambini che dal campo di concentramento di Berlino Est invadevano, finalmente liberi, le strade dell’altra parte del mondo, il mondo libero, il mondo dell’Occidente che riaccoglieva nelle sue braccia e stringeva la cuore gli ormai ex schiavi dell’impero del male, restituiti alla libertà, alla vita. g.

LA MIA AFRICA A NORD DI COPENAGHEN, di Giuseppe Scaraffia

Pubblicato il 15 settembre, 2013 in Costume, Storia | No Comments »

La mia Africa, tratto dal romanzo-biografia di Kareb Bixen, brillante scrittrice afro-danese, è uno dei film più belli di tutti i tempi, con due interpreti eccezionali, Meryl Streep e Robert Redford.   Lo  andammo a vedere  la prima al cinema Galleria,  nel 1986,  lo abbiamo rivisto poi tante volte,  commuovendoci ogni volta come la prima.   A Karen Bixen,   Giuseppe Scaraffia,  giornalista e scrittore,  dedica su Qui Touring di Settembre,  la rivista mensile del Touring Club Italiano, uno staordinario ritratto-ricordo che pubblichiamo quale nostro omaggio alla grande scrittrice danese. g.

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L’origine è la meta, diceva Karl Kraus, e fu così che una delle più grandi autrici del Novecento, Karen Blixen, ritrovò al tramonto della sua vita la casa natale di Rungstedlund, oggi museo, a una ventina di chilometri da Copenaghen. Prima di essere della sua famiglia, la casa era stata, dalla fine del Seicento ai primi dell’Ottocento, una locanda.
Il grande parco, una quarantina di acri, è diventato, per testamento dell’autrice de La mia Africa, una riserva per i volatili. Dentro la casa, come nella sua vita e nel suo cuore, la Danimarca e l’Africa, il passato prossimo e quello remoto sembrano avere trovato un equilibrio segreto. All’inizio la nostalgia dell’Africa era così forte che per tredici anni non aveva osato aprire le casse provenienti dalla sua fattoria.

Nella stanza dei giochi, i ritratti dei neri fatti dalla scrittrice fiancheggiano i suoi disegni giovanili. I mobili della stanza verde, destinata agli ospiti, venivano dalla fattoria keniota. Il cassettone, regalo del fedelissimo cameriere nero Farah, non urta con la poltrona dove si sedeva il grande amore di Karen, morto in un incidente aereo in Africa, Denys Finch Hatton. Le lance e gli scudi dei guerrieri masai che in Africa vivevano vicino alla sua fattoria vegliano su una piccola libreria. La pendola ereditata dal nonno era stata ribattezzata il Profeta perché suonava immancabilmente il venerdì, giorno della preghiera per i fedeli dell’Islam.
Karen riceveva gli ospiti davanti al maestoso camino di marmo del salotto. Tra i muri azzurro pallido, la luminosità delle tende e delle fodere bianche dei divani e delle poltrone Luigi XVI evoca la luce irripetibile dell’Africa.
Ovunque, straordinari mazzi di fiori composti dalla Blixen erano la prova della sua fedeltà al proposito: «Dipingerò con i fiori». Per lavorare, sia nello studio sia in casa, usava la vecchia macchina da scrivere Corona o la penna, come provano i manoscritti esposti nella sua abitazione diventata museo.

A volte la Blixen faceva suonare musiche del Settecento sul grammofono regalatole da Finch Hatton. La morte dell’uomo, insieme al fallimento della sua avventura di produttrice di caffè, era stata una delle cause del suo ritorno in patria. Anche se la sifilide, trasmessale dal marito, la stava lentamente consumando, a quarant’anni era ancora affascinante. A volte stava così male da non riuscire a reggersi in piedi, ma non aveva la minima intenzione di arrendersi alla malattia. Voleva «la vittoria strappata alla disfatta». Quando si ristabiliva, le piaceva andare in bicicletta: una volta la videro arrivare a una festa con l’abito da sera fermato dalle pinze per poter pedalare meglio.

L’autrice del Pranzo di babette viveva ormai solo di ostriche, champagne, qualche chicco d’uva o un succo di frutta. La «persona più sottile del mondo», quale si vantava di essere diventata, riceveva i rari amici in salotto, davanti al fuoco. Sorseggiava distrattamente il tè fumando una sigaretta dopo l’altra, senza mai smettere di parlare. I grandi occhi scuri brillavano misteriosamente nel viso scarnificato.
Secondo l’umore, il suo aspetto subiva sorprendenti metamorfosi. Sembrava, come lei stessa diceva, «ora una vecchia strega, ora una fanciulla». Mentre si stava congedando dalla vita, era entrata definitivamente nella scrittura: lo choc del ritorno a casa le aveva insegnato che «tutti i dolori sono sopportabili se li si fa entrare in una storia o se si può raccontare una storia su di essi».Giuseppe Scaraffia, Qui Touring, settembre 2013

UN’AMBIZIONE TROPPO TIMIDA

Pubblicato il 23 maggio, 2013 in Costume, Politica, Storia | No Comments »

Serve ancora a qualcosa l’Italia? E a che cosa? Può ancora immaginare in quanto Nazione di avere una vocazione, un destino, suoi propri? E qual è il suo ruolo, se ce n’è uno, in relazione agli altri Paesi del mondo?

Tra i molti nodi che oggi stanno venendo al pettine c’è anche questo. Un nodo creatosi, a ben vedere, con la sconfitta nella Seconda guerra mondiale, sul cui significato di cesura non metabolizzata si apre, non a caso, con alcune acute osservazioni, il bel libro di Giuliano Amato e di Andrea Graziosi Grandi illusioni (Il Mulino) appena andato in libreria. Fino a quella data le classi dirigenti della Penisola – di estrazione invariabilmente borghese, con qualche rarissima eccezione sia pure assai significativa come nel caso del fascismo con Mussolini e pochi altri – furono tutte convinte che lo Stato nazionale fosse sorto con una «missione». Quella di riportare l’Italia al centro dello sviluppo storico, di farne in vario modo una «potenza» in grado di rivaleggiare con le altre del continente, di restaurarne l’antico prestigio civile e culturale, di elevare le sue plebi alla dignità di «popolo». Declinata in senso nazional-liberale prima, e nazional-fascista poi, questa convinzione fece naufragio nella catastrofe del 1943-45. All’indomani, la Repubblica dei partiti si trovò più o meno d’accordo nel fondare la civitas democratica, ma – animata com’era da visioni storiche tra loro diversissime, e sotto il peso del disastro appena passato – non poté porsi la questione della nazione. (Anche se questa, in modo perlopiù tacito, era ancora ben presente e talora visibile negli uomini e nelle idee dei partiti di quella stessa Repubblica).

Ingabbiati nel doppio bipolarismo Est-Ovest e comunisti-democristiani, decidemmo quindi – prima a maggioranza, ma in seguito alla caduta del muro di Berlino praticamente all’unanimità – che il nostro solo destino erano l’Occidente e l’Europa. Che il nostro orizzonte era assorbito per intero da quelle due dimensioni. Che la nostra storia finiva lì. Oggi ci accorgiamo che siamo stati un po’ troppo sbrigativi. Che in un’Europa che è ancora (e chissà ancora per quanto) un’Europa degli Stati, cioè delle sovranità, la nostra sovranità non è meno importante delle altre. Ma che se essa vuole contare qualcosa, se vuole essere forza e sostanza di un vero soggetto politico, deve fondarsi necessariamente su un’idea d’Italia. Cioè sul presupposto che questo Paese abbia un insieme di retaggi, di qualità, di vocazioni e di aspirazioni peculiarmente suoi, e che precisamente queste peculiarità esso sia chiamato in qualche modo a riunire e a esprimere entro la moderna forma dello Stato nazionale.

Immaginare ed elaborare un’idea d’Italia corrispondente ai bisogni dell’ora è oggi il compito storicamente più urgente della politica italiana. Essa deve mostrarsi capace di additare un senso e un cammino complessivi alla nostra presenza sulla scena storica. Solo in tal modo la politica stessa sarà in grado di riscoprire e rinvigorire la dimensione dello Stato nazionale e della sua sovranità, sperando così di ritrovare un rapporto con il Paese capace di animarlo e motivarlo di nuovo.
Solo così riusciremo a riprenderci, a ricominciare. Sono ormai anni che le energie della società italiana appaiono paralizzate, i suoi animal spirits bloccati. Che il Paese è immerso in una crisi di sfiducia nelle proprie forze, in una sorta di apatia, di sfibramento psicologico, che minacciano di divenire una cupa rassegnazione. L’economia con ciò ha molto a che fare. È difficile infatti che a qualcuno venga in mente d’investire in un Paese che non sa quello che è, né ciò che vuol essere. È difficile che qualcuno avvii qualcosa d’importante e a lungo termine in un Paese che non ha idea di che cosa esiste a fare, che non guarda al proprio passato come al trampolino per un avvenire. Nella dimensione esclusiva dell’oggi, infatti, al massimo si sopravvive: per esistere con pienezza di vita bisogna, invece, sapere da dove si viene e dove si va. Ma la politica solamente può e deve dirlo. Come essa ha fatto altre volte nel nostro passato, quando si è dimostrata capace di mobilitare risorse, di sollecitare energie, di concepire vasti disegni. E ogni volta, non a caso, ritornando a quel nesso profondo, all’origine della nostra storia unitaria, che lega indissolubilmente lo Stato nazionale italiano a un’idea d’Italia. Senza la quale neppure il primo, alla lunga, riesce ad esistere. Ernesto Galli della Loggia, Il Corriere della Sera, 23 maggio 2013

SI E’ SCIOLTO IL FLI, E FINI ESCE DI SCENA.

Pubblicato il 8 maggio, 2013 in Politica, Storia | No Comments »

8 maggio: atto finale di Fli. Fini esce di scena: dopo tre anni il suo progetto è fallito

Oggi, 8 maggio, è convocata a Roma l’ultima assemblea nazionale di Futuro e libertà. Fli si scioglie e il partito sarà traghettato da un triumvirato, formato da Roberto Menia, Aldo Di Biagio e Daniele Toto, verso una comune casa di destra.  Sarebbero in corso contatti sia con Fratelli d’Italia sia con il gruppo che ha dato vita giorni fa un incontro sulla destra all’Adriano cui hanno preso parte Silvano Moffa, Pasquale Viespoli, Mario Landolfi, Gennaro Malgieri e Domenico Benedetti Valentini.  E il 16 maggio a Palermo è in programma un convegno su An organizzato da Domenico Nania e al quale ci sarà anche Roberto Menia. Anche la Destra di Storace guarda con interesse a questi lavori in corso. Ovviamente Gianfranco Fini, che dovrebbe tenere  in assemblea il suo ultimo discorso agli amici ed ex camerati che l’hanno seguito nell’avventura futurista, è costretto a farsi da parte e ad addossarsi tutte le responsabilità del fallimento di un progetto di destra alternativa al berlusconismo ( forse si ritirerà a vita privata) . Il passo indietro, che probabilmente è destinato a segnare la definitiva uscita di scena dell’ex leader di An, consentirà così all’ala destra di Fli (quella che aveva sempre coltivato, in modo più o meno segreto, l’aspirazione a tornare nell’alveo rassicurante della rete degli ex An) di compiere l’unico percorso possibile, a questo punto, per una formazione prima ammaccata dalle accuse di tradimento, poi dalla scarsa chiarezza del progetto e quindi dall’abbraccio fatale con Casini e Monti. Un percorso che non sarà seguito da esponenti ex finiani che non hanno mai fatto mistero della loro collocazione al di là della destra e della sinistra: Fabio Granata, Enzo Raisi, Flavia Perina, Umberto Croppi. L’unico collante che teneva insieme personaggi tra loro così diversi era appunto Fini, il quale però dalla nascita di Fli in poi si è occupato di fare il presidente della Camera più che di fare il leader di partito.

Inoltre, l’antiberlusconismo non avrebbe potuto ancora a lungo sostituire una chiara collocazione nello scenario politico del soggetto finiano soprattutto nella fase attuale che vede il Cavaliere trionfatore su vari tavoli. Fli era nato nel 2010 dopo la famosa direzione del Pdl in cui Fini si era scontrato con Berlusconi (quella del “che fai mi cacci?”). Era seguita un’altra direzione in cui Fini e le sue idee erano state dichiarate incompatibili con il Pdl. Di lì la decisione di uscire dal partito da poco fondato dallo stesso Fini con Silvio Berlusconi formando gruppi autonomi a Camera e Senato. Avevano aderito 34 deputati e 10 senatori. Ma dal primo congresso di Fli a Milano, dopo il fallito progetto di mandare a gambe all’aria il governo Berlusconi con un voto di sfiducia, erano emerse divisioni insanabili e guerre interne tra i colonnelli che avevano seguito Fini. Lo scandalo della casa di Montecarlo ha fatto il resto, distruggendo la credibilità di Fini sia presso i suoi ex elettori sia presso quella parte di opinione pubblica che avrebbe potuto guardare con faveore alla sua idea di destra postfascista, postmissina e non conservatrice. da Il Secolo d’Italia, 8 maggio 2013

…………….Non si infierisce su chi è stato causa del suo male. E’ il caso di Fini, Gianfranco, partito  da Bologna per poter vedere in pace, a Roma,  il film Berretti Verdi.  A  Roma, invece,  incontra la fortuna che man mano lo innalza a segretario nazionale del Fronte della Gioventù per volontà di Almirante, a successore di questi alla sua morte, di nuovo a  capo del MSI-DN dopo la breve eperienza di  segretario misisno di Pino Rauti e poi, nel 1993, a candidato prescelto da Berlusocni nella corsa asl Campidoglio e nel 1994 ad alleato di Berlusconi che inventa Forza Italia, la alleanza variegata del nuovo partito al nord con la Lega di Bossi e al Sud con il MSI-DN di Fini, e vince le elezioni portando il MSI-DN dalla opposizione durata 45 anni al governo, con Tatarella, alleato storico di Fini, che diventa  vicepresidente del Consiglio. Negli anni successivi, nonostante i tanti errori tattici di Fini – la fine della bicamerale, lo scioglimento anticipato delle Camere del 1996, l’alleanza con Segni alle elezioni europee del 1999 – Fini sale sul treno del potere che lo porterà alla vicepresisdenza del Consiglio e al Ministero degli Esteri e poi…e poi lo ubriacherà inducendolo a scontrarsi con Berlusconi alle elezioni del 2006 quando con Casini inventa l’alleanza a tre punte e poi alle sortite antiberlusconiane del 2008 – siamo alle comiche finali…, dirà della nascita del PDL annunciata da Berlusconi sul predelllino di una auto a Milano) per poi all’ultimo momento accordarsi con Berlusconi facendo confluire nel PDL la destra missina  nel 1995 trasformatasi in Alleanza Nazionale. Nel 2008, vinte le elezioni dal centrodestra, Fini viene eletto presidente della Camera, ed è il delfino designato di Berlusconi, ovviamente alla sua morte, almeno politica. Ma Fini non sa attendere e da presidente della Camera superpartes, si trasforma poco alla volta in una spina nel fianco del governo, del PDL e di Berlusconi. Non può durare e Fini, impaziente come tutti gli eredi per caso e per di più ingrati, rompe clamorosamente con Berlusconi e fonda un suo partito, il FLI, appunto. Che più che un partito di destra appare subito come un nebuloso contenitore di luoghi comuni che si vorrbbero far passare per novità politiche. Per di più è evidente lo strappo violento e ingiustificato di Fini con la storia politica nella quale si era formato e aveva vissuto. Di strappo in strappo finisce coll’apparire una delle tante meteore del cielo di sinistra senza idee e senza riferimenti. Dura poco. Alle elezioni di due mesi fa il partito che doveva rifondare la destra guardando a sinistra, cioè il FLI, raccoglie poche briciole di voti e nessun seggio alla  Camera, uno solo al Senato ma nella lista unica di Monti. E’ la fine annunciata di un equivoco politico ed umano chiamato Gianfranco Fini. Che da oggi è un pensionato della politica, dopo aver distrutto, anzi disintegrato,  la Destra italiana, quella (ri)nata dopo la fine della guerra, costruita poco alla volta con i sacrificio di giovani e meno giovani che vi avevano creduto. Non lo rimpiangerà nessuno,  nessuno infierisca. g.

E’ MORTO GIULIO ANDREOTTI: LA TESTIMONIANZA DI MASSIMO FRANCO

Pubblicato il 7 maggio, 2013 in Politica, Storia | No Comments »

Lì sul suo letto vestito di blu con il rosario nero tra le mani

Giulio Andreotti (Ansa/Peri)

Ha il solito doppiopetto blu presidenziale. E se non fosse per il rosario nero che gli avvolge le mani intrecciate sul grembo, e perché è sdraiato sul letto vestito di tutto punto con gli occhi chiusi, potrebbe quasi sembrare il Giulio Andreotti di sempre. Ma il piccolo presepe vivente che lo circonda, stavolta, non è nella sua stanza da letto per ascoltare le battute al curaro, o le perle di buonsenso romano-papalino. Le tre bombole a ossigeno accostate alla parete raccontano giorni di sofferenza. E il senatore a vita Emilio Colombo, vecchio alleato e avversario in decine di congressi democristiani e di quasi altrettanti governi, si fa un segno della croce che non è solo un saluto a lui ma il commiato a un’epoca della storia d’Italia.
In questa stanza nella penombra al quarto piano di corso Vittorio Emanuele che si affaccia sul Tevere e sul Vaticano, sorvegliato e protetto da un grande crocifisso di porcellana appeso sopra al letto, è morto ieri mattina, poco dopo mezzogiorno, l’uomo-simbolo della Prima Repubblica. In quel momento in casa c’erano soltanto Gloria, la badante filippina che lo assisteva con altri due connazionali, e Giancarlo Buttarelli, il capo della scorta con lui da oltre trentacinque anni. C’era anche la signora Livia, ma per fortuna non si è accorta di nulla. E anche adesso, alle cinque del pomeriggio, mentre un silenzioso viavai di amici e mondi tramontati viene accompagnato a salutarlo per l’ultima volta, la moglie è in cucina in compagnia della cognata Antonella Danese. Forse non capisce quanto è successo. I figli vogliono che non si accorga che suo marito Giulio se n’è andato a novantaquattro anni.

Già, ci sono anche gli Andreotti: la tribù più discreta e invisibile del potere romano. Per il momento Stefano e Serena, due dei quattro figli. Gli altri, Lamberto, presidente della multinazionale Meyers Squibb, arriverà da New York in serata, e la figlia maggiore Marilena è partita da Torino, dove vive. In compenso ci sono alcuni dei nipoti, Giulio Andreotti e Giulia Ravaglioli, figlio il primo di Stefano e l’altra di Serena e del giornalista della Rai Marco Ravaglioli. Ci sono anche Marco e Luca Danese, i cugini. E sono loro, tutti insieme, ad accogliere ex ambasciatori e capi di gabinetto, alti burocrati e parlamentari figli della diaspora scudocrociata; e naturalmente sacerdoti. Il segretario di Stato vaticano, Tarcisio Bertone, si è offerto di celebrare la messa. E anche il suo predecessore, il decano del Sacro Collegio, Angelo Sodano.
«E il cardinale Fiorenzo Angelini non viene?», si chiedono nel salottino con le cineserie e le scatoline d’argento allineate in ordine su un tavolino rotondo col drappo di velluto marrone. No, non ce la fa. E nemmeno il cardinale Achille Silvestrini. Sono molto vecchi anche loro, reduci di mille battaglie e pezzi d’antiquariato del «partito romano» italo-vaticano. Ci sono invece il vescovo Matteo Zuppi, parroco di Santa Maria in Trastevere, la chiesa della comunità di Sant’Egidio, e padre Luigi Venturi, il parroco di San Giovan Battista dei Fiorentini, la chiesa di quartiere dove oggi alle 17 si celebreranno i funerali in forma privata: perché la famiglia non vuole una cerimonia di Stato. Parlano tutti del «Presidente», come continuano a chiamarlo ricordando pagine ormai ingiallite di storia repubblicana. E la famiglia, con discrezione e garbo, ringrazia e stringe mani. Ma sempre un po’ appartata, cordiale e insieme vigile. Come se concedesse per l’ultima volta il padre e il nonno a quelle persone che lo hanno visto più di loro.

Non è una veglia di potenti, ma di vecchi amici. Sì, sembra che Andreotti avesse anche amici. Non piange nessuno, perché probabilmente il «divo Giulio», o «Belzebù», come lo chiamano tuttora gli avversari più irriducibili, non approverebbe. Anche Pier Ferdinando Casini e Gianni Letta sono confusi fra l’avvocato Barone e Luigi Turchi e il figlio Franz. Parlano come se tutto fosse uguale a prima. Le segretarie, Daniela e Patrizia, raccontano che lo studio a palazzo Giustiniani ormai era un guscio vuoto da mesi; e che da febbraio i figli avevano deciso di restituirlo al Senato per non tenere occupate le stanze in nome di una finzione. È passato a salutare anche il sindaco di Roma, Gianni Alemanno. Sono arrivati appena si è saputa la notizia Franco e Sandra Carraro. C’è la signora Santarelli, figlia di un amico storico dell’ex presidente. E figli e nipoti osservano, rispondono alle domande, sorridono perfino, con gentilezza.
Quando Stefano Andreotti presenta a un Gianni Letta affranto il figlio, dicendogli: «Ecco Giulio Andreotti», c’è un attimo di sorpresa. Poi spunta un ragazzo alto, con i capelli un po’ lunghi, in giacca blu e cravatta, che ha il nome del nonno e fa l’avvocato. L’altro, quello «vero», è sul letto con la coperta verde di lana a fiori e la foto di madre Teresa di Calcutta sul comodino, nella stanza a metà corridoio: quella annunciata dalla mensola di vetro dove sono esposti una parte dei campanelli d’argento che il senatore a vita ha collezionato per gran parte della sua lunga vita. Oltre la porta a due ante, in questo appartamento bello ma senza lusso, riposa quello che per decenni è stato considerato il sopravvissuto per antonomasia. Al punto che gli piaceva dire con civetteria: «Io, in fondo, sono postumo di me stesso». Perché lui continuava a vivere mentre finivano la Guerra fredda, la Prima e la Seconda Repubblica, e morivano o si dimettevano i Papi.

Non l’avevano schiantato né i processi per mafia, dai quali era uscito assolto e, per alcuni reati, solo prescritto, né un potere che aveva regole, riferimenti e protagonisti lontani ormai anni luce da lui. Finché era esistito un modo diviso fra Occidente e comunismo, Andreotti era parso eterno. Era il «suo» mondo, nel quale si muoveva con la leggiadria e il cinismo di chi ne conosceva non solo le apparenze, ma anche il sottosuolo. Aveva presieduto i suoi primi governi nel 1972, alleato con i liberali. Il terzo era stato nel 1976, appoggiato dal Pci. E l’ultimo, il settimo, nel 1989, a capo di un’alleanza con i socialisti di Bettino Craxi: l’ultimo della Prima Repubblica. Obiettivo: preservare la continuità dello Stato democristiano e un progresso senza avventure; e garantire il Vaticano, l’Europa e gli Usa come stelle polari. La Dc era solo uno strumento per governare. In realtà, la forza e il potere andreottiani erano fuori, non dentro al partito.
La sua base elettorale erano la Ciociaria, la burocrazia ministeriale romana, i conventi di suore, le congregazioni religiose. Come disse una volta lo scomparso capo dello Stato, Francesco Cossiga, Andreotti era «il popolo del Papa dentro la Dc». Oppure «un cardinale esterno», nella definizione dello storico Andrea Riccardi. Dei democristiani, di cui era un esemplare unico e dunque atipico, diffidava: forse perché aveva visto come erano stati rapidi a giubilare il suo mentore politico, Alcide De Gasperi, alla fine del centrismo e all’inizio degli Anni Cinquanta del secolo scorso. Non per nulla non aveva mai ricoperto cariche di partito, tranne quella di capogruppo alla Camera. E la sua corrente era piccola, combattiva e così variegata, per usare un eufemismo, che gli altri la chiamavano con una punta di razzismo «le truppe di colore» andreottiane.

Erano la sua piccola massa di manovra per ottenere ministeri; per garantirsi una longevità governativa dovuta non tanto alle sue strategie, quanto al ruolo di conservatore del sistema e conoscitore della macchina dello Stato. Eppure, quando la Dc finì insieme con la Guerra fredda, lui ne rimase un cultore nostalgico: capiva che l’archiviazione dell’unità politica dei cattolici era anche quella dei suoi punti cardinali e della sua cultura politica. Dopo la diaspora scudocrociata, a piazza del Gesù, sede storica della Dc a Roma, non voleva andare. Diceva che gli sembrava un condominio litigioso, con un partitino diverso a ogni piano. Da anni non era più un burattinaio. Anzi, rischiava di essere usato per operazioni politiche che non condivideva. Accadde nel 2006, quando Silvio Berlusconi lo candidò alla presidenza del Senato contro un altro ex democristiano, Franco Marini, scelto dal centrosinistra. Si illuse di essere «una goccia d’olio» in grado di sbloccare la situazione.
Ma fu la sua ultima illusione di potere, prima di un lungo oblìo dal quale è uscito solo ieri poco dopo mezzogiorno; e prima di essere di nuovo usato da partiti nei quali non si riconosce, come è accaduto dopo la notizia della sua morte. Il piccolo mondo antico che ieri si è ritrovato nel suo appartamento si è mimetizzato e adattato ai nuovi potenti. Ma sapeva che l’uomo adagiato in doppiopetto blu nella stanza accanto, e poi nella bara all’ingresso di casa, era la loro autobiografia: lo specchio nel quale per decenni la maggioranza silenziosa e moderata dell’Italia si era riflessa. Si tratta di un’Italia che ha rifiutato fino all’ultimo la sua scomparsa, perpetuando il mito dell’eternità andreottiana per non ammettere di essere postuma anche lei di se stessa. Ma «c’est fini», è finita, confessava a se stesso da tempo il suo segretario a palazzo Giustiniani, Salvatore Ruggieri.

E stavolta è finita davvero. Andreotti sarà ricordato come quello della battuta sul «potere che logora chi non ce l’ha»: un monumento lessicale a un potere senza alternativa, cresciuto negli ultimi anni della Dc; e pagato a caro prezzo quando quella stagione si è chiusa. Peccato che pochi ne ricordino un’altra, di molti anni prima. Chiesero all’allora ministro di qualcosa che avrebbe fatto se avesse avuto il potere assoluto. Andreotti ci pensò un secondo. Poi rispose: «Sicuramente qualche sciocchezza». Era una lezione di democrazia che molti, a cominciare da lui, hanno finito per rimuovere. Massimo Franco, Il Corriere della Sera, 7 maggio 2013

……Abbiamo scelto questa testimonianza di Massimo Franco, editorialista e notista politico del Corriere della Sera, per evitare elogi sperticati e altrettanto sperticati giudizi negativi. Gli uni e gli altri non sarebbero piaciuti  a Giulio a Andreotti che della discrezione fece il suo biglietto da visita. Nessuno può negare che egli sia stato uno dei cavallidi razza della Dc e nessuno può negare che egli sia stato uno statista.Ebbe molti amici, altrettanti avversari, irriducibili nemici, come il Procuratore Caselli che nemmeno dinanzi alla morte ha voluto cedere il passo alla pietà. Di certo lo avrebbe fatto Andreotti. Che ne ha passate tante ma le ha superate tutte  con lo spirito romanesco che gli fu sempre congeniale. Fu cattolico praticante e costante, sebbene, alimentata da egli stesso, è sempre circolata la battuta che voleva De Gasperi, in Chiesa, parlare con Dio e lui, Andreotti, parlare con il parroco. Perchè, ebbe a dire egli stesso, con l’ironia che non gli mancava mai, il parroco ha anche i voti. Che lo sommersero sempre di largo suffragio, specie nella sua terra di origine,  la Cioaciaria, che egli amò, a modo suo,  profondamente. Senza darlo a vedere, come con le donne, per le quali si disse che non ne aveva mai baciato una, e tanto gli bastò per dire, a proposito del bacio a Riina, che mai avrebbe baciato un uomo, come invecve l’aveva accusato Buscetta, burattinaio che si trasformò in burattino. Andreotti è morto in casa sua, le esequie saranno celebrate privatamente, su di lui sarà la storia a dire la parola finale. Lo ha detto il presidente Napolitano e lo condividiamo. g.

IL CINQUE MAGGIO (1821)

Pubblicato il 5 maggio, 2013 in Costume, Storia | No Comments »

Ricorre oggi l’anniversario della morte di Napoleone. Mentre tutti si affannano a rincorrere la effimera notorietà quotidiana,  pubblichiamo i versi immortali dell’Ode che Alessandro Manzoni dedicò al grande corso per celebrarne la gloria perenne, conquistata sui campi di battaglia e in giro per l’Europa.

Il Cinque Maggio

Ei fu. Siccome immobile,

dato il mortal sospiro,

stette la spoglia immemore

orba di tanto spiro,

così percossa, attonita

la terra al nunzio sta,

muta pensando all’ultima

ora dell’uom fatale;

né sa quando una simile

orma di piè mortale

la sua cruenta polvere

a calpestar verrà.

Lui folgorante in solio

vide il mio genio e tacque;

quando, con vece assidua,

cadde, risorse e giacque,

di mille voci al sònito

mista la sua non ha:

vergin di servo encomio

e di codardo oltraggio,

sorge or commosso al sùbito

sparir di tanto raggio;

e scioglie all’urna un cantico

che forse non morrà.

Dall’Alpi alle Piramidi,

dal Manzanarre al Reno,

di quel securo il fulmine

tenea dietro al baleno;

scoppiò da Scilla al Tanai,

dall’uno all’altro mar.

Fu vera gloria? Ai posteri

l’ardua sentenza: nui

chiniam la fronte al Massimo

Fattor, che volle in lui

del creator suo spirito

più vasta orma stampar.

La procellosa e trepida

gioia d’un gran disegno,

l’ansia d’un cor che indocile

serve, pensando al regno;

e il giunge, e tiene un premio

ch’era follia sperar;

tutto ei provò: la gloria

maggior dopo il periglio,

la fuga e la vittoria,

la reggia e il tristo esiglio;

due volte nella polvere,

due volte sull’altar.

Ei si nomò: due secoli,

l’un contro l’altro armato,

sommessi a lui si volsero,

come aspettando il fato;

ei fè silenzio, ed arbitro

s’assise in mezzo a lor.

E sparve, e i dì nell’ozio

chiuse in sì breve sponda,

segno d’immensa invidia

e di pietà profonda,

d’inestinguibil odio

e d’indomato amor.

Come sul capo al naufrago

l’onda s’avvolve e pesa,

l’onda su cui del misero,

alta pur dianzi e tesa,

scorrea la vista a scernere

prode remote invan;

tal su quell’alma il cumulo

delle memorie scese.

Oh quante volte ai posteri

narrar se stesso imprese,

e sull’eterne pagine

cadde la stanca man!

Oh quante volte, al tacito

morir d’un giorno inerte,

chinati i rai fulminei,

le braccia al sen conserte,

stette, e dei dì che furono

l’assalse il sovvenir!

E ripensò le mobili

tende, e i percossi valli,

e il lampo dè manipoli,

e l’onda dei cavalli,

e il concitato imperio

e il celere ubbidir.

Ahi! Forse a tanto strazio

cadde lo spirto anelo,

e disperò; ma valida

venne una man dal cielo,

e in più spirabil aere

pietosa il trasportò;

e l’avviò, pei floridi

sentier della speranza,

ai campi eterni, al premio

che i desideri avanza,

dov’è silenzio e tenebre

la gloria che passò.

Bella Immortal! Benefica

Fede ai trionfi avvezza!

Scrivi ancor questo, allegrati;

ché più superba altezza

al disonor del Gòlgota

giammai non si chinò.

Tu dalle stanche ceneri

sperdi ogni ria parola:

il Dio che atterra e suscita,

che affanna e che consola,

sulla deserta coltrice

accanto a lui posò.

da PensieriParole <http://www.pensieriparole.it/poesie/poesie-d-autore/poesia-19319>

L’ELEZIONE DI PAPA FRANCESCO UNA SCELTA GEOPOLITCA COME QUELLA DI WOJTYLA, di Vittorio Messori

Pubblicato il 14 marzo, 2013 in Storia | No Comments »

(Ansa)

Mi scuso di cominciare con un episodio personale. Ma, come si vedrà, sullo sfondo c’è un problema molto grave che riguarda la Chiesa intera e con il quale, dunque, Francesco dovrà confrontarsi in modo prioritario. Spero dunque mi sia perdonato l’apparente personalismo.

Nel mese trascorso dalla fatidica ricorrenza di Nostra Signora di Lourdes, l’11 febbraio, innumerevoli colleghi sia italiani sia stranieri mi hanno chiesto una previsione sul cardinale che i confratelli avrebbero eletto come successore di Benedetto XVI. Sempre, senza eccezione, mi sono schermito, a nessuno ho risposto, ricordando che a un cristiano non è lecito tentare di rubare il mestiere allo Spirito Santo; e rievocando episodi, vissuti di persona nella redazione dei giornali, in cui le indicazioni dei papabili da parte degli esperti erano state regolarmente smentite. Per questo motivo, pur scusandomi, non ho partecipato a quella sorta di divertissement dei colleghi del Corriere che, sorridendo, hanno indicato ciascuno una loro terna.

Ho fatto una sola eccezione al riserbo che mi era imposto con un collega – che è anche un vecchio amico e col quale ho scritto un libro sulla fede – Michele Brambilla, ora a La Stampa ma formatosi in questo nostro quotidiano e buon conoscitore dei problemi religiosi. Chiedendogli di tenere per sé la cosa, sino a Conclave concluso, gli ho proposto scherzosamente di farmi da notaio e gli ho affidato un nome, uno soltanto: Jorge Mario Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires. L’amico collega mi ha telefonato anche ieri, sotto il diluvio di piazza San Pietro dove attendeva la fumata e mi ha ricordato quella previsione, chiedendomi se la confermavo: gli ho detto che mi sembrava di poterlo fare. Michele mi ha ricordato che Bergoglio non era tra coloro che la maggioranza dei colleghi dava come papabile: almeno in questo Conclave, mentre in quello che elesse Joseph Ratzinger pare sia stato colui che ebbe il maggior numero di voti dopo l’eletto. Ma otto anni sono passati, il cardinal Bergoglio ha ormai 76 anni, tutti attendevano un Papa nel pieno delle forze. Un limite che qualcuno aveva fissato sotto i 65 anni. Tra l’altro, sarebbe stato il primo gesuita a divenire Papa, dignità alla quale la Compagnia non ha mai mirato, secondo la raccomandazione del fondatore Ignazio. Eppure, insistetti su quella candidatura argentina.

Doti da indovino, confidenze del Paraclito, collegamenti occulti con le Sacre Stanze cardinalizie? Macché, non facciamola grossa, solo un poco di conoscenza della realtà della Chiesa attuale. Avevo infatti spiegato all’amico: «In Conclave, dove si conosce la condizione della Chiesa nel mondo intero, si potrebbe decidere per una scelta «geopolitica», come fu per Karol Wojtyla. Una scelta fortunata: non soltanto si ebbe uno dei migliori pontificati del secolo, ma si gettò nel panico la Nomenklatura dell’Unione Sovietica e di tutto l’Est che prevedeva guai, da un Papa polacco. Non sbagliava nello spaventarsi. In effetti, vennero Walesa, Solidarnosc, i cantieri Lenin di Danzica, gli scioperi operai che per la prima volta un regime comunista non osò reprimere nel sangue. Fu quella la crepa che, allargandosi, alla fine fece cadere tutti i muri dell’Impero. Ma nulla sarebbe stato possibile senza un Pontefice polacco, e di quale tempra e prestigio!, che sorvegliava e consigliava dal Vaticano». Ebbene, continuavo nel ragionamento, oggi una scelta geopolitica potrebbe rivolgersi in due direzioni: chiamare alla cattedra di Pietro il primo cinese nella storia che partecipi a un Conclave, l’arcivescovo di Hong Kong, John Tong Hon. Il panico, stavolta, non sarebbe a Mosca o a Varsavia ma a Pechino, nella capitale della superpotenza del futuro, dove il governo – non potendo estirpare i cattolici, coriacei alle persecuzioni – ha tentato di creare una Chiesa nazionale, staccata da Roma, nominando persino i vescovi. E i credenti fedeli al Papa sono ridotti alla clandestinità. come continuare a tenerli nelle catacombe o nei lager, con uno dei loro divenuto Papa?


Ma la Chiesa non ha mai fretta, giudica secondo i tempi delle «lunghe durate», come dicono gli storici degli Annales, il turno della Cina verrà probabilmente in un prossimo Conclave allorché, come capita in tutti i regimi totalitari, il sistema comincerà il declino e sarà indebolito, pronto per il colpo di grazia. E in questo, di Conclave? In questo, pensavo, c’era spazio per un’altra scelta geopolitica e stavolta davvero urgente, anzi urgentissima, anche se in Europa non si conosce la serietà dell’evento. Succede, cioè, che la Chiesa romana sta per perdere quello che considerava il «Continente della speranza», il Continente cattolico per eccellenza nell’immaginario comune, quello grazie al quale lo spagnolo è la lingua più parlata nella Chiesa. Il Sudamerica, infatti, abbandona il cattolicesimo al ritmo di migliaia di uomini e donne ogni giorno. Ci sono cifre che tormentano gli episcopati di quelle terre: dall’inizio degli anni Ottanta ad oggi, l’America Latina ha perso quasi un quarto di fedeli. Dove vanno? Entrano nelle comunità, sette, chiesuole degli evangelicals, i pentecostali che, inviati e sostenuti da grandi finanziatori nordamericani, stanno realizzando il vecchio sogno del protestantesimo degli Usa: finirla, anche in quel Continente, con la superstizione «papista». Occorre dire che i grandi mezzi economici di cui quei missionari dispongono attirano i molti diseredati di quelle terre e li inducono a entrare in comunità dove tutti sono sorretti anche economicamente. Ma c’è pure il fatto che le teologie politiche dei decenni scorsi, predicate da preti e frati divenuti attivisti ideologici, hanno allontanato dal cattolicesimo quelle folle, desiderose di una religiosità viva, colorata, cantata, danzata. Ed è proprio in questa chiave che il pentecostalismo interpreta il cristianesimo e attira fiumane di transfughi dal cattolicesimo. Dunque, i padri del Conclave probabilmente avrebbero valutato l’urgenza di un intervento, secondo un programma proposto e gestito da Roma stessa, insediandovi come Papa uno di quel Continente.

Ma l’emorragia riguarda soprattutto il Brasile e l’America delle Ande: perché, se Papa sudamericano doveva essere, perché un argentino, un arcivescovo di un Paese meno toccato dalla fuga verso le sette? Probabilmente ha giocato il fatto che il cardinal Bergoglio (a parte l’alta qualità dell’uomo, la preparazione teologica, l’esperienza) è al contempo iberoamericano ed europeo. La sua è una famiglia di immigrati recenti dall’astigiano, l’italiano è la sua seconda lingua materna: poiché per la Chiesa non sono urgenti solo i problemi di oltreatlantico ma anche quelli di un riordino energico della Curia, occorreva un uomo che sapesse fronteggiare certe situazioni vaticane. Insomma, non una predizione la mia, un semplice ragionamento. Molti altri ragionamenti saranno necessari, a cominciare dalla scelta del nome, Francesco, inedito nella storia del papato. Ma l’ora è tarda, il tempo stringe. Ci sarà tempo per riprendere il discorso. Vittorio Messori

BENVENUTO AL NUOVO PAPA: FRANCESCO, L’UMILE CARDINALE JORGE MARIO BERGOGLIO

Pubblicato il 13 marzo, 2013 in Storia | No Comments »

Joge Mario Bergoglio

Jorge Mario Bergoglio, gesuita, Arcivescovo di Buenos Aires (Argentina), Ordinario per i fedeli di rito orientale residenti in Argentina e sprovvisti di Ordinario del proprio rito, è nato a Buenos Aires il 17 dicembre 1936. Ha studiato e si è diplomato come tecnico chimico, ma poi ha scelto il sacerdozio ed è entrato nel seminario di Villa Devoto.

L’11 marzo 1958 è passato al noviziato della Compagnia di Gesù, ha compiuto studi umanistici in Cile e nel 1963, di ritorno a Buenos Aires, ha conseguito la laurea in filosofia presso la Facoltà di Filosofia del collegio massimo San José di San Miguel. Fra il 1964 e il 1965 è stato professore di letteratura e di psicologia nel collegio dell’Immacolata di Santa Fe e nel 1966 ha insegnato le stesse materie nel collegio del Salvatore di Buenos Aires. Dal 1967 al 1970 ha studiato teologia presso la Facoltà di Teologia del collegio massimo San José, di San Miguel, dove ha conseguito la laurea. Il 13 dicembre 1969 è stato ordinato sacerdote. Nel 1970-71 ha compiuto il terzo probandato ad Alcala de Henares (Spagna) e il 22 aprile 1973 ha fatto la sua professione perpetua. E’ stato maestro di novizi a Villa Barilari, San Miguel (1972-1973), professore presso la Facoltà di Teologia, Consultore della Provincia e Rettore del collegio massimo.

Il 31 luglio 1973 è stato eletto Provinciale dell’Argentina, incarico che ha esercitato per sei anni. Fra il 1980 e il 1986 è stato rettore del collegio massimo e delle Facoltà di Filosofia e Teologia della stessa Casa e parroco della parrocchia del Patriarca San José, nella Diocesi di San Miguel. Nel marzo 1986 si è recato in Germania per ultimare la sua tesi dottorale; quindi i superiori lo hanno destinato al collegio del Salvatore, da dove è passato alla chiesa della Compagnia nella città di Cordoba come direttore spirituale e confessore. Il 20 maggio 1992 Giovanni Paolo II lo ha nominato Vescovo titolare di Auca e Ausiliare di Buenos Aires. Il 27 giugno dello stesso anno ha ricevuto nella cattedrale di Buenos Aires l’ordinazione episcopale dalle mani del Cardinale Antonio Quarracino, del Nunzio Apostolico Monsignor Ubaldo Calabresi e del Vescovo di Mercedes-Lujan, Monsignor Emilio Ogénovich. Il 3 giugno 1997 è stato nominato Arcivescovo Coadiutore di Buenos Aires e il 28 febbraio 1998 Arcivescovo di Buenos Aires per successione, alla morte del Cardinale Quarracino.

E’ autore dei libri: Meditaciones para religiosos del 1982, Reflexiones sobre la vida apostolica del 1986 e Reflexiones de esperanza del 1992. E’ Ordinario per i fedeli di rito orientale residenti in Argentina che non possono contare su un Ordinario del loro rito. Gran Cancelliere dell’Università Cattolica Argentina. Relatore Generale aggiunto alla 10/a Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi (ottobre 2001). Dal novembre 2005 al novembre 2011 è stato Presidente della Conferenza Episcopale Argentina. Dal Beato Giovanni Paolo II creato e pubblicato Cardinale nel Concistoro del 21 febbraio 2001, del Titolo di San Roberto Bellarmino.

.……….La preghiera per Papa Benedetto XVI, la preghiera per Lui, la preghiera per il mondo: così si è presentato, emozionato e umile, al popolo  romano e straniero che gremiva Piazza San Pietro e alle centinaia di milioni di credenti che alla notizia della fumata bianca, alla quinta votazione del Conclave, lo  hanno seguito dinanzi alle televisioni di tutto il mondo, il nuovo Papa, il cardinale di Buenos Aires Jorge Mario Bergoglio che ha preso il nome del Santo Patrono d’Italia, Francesco, il primo Papa ad assumere questo nome, dopo i  265   che si sono seduti sul trono di San Pietro.

ADDIO AL PAPA BENEDETTO, UMILE SERVO NELLA VIGNA DEL SIGNORE

Pubblicato il 28 febbraio, 2013 in Storia | No Comments »

Dalle otto di questa sera, la Sede di Pietro sarà vacante. Secondo una modalità senza precedenti nei duemila anni di storia della Chiesa. Il Papa rinuncia al ministero petrino senza, per questo, scendere dalla barca di Pietro. Perché il suo accettare «sempre» e «per sempre» la chiamata rivoltagli dal Signore il 19 aprile del 2005, non è contraddetto dalla sua scelta. Perché «il “sempre” è anche un “per sempre”», e non c’è, da questo, ritorno a una vita “normale”. «Non abbandono la croce, ma resto in modo nuovo presso il Signore Crocifisso. Non porto più la potestà dell’officio per il governo della Chiesa, ma nel servizio della preghiera resto, per così dire, nel recinto di San Pietro».

Congedandosi ieri dai fedeli, nella sua ultima udienza generale, Benedetto XVI ci ha fatto l’ultimo regalo di un altro, indimenticabile discorso. Intriso di commozione per il momento e di amore per la Chiesa, e di riconoscenza per quanto ricevuto. Un discorso semplice e, a un tempo, altissimo, per ringraziare di quanto gli è stato donato, e senza un cenno a quanto lui ha dato. Alla Chiesa, a tutti noi. A un mondo che ieri ha seguito il suo saluto in silenzio, trovando nelle sue parole pacate, quiete, serene, le risposte a tutti i “perché” – gli umanissimi, sgomenti perché? di chi il Papa lo ama, ma anche i perché, senza punto interrogativo, di chi ha preteso di spiegare le “dimissioni” in una logica mondana – che in questi giorni si sono affastellati l’uno sull’altro attorno alla rinuncia.

Adesso capiamo, sappiamo. Da stasera, il Papa è nascosto “agli occhi del mondo”, ma non “nascosto al mondo”. C’è. Ci è vicino. Un distacco necessario, dopo che «in questi ultimi mesi, ho sentito che le mie forze erano diminuite», maturato nella preghiera «per farmi prendere la decisione più giusta non per il mio bene, ma per il bene della Chiesa». Fino a una scelta compiuta «nella piena consapevolezza della sua gravità e anche novità, ma con una profonda serenità d’animo».

Perché «amare la Chiesa significa anche avere il coraggio di fare scelte difficili, sofferte, avendo sempre davanti il bene della Chiesa e non se stessi». Scelta grave, dunque. Stridente con un mondo che cerca disperatamente, quasi a tutti i costi, di vivere sotto i riflettori, e rispetto al quale Papa Benedetto ci ha mostrato l’imprescindibile valore dell’essere.

Un essere contrapposto a un apparire che, sempre più spesso, malinconicamente, è solo un sembrare. Essere uomo di fede radicalmente, fino in fondo, senza compromessi. Testimoniando, ancora una volta, la coerenza con la sua idea di essere sacerdote, che non può, non deve coincidere mai, in nessun modo, con l’attaccamento a un ruolo o a una carriera, ma ministero, servizio, a ogni livello, in ogni momento, della Chiesa e alla Chiesa. Chiesa che non è nostra, ma di Dio. C’è voluto un coraggio da leone, e una fede incrollabile, per fare quello che Papa Benedetto ha fatto. Non lo potremo mai ringraziare abbastanza, per questo e per come, da padre e da maestro, ce lo ha spiegato e sempre meglio fatto comprendere. E se, umanamente, non riusciamo a non sentirci un po’ tristi, anche questo, paradossalmente, fa parte di quella «gioia di essere cristiano» che Papa Benedetto, salutandoci, ci augurato di poter noi tutti, sempre, sentire. Salvatore Mazza, 28 febbraio  2013

PAPA BENEDETTO: IL SEME FERTILE DELLA RINUNCIA

Pubblicato il 13 febbraio, 2013 in Storia | No Comments »

Con il passare delle ore appare sempre più evidente che il gesto con cui Benedetto XVI ha posto fine al suo pontificato, lungi dall’essere un gesto di «rinuncia», è stato in realtà l’opposto: un gesto di governo di grande portata e insieme un atto di alto magistero spirituale. Un gesto che ha qualcosa di quella risolutezza del pensiero, pronta a divenire decisione concreta nella prassi, di cui negli ultimi due secoli hanno dato tante prove le vicende della Germania di cui Ratzinger è un figlio.

Le dimissioni papali vogliono dire con la forza delle cose un’oggettiva desacralizzazione della sua carica. Il contenuto teologico di questa (l’essere cioè egli il vicario di Cristo) rimarrà pure inalterato, ma sono i suoi modi di designazione e il suo esercizio, la sua «aura», che vengono riportati a una dimensione assolutamente comune. Se infatti è possibile che il Papa si dimetta – rovesciando così una prassi secolare del vertice supremo – allora anche altre novità sono possibili. Anche altre prassi secolari possono egualmente essere rovesciate ai livelli inferiori. Con il gesto di Benedetto XVI è dunque il modo d’essere della struttura centrale del governo della Chiesa che viene in realtà messo in discussione: sottoposto al riscontro dei fatti, alla dura prova del tempo e della pochezza umana. E i fatti di quella struttura, come si sa, hanno offerto ultimamente uno spettacolo penoso di cattivi costumi, di calunnie, di giochi di potere, di ambizioni senza freno, di latrocini. Colpa delle regole fin qui in vigore nella Curia e non solo lì: ma quelle regole possono e devono cambiare, dice il gesto del Papa. Come per l’appunto egli ha fatto con una regola (e quale regola!) che lo riguardava. Può ancora, per esempio, la sua stessa elezione essere riservata a un pugno di anziani oligarchi maschi per entrare nel cui novero non si bada a nulla? Può ancora il potere delle Congregazioni essere tutto concentrato nelle loro mani? È ammissibile che esista tuttora un bubbone come lo Ior, la banca vaticana?

Le dimissioni di Benedetto XVI interrogano esplicitamente la Chiesa su queste e molte altre questioni di fondo. Con un sottinteso non detto che però non è difficile intuire: o voi o io. In questo senso esse rappresentano un gesto di governo di assoluta risolutezza: l’unico probabilmente che gli consentiva il suo isolamento politico e la fragilità del consenso interno. Un gesto estremo, il più clamoroso, compiuto senza esitare.

Tuttavia, si dice, le dimissioni sono pur sempre un tirarsi indietro, una rinuncia. Certamente. Ma una rinuncia che in questo caso suona come un invito a ridefinire la gerarchia delle cose, a stabilire priorità più autentiche, a distinguere ciò che conta da ciò che non conta. E dunque a cambiare rispetto a ciò che siamo. Un invito che va ben oltre i confini della cattolicità. Di fronte al travolgente mutamento dell’epoca che incalza da ogni dove, il capo della più antica e veneranda istituzione dell’Occidente, dà una lezione spirituale di segno fortissimo mutando esso per primo attraverso la rinuncia. Le nostre società, noi stessi – esso sembra dirci – non possiamo essere più ciò che fino ad oggi siamo stati. I segni dei tempi ci impongono di trovare altre regole, di immaginare altri scopi, altri ideali per il nostro stare insieme. Dal tratto più intimo, più sobrio, più vero. È di un tale rinnovamento che abbiamo bisogno. Ma la premessa necessaria non è proprio, secondo l’esempio del Papa, dichiarare consapevolmente il proprio tempo finito?