FORZA ITALIA E L’ALLEATO INEVITABILE, di Aldo Cazzullo

Pubblicato il 7 novembre, 2015 in Il territorio | Nessun commento »

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Ma perché dovrebbe stupire, scandalizzare, dividere Forza Italia – o quel che ne resta -, il fatto che Berlusconi vada nella piazza della Lega a Bologna? Era il caso di montare uno psicodramma? Non vale neppure la pena rispondere a chi sta cercando di creare un clima da luglio 1960: è evidente che qualsiasi forza politica democratica ha diritto di espressione in qualsiasi città; e proprio da Bologna, con una manifestazione dal titolo molto esplicito, Grillo lanciò la sua rincorsa al 25 per cento. Più interessante è capire perché desti meraviglia e acrimonia, anche dentro Forza Italia, la circostanza che il fondatore manifesti con la Lega .

Non c’è dubbio che, se dovesse scegliere un commensale o un compagno di vacanze, Berlusconi preferirebbe Renzi a Salvini. Ma, dopo la fine delle larghe intese e dopo la rottura del patto del Nazareno, l’alleanza con i leghisti e la ricostruzione del centrodestra è per lui la via obbligata. Ogni leader politico ha uno schema in testa. E con quello gioca la sua partita. Lo schema di Berlusconi fin dal ‘94 è sempre stato unire tutti gli oppositori della sinistra, dai moderati ai radicali, senza arretrare di fronte a nulla: il Bossi secessionista, il Fini secondo cui Mussolini era il più grande statista del Novecento, e poi gruppuscoli e personaggi anche meno significativi. Non si vede perché non dovrebbe cercare anche ora l’alleanza con una Lega in salute, oltretutto in un momento in cui Salvini sembra aver rinunciato, almeno a parole, alla scorciatoia populista – l’uscita dall’euro, la guerra a Berlino e a Bruxelles – che la svolta greca ha dimostrato impraticabile.

Berlusconi rischia di sottomettersi a Salvini? Ma il consenso ormai è lì, lì ormai – anche a causa degli errori di questi anni – sono i suoi elettori, non al centro, presidiato da Renzi: un’area in cui sarà molto difficile che partitini nati da operazioni di Palazzo si trasformino in una forza politica autonoma e competitiva alle elezioni. E, se vuole conservare un ruolo di raccordo, Berlusconi deve stare dov’è il consenso; tentando di orientarlo in una prospettiva ragionevole di opposizione e di alternanza, anziché verso una deriva antisistema. Che poi nel ruolo di trait d’union che fu di Tremonti ci sia oggi il suo arcinemico Brunetta – grande sostenitore della flat tax , l’aliquota unica proposta dal Carroccio – è solo un’apparente bizzarria che conferma la regola della politica italiana degli ultimi vent’anni.

Non è impossibile che sia proprio la Lega a esprimere il candidato premier del centrodestra. Anche la Cdu – mutato il molto che c’è da mutare – nel 1998 lasciò che corresse per la cancelleria il capo degli alleati bavaresi della Csu: Stoiber però fu travolto dal socialdemocratico Schröder, il cui slogan era appunto «Die Neue Mitte», il nuovo Centro. Al di là della dimostrazione di forza a Bologna, per Salvini un ballottaggio contro Renzi sarebbe ostico; tanto più che il suo sbarco al Sud per ora è fallito, perché la Lega Sud non può nascere come una sottomarca di un prodotto del Nord. Ma se Salvini e Berlusconi trovassero insieme un uomo davvero nuovo, credibile e fuori dai giochi, come è stato Brugnaro per Venezia, allora l’esito finale potrebbe riaprirsi; perché il centrodestra in Italia ha una riserva di voti più ampia, e non è scontato che lo schema di Renzi – giocarsi la partita a tutto campo, ponendosi non come antiberlusconiano ma come postberlusconiano – porti i voti necessari a compensare l’emorragia a sinistra. Restare accanto alla Lega, per ricostruire un’alleanza credibile in futuro per il governo del Paese: al di là delle intemperanze verbali che certo ascolteremo domani da piazza Maggiore, Berlusconi non ha prospettive diverse da questa. Aldo Cazzullo, Il Corriere della Sera, 7 novembre 2015

….Aldo Cazzulo non è un “uomo di destra”, anzi è notoriamente su posizioni politiche molto lontane dalla Destra,  per cui c’è da stupirsi di quanto oggi scrive, anche paventando una possibile capacità di vittoria di un centro destra riaggregato alle prossime scadenze elettorali, vuoi amministrative, vuoi politiche. C’è da stupirsi, certo,   e magari anche da immaginare un qualche sospetto che si tratti di una tesi trappola, cioè sostenere la ineluttabilità della riaggregazione del centro destra e nell’ambito di questa il riavvicinamento di Forza Italia e Berlusconi alla Lega Nord e a Salvini,  per far scappare  gli elettori moderati, quelli non proprio felici del linguaggio di Salvini, allo scopo, nascosto, di indurli a rivolgersi al nuovo  ( e orrendo) nuovo centro  rappresentato da Renzi e dal suo partito in cui sono ormai più i transfughi che provengono da ogni parte politica che non gli originari fondatori del PD, cioè ex comunisti e ex cattolici democratici. Può essere, certo, perchè in politica ogni sospetto è lecito, anzi utile, ma nella fattispecie Cazzullo ha indicato una via obbligata per Berlusconi e per l’intero centrodestra: se non ci si aggrega non si va da nessuna parte, divisi si resta solo testimoni senza voce nel panorama politico del nostro Paese e del Continente che non è quello che avevano e avevamo sognato, cioè un continente capace di far politica, di essere interprete di tutti senza rinnegare le Patrie di nessuno. Sin qui la strategia, cioè unirsi. Poi c’è la tattica, cioè nell’ambito della riaggregazione individuare gli strumenti e i percorsi più utili per raggiungere l’obiettivo. E forse più che nella strategia, inevitabile, è nella tattica che si può e si deve misurare la capacità di una nuova alleanza che possa trasformarsi in forza di governo. E in questo senso non sono mancati nel passato, recente  e meno recente, molti errori, ma anche altrettanti esempi di intelligenza e buon senso. Da uomini di destra qual siamo,   senza se e senza ma, confidiamo con tutta la nostra forza che più che agli errori del passato, da passato  si attinga il buon esempio. g.

LA NAZIONE SUL PIANO INCLINATO, di Michele Ainis

Pubblicato il 12 ottobre, 2015 in Politica | Nessun commento »

Guerra o pace? Né l’una, né l’altra: noi siamo per la guerra pacifica. Due Camere o una sola? Lasciamole agli altri queste soluzioni rozze; in Italia avremo una Camera e mezza. E da chi verrà eletto il nostro mezzo Senato? Dal popolo o dai consiglieri regionali? Risposta: lo eleggeranno i cittadini attraverso il Consiglio regionale. E il matrimonio gay? Niente da fare, però il Parlamento sta approvando le unioni matrimoniali. Meglio il parlamentarismo oppure il presidenzialismo? Meglio il presidenzialismo mascherato dentro un parlamentarismo taroccato.
È la nostra inclinazione nazionale: ogni decisione corre sempre su un piano inclinato. Anche quando si tratta di decidere fra attacco e difesa, fra resistenza e indifferenza. Anche se di mezzo c’è una guerra, ovviamente senza dichiararla.

Useremo, pare, quattro bombardieri contro l’Isis; ma c’è voluta un’anticipazione del Corriere per scoprirlo. E come potrà scoprirlo il Parlamento? Forse con un’informativa del governo, forse con un voto in commissione. Tuttavia non è questa la regola: perché la Costituzione ammette la sola guerra difensiva (articolo 11) e a condizione che venga deliberata dalle Camere (articolo 78). Magari sarà una regola sbagliata, ma allora cambiamola invece d’aggirarla. Nella primavera del 1999, durante i bombardamenti in Kosovo, fu Clemente Mastella a suggerirne la modifica; ottenne soltanto una modifica verbale, perché da lì in poi le guerre sono diventate «ingerenze umanitarie». N el frattempo la Costituzione sta cambiando, o forse no. Perché la novità più innovativa non è scritta nero su bianco nel testo di riforma, bensì nella legge elettorale. Con un premio di maggioranza concesso al partito – anziché alla coalizione – intascheremo l’elezione diretta del presidente del Consiglio, senza correggere una virgola della nostra forma di governo parlamentare. Che dunque rimarrà viva ma esangue, come una fanciulla addentata dal vampiro. Il presidenzialismo venne già proposto dai monarchici nel 1957; successivamente dai missini; poi da Craxi nel congresso di Rimini del 1987; dalla Bicamerale di D’Alema nel 1997; da Berlusconi nel 2008. Nessuno di loro vi riuscì, per la medesima ragione che sta permettendo a Renzi la riuscita. Difatti alle nostre latitudini vige una regola d’acciaio: se vuoi fare, non lo devi dire. E se invece dici, usa almeno due parole: una per dire, l’altra per disdire.

È il caso del nuovo articolo 57 della Carta, che disciplina la composizione del Senato. Il comma 2 ne stabilisce l’elezione, il comma 5 la durata. Ma la norma elettorale ha una gamba di qua e una gamba di là: nel comma 2 decidono i Consigli regionali, nel comma 5 gli elettori. Contorsioni logiche, acrobazie semantiche. Del resto siamo pur sempre il Paese che ha introdotto il divorzio senza menzionarlo. Sicché la legge n. 898 del 1970 divorziò dal vocabolario, riferendosi sempre e soltanto allo «scioglimento del matrimonio», alla rottura della «comunione spirituale e materiale tra i coniugi». Mezzo secolo dopo, stiamo per fare il bis con il matrimonio omosessuale. Nel disegno di legge Cirinnà non figura nemmeno una volta l’aggettivo, mentre il sostantivo si traduce in un’«unione civile», anzi in una «specifica formazione sociale». La forma della formazione, ecco il problema.
C’è una vittima, c’è un agnello sacrificale nei nostri costumi politici e giuridici. Ne fa le spese la legalità, perché in Italia la legge è opaca, ingannevole, insincera. E in ultimo nessuno mai risponde delle proprie azioni, delle proprie decisioni. Per rispondere, d’altronde, servirebbe una domanda chiara, come quella d’un bambino. Invece la Repubblica italiana è diventata adulta, ma non è né vergine né madre: è sempre leggermente incinta . Michele Ainis, 12 ottobre 2015, Il Corriere della Sera

L’AMBIGUA RICERCA DELLE ELITE, di Ernesto Galli della Loggia

Pubblicato il 27 settembre, 2015 in Politica | Nessun commento »

La corsa dei parlamentari di destra e di centro ad abbandonare i loro schieramenti per andare a sinistra riproduce più o meno quanto sta avvenendo nella società italiana. È ormai da qualche tempo, infatti, che salvo rare eccezioni i vertici che contano, gli organismi significativi, tutte le voci influenti, vanno orientandosi in una sola direzione: quella di Matteo Renzi, o, se si può dir così, del renzismo. Non già verso il Pd, tanto meno verso la sinistra: verso il presidente del Consiglio. Si tratta di una rilevante differenza rispetto al passato più recente; anche se in qualche modo essa segna il ritorno a un modello antico della nostra storia nazionale. Dagli anni Ottanta in poi, un generico orientamento verso il centrosinistra, infatti, è stato sempre più largamente maggioritario nell’élite italiana. Il fenomeno era già evidentissimo nell’ultima fase della Prima Repubblica, sicché, divenuto il Pd l’erede di fatto di tutto quel sistema ideologico-partitico, nulla di più logico che fosse poi esso ad attrarre le maggiori simpatie. Simpatie che tuttavia si sono trovate a dover fare regolarmente i conti con le incertezze ideologiche e le nebulosità programmatiche di una base — esemplarmente rappresentata da un leader come Massimo D’Alema — immobilizzata tra nostalgie della «Ditta» e velleità di un mai meglio precisato «aggiornamento». Dall’altro canto, specie dopo la comparsa di Berlusconi, l’affiliazione al centrodestra dell’élite italiana non è stata certo insignificante.

Ma dal punto di vista dell’élite, alquanto circoscritta, direi: in pratica limitata agli ambienti economici e degli affari coinvolti nella sfera degli appalti e dei contratti pubblici, alle pur vaste cerchie interessate alle migliaia di nomine istituzionali, nonché a un certo mondo alto-burocratico. Per il resto sporadici fenomeni sostanzialmente di opportunismo, ma nulla di più. Renzi ha rotto questo schema. Mandato in soffitta il vecchio Pd e alzando l’insegna «Le cose da fare in questo Paese non sono né di destra né di sinistra, sono da fare e basta», egli sta rapidamente riunendo intorno alla propria persona tutta l’Italia del potere, tutta l’Italia che conta, proveniente dall’una o dall’altra precedente affiliazione. È il ritorno all’antico di cui dicevo sopra. La grande stabilizzazione politica italiana ha sempre funzionato in questo modo, infatti: intorno a un uomo, non intorno a un partito. E in primo luogo agglutinando intorno a quella persona la grande maggioranza dell’élite. Fu così fin dall’inizio con Cavour, poi con Crispi e Giolitti. E come il potere italiano fu assai più che fascista mussoliniano, così in seguito non fu certo democristiano bensì degasperiano, per concedere poi la propria fiducia ai due soli veri leader che la Dc ebbe dopo di lui, Fanfani e Andreotti. Ci provò a suo tempo anche Craxi, riuscendovi solo pochissimo e per brevissimo tempo. Berlusconi non c’ha neppure provato. È un fatto, mi pare, che nella nostra storia la classe dirigente, pur intrattenendo per antica tradizione un fortissimo rapporto con la politica, si è mostrata nel complesso quasi per nulla interessata, invece, a un qualsiasi rapporto con i partiti. Pronta ad appoggiarne i capi, ma anche a rapidamente abbandonarli.

Forse neppure la «Repubblica dei partiti» è mai stata realmente la Repubblica delle élite italiane: le quali infatti l’hanno lasciata colare a picco senza muovere un dito. Tutto sta a indicare, insomma, che specialmente per le classi dirigenti di questo Paese è stato sempre più facile trovare un raccordo stabile e fisiologico con la politica rappresentata da una persona piuttosto che da un partito. «Ma che male c’è?», si obietta; «Se le cose da fare non sono né di destra né di sinistra, non basta che ci sia una persona che le voglia e le sappia fare?». Questa obiezione esprime uno stato d’animo diffuso, dovuto all’immobilismo che da anni soffoca l’Italia, alla sensazione che in questo Paese da anni nulla si muova, e che tutto ciò ci stia uccidendo. È lo stato d’animo che gioca a favore dell’attivismo del nostro giovane presidente del Consiglio, giustificando il consenso personale che egli raccoglie.

Ma le cose non sono così semplici come possono apparire. Innanzi tutto, perché anche ammesso che le cose da fare non abbiano alcun colore partitico particolare, è difficile immaginare, però, che un tal colore non ce l’abbia neppure il modo di farle. Che per esempio vi sia un solo e unico modo di mettere o non mettere una tassa sulla casa o di decidere un piano di investimenti pubblici, che una riforma scolastica o una politica circa l’immigrazione concepite dalla destra siano eguali a quelle concepite dalla sinistra. Le idee, insomma, fanno pur sempre la differenza. E quando si dice idee, si dice contenuti concreti, scale di valori, priorità, obiettivi: tutte cose che fino a prova contraria non solo in politica ma nella vita di una collettività contano. E che dividono, che giustamente, fisiologicamente, dividono. Si chiama democrazia: nella quale, per l’appunto, contano sì gli uomini, conta sì la capacità di comando e di realizzazione di un leader, ma dovrebbero necessariamente contare anche le idee.

Nel formarsi di un vasto seguito personale intorno a un capo non c’è nulla di male. Proprio la democrazia ha bisogno di leadership forti, e ne ha bisogno in modo particolare oggi l’Italia. È piuttosto la rapidità e l’unanimismo con cui un tal seguito si sta formando intorno a Renzi nelle aule del Parlamento e fuori, che suscita qualche perplessità. Se nel primo caso si tratta palesemente della non molto nobile speranza di salire sul carro del vincitore, e al momento giusto di trovare un posticino nelle liste elettorali, nel secondo sono soprattutto le élite del potere italiano che cercano un’interlocuzione politica autorevole e utile, il potere di governo di segno forte, con cui mettersi in sintonia, dal quale ispirarsi e da ispirare. Ma con quale obiettivo, per quale fine? E vogliono davvero tutte la medesima cosa e nel medesimo modo? Nell’assenza di qualunque risposta, resta l’impressione di una sostanziale indifferenza rispetto ai contenuti: sulla quale l’evanescenza di ogni visione generale in cui ormai vive l’intero Paese, a cominciare proprio dalla politica, non manca di gettare una luce inevitabilmente ambigua.Ernesto Galli della Loggia, Il Corriere della Sera, 27 settembre 2015

SENATO: UN PASSO AVANTI E TRE DUBBI, di Michele Ainis

Pubblicato il 24 settembre, 2015 in Politica | Nessun commento »

«E tu, donna, partorirai figli con dolore» ( Genesi , 3, 16). Vale per le creature umane, vale per un’istituzione femminile che si chiama Repubblica italiana. Solo che nel primo caso la gravidanza dura nove mesi, nel secondo ne sono trascorsi già diciotto. Nel frattempo la riforma costituzionale è alla terza lettura, ne mancano altre tre. Dopo l’accordo politico di ieri, tuttavia, il parto s’avvicina. Ed è un bene, perché una gestazione troppo prolungata rischia d’uccidere il bambino. Ma con quali sembianze s’affaccerà al mondo il pargoletto?

Diciamolo: decisamente più aggraziate rispetto all’ultima ecografia, e anche rispetto alla penultima. Gli emendamenti concordati recuperano il ruolo di garanzia del Senato, quantomeno rispetto all’elezione dei giudici costituzionali. Gli assegnano funzioni di controllo, che si erano perse un po’ per strada. Ne fanno un organo di raccordo sia verso il basso (le Regioni) sia verso l’alto (l’Europa). Infine introducono il principio dell’elettività dei senatori, sia pure con modalità da precisarsi in una legge successiva. Questo giornale l’aveva chiesto con un editoriale del proprio direttore (21 settembre). E soprattutto lo chiedeva il 73% degli italiani, come attesta il sondaggio Ipsos pubblicato il 16 settembre dal Corriere .

Diciamolo di nuovo: è un bel passo in avanti. Dimostra che anche Renzi l’inflessibile sa essere flessibile, quando serve per incassare un risultato. L ui stesso, d’altronde, ha ricordato che il testo originario del governo ha già subito 134 modifiche, nel ping pong fra Camera e Senato. Però non è finita, non ancora. E il lieto fine reclama ulteriori aggiustamenti su tre aspetti.

Primo: il metodo. Fin qui abbiamo assistito a un match di pugilato fra maggioranza e minoranza del Pd. Ora i due pugili si sfilano i guantoni, evviva. Ma in Parlamento non abita il partito unico fascista, ci sono pure gli altri. E andrebbero ascoltati, coinvolti, valorizzati. Sia perché la riscrittura della Costituzione esige il massimo sforzo per ottenere il massimo consenso. Sia per evitare ostruzionismi devastanti. Qualche contatto in più con gli esponenti della Lega, per esempio, ci avrebbe forse risparmiato il Carnevale degli emendamenti (85 milioni) allestito da Roberto Calderoli.

Secondo: le forme. Perché in ogni testo normativo i principi vanno poi tradotti in commi, e i commi si dislocano all’interno degli articoli. Se un comma è fuori posto, se un articolo è mal scritto, allora il principio resta informe, oppure si converte in una maschera deforme. È quanto rischia d’accadere con l’emendamento sull’elettività dei senatori: un unico periodo di 48 parole, e con due sole virgole. Prima di recitarlo bisogna fare un bel respiro. Per piacere, fate in modo che la Costituzione italiana sia scritta in italiano.

Terzo: i vuoti. Rimangono omissioni, lacune da colmare. Quanto al rafforzamento degli istituti di democrazia diretta, per esempio; e sarebbe anche un’occasione per tirare dentro i 5 Stelle. Quanto all’elezione del capo dello Stato: dal settimo scrutinio bastano i tre quinti dei votanti, anche se vota una sparuta minoranza. Quanto all’ iter legis, dove serve una cura dimagrante, perché dieci procedimenti legislativi sono davvero troppi. Quanto alla linea di confine tra materie statali e regionali, dato che in questo campo ogni pasticcio genera un bisticcio. Non è un’impresa erculea, ci si può riuscire. E se si può, si deve. Michele Ainis, Il Corriee della Sera, 24 settembre 2015

….Nonostante la buona volontà di Ainis di immaginare il passo in avanti in materia di elettività del Senato, questa non sembra  sia stata assicurata con l’emendamento presentato dalla sen. Finocchiaro e salutato come risolutivo da Bersani che forse o non l’ha letto bene o non si fida più dei suoi uomini in Senato che appaiono in ritirata strategica. Nè l’accorato appello di Ainis sui tre dubbi e la richiesta di scrivere la Carta in un buon italiano sgombrano il campo dal dubbio più grave..tante urla per niente,  meglio per confermare alle Regioni la nomina dei “senatori” versione renziana. g.

IL DESTINO INCERTO DEL CENTRODESTRA IN ITALIA, di Pierluigi Battista

Pubblicato il 11 settembre, 2015 in Politica | Nessun commento »

Silvio Berlusconi e Angelino Alfano (Afp)

Le convulsioni che scuotono il Ncd di Alfano sono l’ennesima testimonianza nel caos del centrodestra orfano della leadership di Berlusconi. Ognuno va per conto proprio, in una rissa non sempre decorosa. Latita ormai la figura del grande tessitore, del grande aggregatore. Di quello che è stato Berlusconi per un ventennio, che tutti prendevano in giro perché diceva rassemblement in modo che faceva sorridere nella sua ingenuità pre-politica, ma lui il rassemblement l’ha fatto, ha unito le anime diverse del centrodestra, ha cercato una coalizione fortissima, vincendo ripetutamente, diventando protagonista assoluto della politica italiana lungo l’intero arco della Seconda Repubblica. Oggi i suoi eredi presunti si contendono le briciole di un consenso che è evaporato in pochi anni: il Pdl prese da solo il 38% dei voti nelle elezioni nel 2008 e con la Lega di Bossi si arrivava al 45; oggi Forza Italia è a poco più del 10, e il resto si frantuma tra Lega, astensionismo e partitini microscopici, senza futuro, senza coesione, grandi apparati per piccoli consensi. Berlusconi sembra oramai imprigionato nel vortice dell’indecisione. Non sa che fare, è incerto se scatenare la guerra a Renzi o farsi suo alleato. È cupo, malinconico, catturato da una piccola corte gelosa che lo ha rinchiuso in una fortezza. Promette il grande ritorno e poi diserta persino la festa del Giornale che doveva celebrare l’anno zero di una nuova stagione berlusconiana.

Il centrodestra sembra paralizzato dalla stessa sindrome. Forza Italia è evanescente. Il Nuovo centrodestra si divide tra chi vorrebbe andare con Renzi e chi ha voglia di recitare il ruolo del figliol prodigo, contrito, desideroso di farsi perdonare dal vecchio leader in disarmo. La tentazione è di mettersi una felpa e di affidarsi al vigore mediaticamente efficacissimo di Salvini. Ma il voto a Salvini è classicamente un voto «identitario», cancella la possibilità di ogni rassemblement, rompe i rapporti con il resto dei moderati d’Europa, consegna la destra alla sua natura più radicale ed oltranzista, forte nel suo insediamento ma incapace di parlare al resto del Paese e a costruire una maggioranza in gradi di scalzare il dinamismo di Matteo Renzi. Berlusconi è incapace di prefigurare e creare il dopo-Berlusconi. Un giorno parla di una successione democratica e non monarchica, il giorno dopo uccide la prospettiva stessa delle primarie. Non sa più trasmettere alla sua Forza Italia un messaggio univoco: vuole essere un partito che segue la lezione di Cameron, della Merkel, di Ma- riano Rajoy che capeggia con i Popolari ancora il primo par- tito in Spagna, dello stesso Sarkozy, oppure vuole inseguire a braccetto di Salvini la Le Pen, Farage, Orbán nel nome dell’antieuro e della barriere ai profughi che invadono l’Europa.
L’Ncd di Alfano doveva essere il volto moderato del centrodestra: missione fallita. Ma se il centrodestra non deciderà in temi ragionevoli il suo destino, il destino stesso si sobbarcherà il compito di assegnargliene uno: la sempre più marcata irrilevanza. Pierluigi Battista, Il Corriere della Sera, 11 settembre 2015

….Terrificante ma purtroppo realistica raffigurazione dello stato del centrodestra in Italia. Conta poco ciò che è stato, conta quel che ,  e, sopratutto, quel che è destinato ad essere se le varie anime in  cui è ora maldestramente diviso,  non riusciranno  a ritrovare le ragioni e sopratutto gli obiettivi per stare insieme, individuando un goleador capace di interpretare non solo le anime del centrodestra ma anche il cuore e la mente degli elettori moderati, da sempre maggioranza silenziosa nel nostro Paese e ora disorientati e disillusi e perciò facilemente vittime del primo piefferaio che sappia suonare la musica giusta nelle loro orecchie. Ogni riferimento è semplicemente voluto. g.

I MERITI DELL’EUROPA, di Antonio Polito

Pubblicato il 2 settembre, 2015 in Il territorio | Nessun commento »

Questa estate del settantesimo anniversario dalla fine della guerra l’Europa l’ha trascorsa a litigare sull’euro, ma l’Asia la sta passando a parlare di guerra. Domani la Cina comunista celebrerà per la prima volta, ascrivendosela, la vittoria contro il Giappone, con un’esibizione di potenza militare tanto più minacciosa perché inscenata in quella piazza Tienanmen dove l’Esercito Popolare fu usato contro il suo popolo (tra parentesi: era proprio necessario mandarci il nostro ministro degli Esteri? Non bastava un ambasciatore, come hanno fatto Usa e Germania?). Né è meno surriscaldato il clima nel Paese sconfitto: in Giappone infuria il dibattito sul riarmo, il governo reinterpreta e forse emenda l’articolo 9 della Costituzione, caposaldo del pacifismo nipponico post Hiroshima, con l’ambizione di riappropriarsi del diritto di usare le forze armate; e gli studenti protestano riempiendo la piazza di Tokyo come se fossero gli anni 60, insieme alle star della musica e della tv si schierano contro il premier Abe.

Territori restano contesi, tra il Giappone e la Russia, tra il Giappone e la Cina. La Corea del Nord è uno Stato canaglia che gioca col nucleare. Tokyo si sente accerchiata, sempre meno protetta da un’America stanca di guerra, teme di non potersi più permettere il pacifismo e appare sempre più stufa di dover chiedere continuamente perdono ai suoi ex nemici (per l’agenzia di stampa ufficiale di Pechino l’attuale imperatore Akihito dovrebbe scusarsi con la Cina a nome del padre defunto Hirohito, riaprendo così la questione imperiale). Il Giappone riscopre il nazionalismo e lo nutre di un revisionismo storico che celebra, insieme alle vittime della guerra, anche i criminali di guerra sepolti con loro, e sempre più spesso tenta di ridimensionarne i crimini, a partire dallo stupro di Nanchino del 1937.

Per un europeo è sorprendente assistere al perdurare, e addirittura all’incrudelirsi di un così forte rancore per vicende storiche da cui ci dividono tre o quattro generazioni. I regimi asiatici sfruttano il patriottismo fino al punto di inventare tradizioni, per controllare il passato e far dimenticare i guai dell’oggi. È come se in Europa la Francia dedicasse una parata militare e una settimana di ferie dal lavoro a celebrare la sconfitta della Germania, o un giornale tedesco pretendesse le scuse di Elisabetta II per il bombardamento a tappeto di Dresda del 1945.

Ma la ragione per cui tutto ciò ci sembra assurdo e anacronistico non è perché la storia non si possa ripetere se non come farsa: basta guardare a ciò che sta accadendo in queste ore in Ungheria per capire che gli esseri umani sono capacissimi di ripetere anche la tragedia. Ciò che in Europa è diverso è l’atto di volontà politica con cui ci siamo buttati alle spalle il nostro tragico Novecento dando vita a una Unione tra gli Stati che si erano combattuti, trasformando cioè la fine della guerra in vera pacificazione, e l’antagonismo militare in cooperazione economica. I venti che soffiano in Asia, continente in cui questo processo non è mai nemmeno cominciato, dovrebbero ricordarcelo.

Aver messo fine alle guerre non è un merito obsoleto dell’Europa buono solo per la cerimonia del Nobel per la pace, qualcosa di così scontato e di così lontano dalle nuove generazioni da non giustificare più la fatica, le pecche e gli errori dell’Unione. Tutto sommato, è molto meglio litigare sull’euro che sul riarmo. Perfino la crisi dei migranti è una conseguenza di questo successo storico. L’Europa è un’oasi di pace circondata da un mare di guerre, attrae chi ama la vita come una calamita. O, se vogliamo, come un faro di civiltà nella notte infinita dell’odio tra i popoli . Antonio Polito, Il Corriere della Sera, 2 settembre 2015

……Ha ragione Polito a rivendicare all’Europa il merito di aver trasformato  un’area di guerre, l’ultima  è stata la più disastriosa di tutte, in un’area di pace, e che è meglio litigare sull’euro ( e non solo!) piuttosto che cannonneggiarsi l’uno con l’altro. Però dimentica Polito di sottolineare  che il merito va riconosciuto e  ascritto ai Padri dell’Europa  che perseguirono con determinazione e impegno questo obiettivo; ma quegli stessi Padri dell’Europa unita, o meglio degli Stati uniti d’Europa, pensavano ad una Europa dei Popoli e delle Nazioni, non pensavano certo all’ Europa dei burocrati e ad una unione europea solo economica e non politica, o, peggio ad una europa dedescocentrica nonostante tra i Padri  della nuoiva Europa v’era Adenauer che, però, aveva una visione molto più aperta rispetto ai tedeschi di oggi. Ai meriti, quindi, debbono far da riscontro i demeriti e se si vuole le degenerazioni rispetto all’Idea che mosse gli statisti di un sessantennio fa ad adoperarsi per creare prima le condizioni e poi le basi per costruire uno Stato sovranazionale che però non affogasse gli spiriti e le tradizioni nazionali in una burocrazia cieca ed egemonica che ha finito col fomentare le avversioni ad una unione europa che annega in un mare di proteste e contestazioni. Si può tornare indietro, recuperare lo spirito dei Padri fondatori dell’unità eurpea e solo allora i meriti  di quei “visionari” potranno conuigarsi con una nuova e più fertile stagione “europea”. g.

AMBIZIONE E DIFFICILE REALTA’, di Massimo Franco

Pubblicato il 26 agosto, 2015 in Politica | Nessun commento »

Liquidare «il ventennio» passato come un rosario di occasioni perdute dall’Italia significa stilare un verbale del declino difficilmente contestabile: anche se si dimentica l’ingresso del nostro Paese nel sistema della moneta unica, e le speranze che l’euro creò. Il problema è che nel bilancio fatto ieri da Matteo Renzi al Meeting di Comunione e liberazione a Rimini, e poi a Pesaro con l’annuncio dell’abolizione di Imu e Tasi nel 2016, risuona anche un’eco del passato. L’impressione è che il presente venga esaltato in modo eccessivo. L’idea di uno spartiacque virtuoso, rivoluzionario, appartiene ad una narrativa magari comprensibile ma controversa. È vero che per il presidente del Consiglio si trattava di tornare sulla scena dopo settimane difficili; di riaffermare un protagonismo marcato in vista di scadenze istituzionali cruciali come la riforma del Senato, e di una legge di Stabilità insidiata dalla crisi finanziaria cinese.

Proprio il contorno di incertezza, però, tende a schiacciare l’esecutivo sulle esperienze deprecate dalle quali si vuole distanziare.
È condivisibile l’analisi sull’eccesso di ideologia che tuttora permea il sistema. E l’espressione «provincialismo della paura» rende bene il modo in cui alcune forze politiche fomentano la xenofobia e il timore dei cambiamenti. Rimane però
il sospetto che il governo descriva in maniera efficace
i problemi, ma fatichi a risolverli. Per quanto sia difficile contestare la tesi del premier secondo la quale «veti e controveti» hanno bloccato il Paese, c’è da chiedersi se oggi la situazione sia così diversa. S ul Senato è lo stesso Pd di cui Renzi è segretario a seminare resistenze e incognite destinate a pesare sul merito della riforma e perfino sulla tenuta della maggioranza. Né convince del tutto la contrapposizione tra i «cattivi» che vogliono ancora l’elezione diretta dei senatori e i «buoni» che puntano a svuotarlo attraverso la riforma.

L’idea di affidare la modernità del Senato a un listino scelto dai Consigli regionali, grumi di una spesa pubblica irresponsabile e spesso di un malgoverno ai limiti dei codici, come ammette la stessa Consulta, è per lo meno opinabile. Quanto all’agenda delle priorità economiche, per il momento non è sempre decifrabile. Non solo. Quando il premier parla di abolizione delle tasse sulla casa e più in generale di abbassamento del carico fiscale, viene subito da pensare come saranno compensati.
I margini di manovra che l’Europa dovrebbe concedere all’Italia rimangono aleatori. La tentazione di sfondare il tetto del patto di Stabilità è evidente. Riflette uno scetticismo di fondo sulle politiche rigoriste dell’Ue, che anche ieri Renzi non ha nascosto; e che, va detto, trova più di una giustificazione. La prospettiva di uno strappo appare, tuttavia, altamente rischiosa. Tradisce la preoccupazione di chi si è dato obiettivi molto ambiziosi, e capisce quanto siano sfuggenti.

Il pericolo vero, per Palazzo Chigi e per l’Italia, è un limbo nel quale si sarebbe costretti a galleggiare perché il ritorno indietro comporterebbe solo una regressione; ma il futuro per ora si configura segnato da incertezze assai poco rassicuranti. Nell’abbozzo di una politica post ideologica che Renzi offre, si indovina lo sforzo di superare questo stallo; di individuare il nucleo di un nuovo modello. Riaffiora l’embrione di una formazione che non parli solo alla sinistra, e anzi si guardi da una certa sinistra passatista.
Si tratta di una sfida che comporterà rotture e traumi, dei quali già si intravedono i prodromi. Rimane da capire se il Renzi di oggi abbia la stessa forza, la stessa aura di vincente e le stesse alleanze di un anno fa: non solo per sostenerla ma per vincerla.Massimo Franco, Il Corriere della Sera, 26 agosto 2015

…….Massimo FRANCO è un giornalista molto “franco” ma contenuto nelle analisi e nei giudizi. Come in questo editoriale che pur con parole “dolci” stronca l’ennesima manifestazione di invereconda annuncite di Renzi….dal 2016 taglierà TASI e IMU, cioè qualcosa come 24 miliardi di tasse sinora incassate dai Comuni….bene, scrive Franco, ma, ironizza, sia pure con garbo lo stesso giornalista, lì dove si domanda da dove Renzi troverà i fondi per sostituire queste mancate entrate. Non lo dice sottolinea Franco e così evidenzia la colpa maggiore di Renzi, cioè fare la diagnosi, che tutti, dico tutti, sono in grado di fare ma evita di indicare la terapia. Così come quando fa ricadere le colpe dei danni presenti al passato e all’eccesso di ideologia, dimentico che le risse del presente non sono meno gravide di problemi come nel passato e che in fondo se ad un eccesso di ideologia si contrappone un eccesso di qualunquismo a buon mercato il risultato è analogo. Ma la stroncatura più feroce Franco la riserva alla riforma del Senato: individuare i futuri senatori non eletti tra i consiglieri regionali che sono l’esempio peggiore della peggiore classe dirigente di questo Paese è la scelta di chi fa finta di voler cambiare ma in verità non cambia nulla. g.

RENZI, LO STALLO E TRE VIE D’USCITA, di Antonio Polito

Pubblicato il 13 agosto, 2015 in Politica | Nessun commento »

Il presidente del Consiglio Matteo Renzi (Ansa/Ferrari)

Chi nasce tondo non può morire quadrato, dice il proverbio. Nessuna meraviglia quindi se il Senato, privo fin dall’inizio di una maggioranza politica, sembra tornato a essere la Fossa delle Marianne della legislatura. Per quanto il governo dica di avere i numeri, la realtà è che oggi i numeri a Palazzo Madama non li ha. Non li ha per la riforma costituzionale che abolirebbe il Senato elettivo (prima o poi devono essere 161, ed è risaputo che i capponi non votano per il Natale); ma potrebbero mancargli anche ogni volta che la minoranza pd decide di scavarsi una trincea identitaria. Dunque il premier ha un problema, e deve risolverlo. Finora ha praticato il divide et impera, ha assecondato la frantumazione delle forze parlamentari, ha osservato benevolmente il via vai di fuoriusciti e scissionisti, convinto che più nani ci sono in giro più lui giganteggia. La nuova legge elettorale, l’Italicum, codifica anche per il futuro questa aritmetica, togliendo valore alle coalizioni. Ma ora Renzi, al giro di boa della legislatura, deve provare a riattaccare qualche coccio, a coalizzare un arco di forze che vada oltre la sua maggioranza; perché questa, da sola, è oggi minoranza al Senato.

Le vie che Renzi può seguire sono tre. La prima è la più pragmatica. Consiste nello strappare un numero consistente di senatori pd al fronte del dissenso. Ma devono essere molti. Se Renzi non riesce almeno a dimezzare il gruppo Gotor-Chiti, gli «aiutini» esterni su cui conta potrebbero non essere sufficienti. La scissione di Verdini, che è sembrata più concessa che subita da Berlusconi, può essere un veicolo per nuovi soccorsi sottobanco, ma entro certi limiti. Pareggiare così 24/26 voti contrari nel Pd non è possibile. Staccarne 10/12 non è affatto facile. In più l’operazione si baserebbe troppo sui trasformisti, base fragile per governare.

La seconda via è quella di uno scambio politico alla luce del sole. La minoranza pd voterebbe anche domattina il Senato non elettivo se fosse garantita da una legge elettorale con il premio alla coalizione invece che alla lista. Sarebbe la sua assicurazione sulla vita, in caso di scissione. Forza Italia ne ha a sua volta bisogno per allearsi con Salvini. E ai centristi, se vogliono davvero andare alle elezioni col Pd, servirà comunque una lista, non potendo confluirvi. Molti renziani la considererebbero una resa senza condizioni; ma se Renzi accettasse pubblicamente di ritoccare l’Italicum la partita politica cambierebbe in un istante. Non è escluso che nel prossimo dibattito in Senato sulla riforma costituzionale spunti qualche ordine del giorno che chieda al governo di farlo.

La terza via, la più impervia ma anche la più ambiziosa, sarebbe tornare al punto da cui è partita la legislatura, e cioè a un patto tra il Pd e Berlusconi. Non potrebbe essere una riedizione del Nazareno, accordo troppo oscuro e ambiguo, e comunque fallito con l’elezione di Mattarella, uomo che non l’avrebbe garantito. Oggi molti ne parlano, sia nel Pd che in Forza Italia, come di un accordo di coalizione che dia stabilità al governo; anche se nessuno sa che cosa esattamente sia, e ognuno aggiunge sempre nuovi ingredienti alla trattativa, come la giustizia. È perfino riapparso Gianni Letta, con un mezzo mandato a trattare, di cui ha fatto ampio uso nella vicenda Rai.

Si tratterebbe in ogni caso di un vero e proprio riallineamento del sistema politico, perché staccherebbe Berlusconi dalla destra di Salvini e porterebbe il Pd a una scissione con la sinistra. Forse una rotta troppo ambiziosa per chi naviga a vista. Ma Renzi è incline alla mossa del cavallo, e qualcosa dovrà pure tentarla. Non è un caso se si è tenuto finora nel manico la carta del rimpasto di governo, atteso da mesi. Non si sa mai. Antonio Polito, Il Corriere della Sera, 13 agosto 2015

….Diceva Andreotti, parlando di sè, che lui era si un nano ma in giro non vedeva poi tanti giganti.  Forse è quel che pensa di se Renzi, e forse ciò lo induce a ritenere che egli possa essere invincibile. Allora val la pena di ricordare che ai tempi di Andreotti, secoli fa in politica, pur non essendoci giganti in circolazione,  anche Andreotti, vecchia volpe, finì in pellicceria, come gli aveva pronosticato un altro non “nano” della politica, cioè Craxi, anche lui, a ragione, considerato invincibile e poi costretto dagli eventi e da una vera e propria azione di guerra a deporre le armi. E non solo. g.

LE PAROLE SUL SUD CHE NESSUNO DICE, di Ernesto Galli della Loggia

Pubblicato il 9 agosto, 2015 in Economia, Politica | Nessun commento »

«Lo Stato non è solo le sue risorse economiche, i finanziamenti pubblici. Lo Stato è anche la legge e i diritti eguali. Cioè il contrario del dominio degli interessi privati o di clan, il contrario dell’evasione fiscale generalizzata, del clientelismo, della logica della raccomandazione a spese del merito, dello sperpero del pubblico denaro. Ci piacerebbe che i nostri concittadini del Mezzogiorno d’Italia se lo ricordassero e ce lo ricordassero più spesso. E che dunque, ad esempio, fossero loro per primi, i loro deputati, le loro assemblee locali, a chiederci sì più spesa pubblica, ma anche un’azione sempre più energica delle forze dell’ordine, un controllo sempre più incisivo da parte degli organi dello Stato sulla vita sociale delle loro contrade, contro quelli di loro, e Dio sa quanti sono, i quali pensano e agiscono in modo ben diverso. Che contro tutti questi ci chiedessero, loro, più severità, più intransigenza. Perché invece ciò non accade ormai se non rarissime volte?

Il problema del Mezzogiorno, del suo mancato sviluppo, non è anche questo silenzio della grande maggioranza della società meridionale, a cui da tempo fa eco colpevolmente il silenzio e il disinteresse del resto del Paese? Non è da qui che bisogna allora ricominciare?».

Sono queste le parole che mi sarebbe piaciuto sentir dire da Matteo Renzi venerdì scorso alla direzione del Pd, parlando delle condizioni del Sud, al posto del «rottamare i piagnistei» e dello «zero chiacchiere» con cui invece ha condito il suo discorso. L a rottura decisa rispetto al passato di cui il nostro Paese ha bisogno dovrebbe essere, infatti, anche una rottura nel linguaggio. E non già, come si capisce, verso il basso, verso i tweet e gli hashtag , bensì verso l’alto, verso la dimensione in cui si esprimono per l’appunto quelle visioni generali nuove e audaci di cui abbiamo bisogno. Di cui ha bisogno in modo tutto speciale il Mezzogiorno.

L’inizio del cui declino attuale coincide con l’inizio della crisi che dagli anni Novanta del secolo scorso – combinando elementi nazionali e internazionali, assommando il post-sessantottismo ai più vari diktat dell’Europa di Bruxelles – va disintegrando lo Stato italiano storico, formatosi con il Risorgimento e durato fin verso la fine della Prima Repubblica. È la crisi che da oltre un ventennio va mangiandosi tutte le strutture amministrative del nostro vecchio Stato, tutti i suoi abituali ambiti d’azione di un tempo (dall’istruzione al controllo sugli enti locali, alla tutela del paesaggio e del patrimonio artistico), per effetto del trionfo delle retoriche (e delle prassi) decentralizzatrici, sindacal-partecipative, democraticistiche, antimeritocratiche. È la crisi che ha inghiottito anche tutte le culture politiche del Novecento italiano, tutte le loro premesse storico-ideali, nonché naturalmente tutti i partiti che esse avevano prodotto. Ed è infine la crisi che ha spinto ad accettare il dogma della privatizzazione, l’«andare sul mercato», di quasi tutte le reti nazionali di servizi (dalla rete ferroviaria e delle stazioni, alle Poste, agli aeroporti, alle autostrade) con il loro crollo qualitativo per il pubblico indifferenziato e il loro riorientamento classista a favore di chi può spendere; che ha spinto a considerare inammissibile qualunque ruolo sociale o economico diretto dello Stato, o quasi.

È in tutti questi modi che nell’ultimo venticinquennio quello che ho chiamato lo Stato italiano classico è andato decomponendosi.

Ora, il problema del Mezzogiorno, la «questione meridionale», era precisamente la questione di quello Stato, la principale sfida alla sua esistenza, il massimo dei suoi problemi storici, a cominciare da quello del consenso. E infatti fino a venticinque anni fa, fin quando quello Stato è esistito, il Mezzogiorno è stato sempre sentito dalle classi dirigenti italiane come un ineludibile banco di prova. Dalle classi dirigenti e, si può ben dire, dall’intera cultura storica e politica nazionale; la quale ha sempre considerato necessario per il progresso del Mezzogiorno due cose: da un lato l’apertura di un forte conflitto sociale e politico all’interno della stessa società meridionale (condizione resa a suo tempo finalmente possibile dall’avvento della democrazia repubblicana), dall’altro l’intervento deciso in tale conflitto di un attore esterno a fianco dei «buoni» contro i «cattivi»: fossero gli operai del Nord alleati immaginari dei contadini del Sud, fosse un’altrettanto immaginaria piccola imprenditoria antinotabilare, ma alla fine sempre e soprattutto lo Stato. Lo Stato i cui protagonisti politici del Novecento, in un modo o nell’altro, non a caso ebbero tutti dietro quella cultura storica e politica che ho appena detto: Mussolini il meridionalismo vociano e nittiano, il popolare trentino De Gasperi l’ispirazione del siciliano Sturzo, il comunista piemontese Togliatti la lezione del sardo Antonio Gramsci.

Il Mezzogiorno è precipitato nell’irrilevanza, si è avvitato nella decrescita, è scomparso come «questione», nel momento in cui si è dissolto questo complesso nodo storico al cui centro c’era lo Stato nazionale italiano: perché innanzi tutto si è dissolto questo Stato e per effetto di una tale dissoluzione.

Ho però l’impressione che per tutti questi discorsi il nostro presidente del Consiglio non abbia molto interesse. Che sia assai lontana dal suo pensiero l’idea che per raddrizzare le sorti del Mezzogiorno la prima cosa da fare sia, come io invece credo, riprendere in mano, ricostruire, dove occorra accrescere, la macchina dello Stato, ristabilire il significato culturale e politico dei suoi tradizionali ambiti d’azione, la sua efficienza, la sua capacità di controllo e d’intervento capillare, anche la sua forza repressiva. A Matteo Renzi, piace di più immaginare che costruire l’Alta Velocità fino a Reggio Calabria, questo sì cambierà le cose (ma perché non le ha cambiate la costruzione dell’autostrada? Perché?). Ai miei occhi è la prova che di quella parte del Paese che governa egli non conosce molto, forse non l’ha mai neppure troppo frequentata. Se avesse visto di persona, infatti, anche una sola volta, come gli abitanti e le autorità dell’intera costa che da Maratea va fino a Pizzo hanno ridotto quei luoghi, gli sarebbe venuto almeno il sospetto, sono sicuro, che il suo Frecciarossa non servirà assolutamente a nulla. Ernesto Galli della Loggia, Il Corriere della Sera, 9 agosto 2015

RENZI: IL BARZELLETTIERE D’ITALIA, di Vittorio Feltri

Pubblicato il 8 agosto, 2015 in Politica | Nessun commento »

A suo modo Matteo Renzi è un genio. Nessuno è più bravo di lui a raccontare barzellette, nemmeno Silvio Berlusconi che, nel ramo, ha esperienza pluriennale. Il Cavaliere la butta sul pecoreccio e strappa qualche risata; il giovin premier, invece, va sul fiscale ed è sempre un irresistibile comico anche quando vorrebbe essere serio. È un attore e un esattore formidabile.

Da un anno e mezzo circa proferisce bischerate con toni da profeta, seduce il proprio cerchio tragico (Maria Elena Boschi e fritole varie), lo carica a salve e un giorno sì e l’altro pure organizza spettacoli pirotecnici qua e là con l’intento – probabile – di prendere in giro gli italiani. I quali all’inizio ne godevano, persuasi che a Roma, via Arno, fosse giunto il difensore dei portafogli nazionali. Adesso, quando il premierino apre bocca, non si odono più applausi, bensì sonori pernacchi.

È il destino che tocca agli imbonitori, anche i più abili. Ecco perché Renzi non cessa più di rilanciare: se prima annunciava tre riforme, ora ne annuncia dieci; se appena giunto a Palazzo Chigi giurava di elargire tot miliardi per promuovere la ripresa economica, adesso assicura di averne pronti il doppio per superare la crisi. Il ragazzo non finisce più di stupire e, di conseguenza, di deludere. Chi lo sente parlare non si incanta: scuote la testa. Non gli crede più nessuno, forse neanche sua moglie.

Negli ultimi giorni è stato colto da delirio di onnipotenza. Serve un medico del pronto soccorso: qualcuno abbia il coraggio di farlo intervenire d’urgenza. Il povero Matteo ha addirittura garantito che verserà 100 miliardi per avviare i motori avariati del Mezzogiorno. Cento miliardi? Sissignori. Egli afferma di averli lì in un cassetto, a disposizione dei terroni. Sogna.

I suoi stessi collaboratori lo guardano con sospetto e si domandano: forse necessita di un periodo di riposo? Il potere gli ha dato alla testa? I timori crescono di settimana in settimana. Difatti, ogni dichiarazione solenne fatta dal presidentino concorre a rafforzare l’ipotesi che egli sia scoppiato, come quei ciclisti che, a due chilometri dal gran premio della montagna, si accasciano incapaci di muovere un muscolo. La benzina è finita.

Renzi ha esaurito le balle. Ne ha raccontate troppe.

Afferma di stanziare 12 miliardi per la banda larga, che è come l’Araba Fenice; tutti ne blaterano e nessuno sa cosa sia. A un dato momento si sbilanciò: riformo la scuola e assumo 300mila insegnanti. Obiezione: dove li metti e con quale denaro li retribuisci? Risposta: vabbé, facciamo che ne prendo 100mila, poi vedremo. Quanto alla riforma dell’istruzione, si segnala che essa è leggermente peggiorativa rispetto all’esistente sistema scolastico. Converrebbe ripescare l’impianto studiato da Giovanni Gentile, però Matteo ignora di che si tratti.

Ignora un altro dettaglio: i soldi per pagare la realizzazione dei progetti non ci sono. Allora? Egli non si scompone: li ricaviamo dalla spending review. La mena da mesi e mesi con i tagli e non ne ha fatto neanche mezzo, se si esclude il licenziamento di Carlo Cottarelli, l’uomo delle forbici. Nonostante ciò, insiste: abolisco la tassa sulla prima casa. Idea ottima. Ma il mancato introito come fai a compensarlo? «Provvederemo».

Oggi scopriamo che il premier sgancerà un miliardo e 300 milioni per l’emergenza frane. Già. Con i quattrini che non ha, egli è persuaso di evitare le calamità naturali. Neanche fosse Dio.

Una curiosità, presidente: i debiti miliardari della pubblica amministrazione nei confronti delle imprese li ha saldati? Un pochino. Ma non aveva garantito che sarebbero stati liquidati un anno fa? Campa cavallo. Concludiamo in bellezza: il bicameralismo perfetto è ancora in piedi, il Senato

invecchia ma non muore; le Province teoricamente sono chiuse, però continuano a costare come quando erano aperte. La riforma della Rai è abortita e ci becchiamo Monica Maggioni, che ha sderenato Rainews. E le unioni civili? Rimangono disunite. Caro Renzi, torni in Toscana e la porti un bacione a Firenze e uno alla Fiorentina, che almeno sta vincendo in attesa del campionato. Vittorio Feltri, 8 agosto 2015