IL POTERE DIRETTO DEL LEADER, di Michele Ainis

Pubblicato il 7 agosto, 2015 in Politica | Nessun commento »

L’ Italia cambia pelle, anche se gli italiani non si spellano le mani per l’applauso. Cambia la sua geografia istituzionale, sia nelle istituzioni politiche sia in quelle burocratiche, economiche, sociali. Il nostro premier riuscirà più o meno simpatico, ma di sicuro sta spingendo sull’acceleratore. Il governo Renzi I ha superato la boa dei 500 giorni, e in quest’arco temporale ha messo sotto tiro la scuola, la Pubblica amministrazione, la Rai, il mercato del lavoro, le prefetture, le Camere di commercio, le Province. E ai piani alti del sistema la legge elettorale, il Senato, le competenze delle Regioni. Con quali effetti? C’è una direzione, c’è una parola d’ordine che riassume l’epopea riformatrice?

Le paroline sono tre: verticalizzazione, unificazione, personalizzazione. Nelle scuole comanderà un superdirigente, con poteri di vita e di morte sui docenti. Alla Rai un superdirettore, con le attribuzioni dell’amministratore delegato. Nelle imprese il Jobs act , allentando i vincoli sui licenziamenti, rafforza il peso dei manager. Diventano licenziabili anche i dirigenti pubblici, sicché il capogabinetto del ministro regnerà come un monarca. Nel frattempo viene destrutturato il territorio, nei suoi antichi puntelli istituzionali. Che dimagriscono nel numero (è il caso dei prefetti). Nelle competenze (e qui tocca alle Regioni, con la rivincita dello Stato centrale). Oppure saltano del tutto (come succede alle Province). C osì l’onda di piena sommerge i poteri intermedi, non meno dei corpi intermedi. Disintermediazione, ecco l’altro slogan della nuova stagione. Ne sanno qualcosa i sindacati, ormai fuori dalla stanza dei bottoni. Anche i partiti, però, hanno smarrito la loro primazia. Rispondono forse alle direttive d’un partito Crocetta o De Luca, Emiliano o Zaia? No, la leadership dei governatori poggia su un consenso individuale, è la riproduzione su scala locale del filo diretto tra il leader nazionale e gli elettori.

Anche perché tutte le istituzioni collegiali sono in crisi. Vale per i consigli regionali come per quelli comunali, oscurati dall’autorità del sindaco. Vale per il Consiglio dei ministri, che per lo più si limita a timbrare decisioni già annunziate in conferenza stampa. E vale, da gran tempo, per le assemblee parlamentari. Che in questa legislatura si sono spappolate come maionese: Forza Italia si è divisa in tre, il Partito democratico ospita due truppe armate l’una contro l’altra, i 5 Stelle hanno subito un’emorragia fluviale, dentro Scelta civica s’è ripetuto l’esperimento di Hiroshima: la scissione dell’atomo. La frantumazione dei gruppi parlamentari parrebbe un intralcio all’attivismo del governo. I conti, qui, si faranno alla fine.
Ma la concentrazione del potere sarà probabilmente la regola futura, se non è regola già adesso. Con l’unificazione delle Camere, attraverso l’abolizione sostanziale del Senato. E con il premio dell’ Italicum : al partito, dunque al partito personale, dunque personalmente al Capo. E da lui giù verso i tanti capetti che stanno per mettere radici nel paesaggio delle nostre istituzioni. Offrendo (almeno in apparenza) una ragione postuma a Mosca e a Pareto, che un secolo fa avevano pronosticato la deriva oligarchica delle democrazie. Ma con il dubbio che sempre a quel tempo inoculò Max Weber, nella sua conferenza sulla scienza: «Il profeta, che tanti invocano, non c’è». Michele Ainis, Il Corriere della Sera, 7 agosto 2015

…..La democrazia o è collegiale o non è…perciò la deriva oligarchica della democrazia, pronosticata da Mosca e da Pareto, non può che dar luogo alla soppressione stessa della democrazia.  E poichè indietro non si può tornare, con buona pace di tutti i Renzi del mondo, la democrazia, cioè la gestione collegiale della politica,   alla lunga,  vincerà la sfida con chi sogna la deriva oligarchica, cioè il potere unico e diretto di un capo chiunque esso sia.

IL TRAGICO COSTO DEL CONSENSO

Pubblicato il 6 agosto, 2015 in Economia, Politica | Nessun commento »

Con molta buona volontà è possibile abbozzare un sorriso quando il presidente del consiglio – contraddicendo il Fondo Monetario Internazionale – annunzia che la ripresa è cominciata. Con qualche sforzo in più possiamo anche rallegrarci alla lettura dei dati sul Pil o sui nuovi contratti di lavoro anche se le percentuali ricordano quelle dei prefissi telefonici. Poi, però, la Svimez ha pubblicato l’ultimo rapporto sul Mezzogiorno nel quale si mostra come il sottosviluppo delle regioni meridionali sia ormai un dato strutturale e che la patologica disoccupazione non sia un fenomeno congiunturale ma una tragica e permanente caratteristica. Infine, ogni voglia di sorridere scompare quando le analisi Svimez dimostrano come la crescita del Mezzogiorno tra il 2000 ed il 2013 sia stata la metà di quella greca, di un paese, cioè, considerato il più disastrato dell’ Ue. Sperare che sole, mare e turismo possano invertire la tendenza è illudersi. Sembra passato un secolo dagli anni non lontani in cui molti ritenevano che, magari in tempi non così brevi, come affermavano gli economisti della Cassa per il Mezzogiorno ed i cosiddetti «meridionalisti di Stato» , il divario tra Nord e Sud sarebbe stato superato. Rincorrendo questo obiettivo – o sogno – è stata impiegata una quantità di risorse inimmaginabili. Denari in gran parte dilapidati perché spesso serviti per costruire il consenso ed alimentare ceti sociali improduttivi.

I canali nei quali gli enormi capitali destinati allo sviluppo sono stati dispersi sono innumerevoli: opere pubbliche inutili, costose e spesso neppure terminate, moltiplicazione di impieghi improduttivi, creazione di apparati politici ed amministrativi funzionali solo alla riproduzione di un ceto politico largamente parassitario. Per non parlare di una endemica e pervasiva corruzione. Il processo di sviluppo del Mezzogiorno, dovendo contrastare le tendenze del mercato, non poteva che essere pilotato politicamente dallo Stato e, soprattutto, dalle sue articolazioni locali (Regioni, Province, Comuni, credito pubblico, ecc. ). Il problema è che la logica con cui l’azione politica si è mossa soprattutto negli ultimi venti anni – senza apprezzabili differenze di schieramento o di regione – è stata fortemente autoreferenziale e lontana da qualsiasi strategia di sviluppo. Obiettivo costante è stato, invece, la costruzione del consenso ed attraverso questa l’autoriproduzione degli apparati. Anche il confronto politico ed il comportamento dei candidati in occasione delle ultime regionali in Puglia e Campania ha mostrato chiaramente la persistenza di questa logica. Se, come è stato spesso scritto, la politica è servizio, possiamo affermare che nel Mezzogiorno abbiamo il personale di servizio più caro e peggiore di Europa. G. Amendola, Il Corriere del Mezzogiorno, 6 agosto 2015

RIFORMA DELLA SCUOLA: UNA LEGGE, 25 MILA PAROLE, di Michele Ainis

Pubblicato il 26 giugno, 2015 in Politica | Nessun commento »

Il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini (Benvegnù-Guaitoli) Il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini che sulla riforma non ha messo becco.

Che c’è in comune fra la Buona Scuola e l’Italicum ? E fra quest’ultimo e il Jobs act, la legge Delrio sulle Province, quella di Stabilità? Semplice: sono tutte figlie d’un maxiemendamento, sul quale cade poi come una scure il voto di fiducia. E almeno in questo, Renzi non si distingue dai suoi predecessori. Hanno maxiemendato Prodi (cui si deve il record di 1.365 commi stipati in un solo articolo di legge), Berlusconi, Monti, Letta. Sempre aggiungendo al testo un’invocazione amorosa al Parlamento, che Renzi ha ripetuto 30 volte (in media ogni 12 giorni) durante il suo primo anno di governo. «Ti fidi di me, mi vuoi ancora bene? Dimmelo di nuovo, giurami fiducia».

È la legge non scritta della Seconda Repubblica: se vuoi incassare una riforma, devi violentarne la forma. Nel caso della scuola, questa maschera deforme comprende 209 commi, che s’allungano per 25 mila parole. Neppure Samuel Beckett, con le sue frasi che riempivano una pagina, avrebbe osato tanto. Si dirà: una legge non è un romanzo, dobbiamo misurarne la sostanza, non lo stile.

Vero, ma fino a un certo punto. Intanto, sui contenuti la riforma è in chiaroscuro, altrimenti non avrebbe innescato una valanga di proteste. Restano elementi critici sull’offerta formativa, sui poteri del preside-sceriffo (decide lui chi assumere), sul finanziamento alle scuole private (vietato dalla Costituzione). Dopo di che non mancano i progressi: maggiore autonomia, stabilizzazione dei precari, aiuti alle scuole disagiate, processi di valutazione dei dirigenti e dei docenti . Restano chiaroscuri anche sul maxiemendamento, rispetto al testo originario. Quanto al piano d’assunzioni, per esempio, è in chiaro il reclutamento degli idonei usciti dall’ultimo concorso, è in scuro il rinvio della pianta organica al 2016.

Niente di nuovo, succede con ogni maxiemendamento. Perché il suo primo effetto è di trasformare il Parlamento in organo consultivo del governo: quest’ultimo ascolta quanto hanno da dire gli onorevoli colleghi, leggiucchia le loro proposte di modifica, poi sceglie petalo da petalo, e li incarta in una rosa che ha per spina la fiducia. Sequestrando la libertà dei parlamentari, messi davanti a un prendere (la legge) o lasciare (la poltrona). Sommando su di sé il potere esecutivo e quello legislativo, specie se il testo contiene 9 deleghe al governo, come accade per la Buona Scuola. E sfidando infine il paradosso, la contorsione logica. Il maxiemendamento, difatti, è un autoemendamento, quando interviene su un progetto confezionato dallo stesso Consiglio dei ministri. Mentre emenda, il governo fa ammenda. Ma l’ammenda non corregge i difetti originari: viceversa li moltiplica, giacché converte l’atto normativo in arzigogolo, che poi ciascuno interpreterà come gli pare, come gli fa più comodo.

Così, fra questi 209 commi che si succedono senza uno straccio di titolo per orientarne la lettura, fa capolino il comma 49, che introduce la lettera b-bis . Seguito a debita distanza dal comma 166, che a sua volta aggiunge il comma 2- octies . Mentre il comma 178 si divide in 9 lettere; la lettera b in 8 punti; il punto 3 in 4 sottopunti. Senza dire del comma 74, a proposito degli insegnanti di sostegno: un delirio di rinvii normativi, 23 numeri in 84 parole. Sarà per questo che l’Italia è fanalino di coda nella classifica che misura la qualità della legislazione, 63 gradini in giù rispetto alla Germania. Sarà per questo che l’indice Doing Business 2015 ci situa al 56º posto, dietro a tutte le principali economie. Con leggi così l’imprenditore, il lavoratore, e da domani pure lo studente, rimangono giocoforza ostaggio del burocrate. Il maxiemendamento è un campo di concentramento. Michele Ainis, Il Corriere della Sera, 26 giugno 2015

SINISTRA DI GOVERNO: PENSIERI E PAROLE DA RITROVARE, di Antonio Polito

Pubblicato il 20 giugno, 2015 in Il territorio | Nessun commento »

La ex premier danese Helle Thorning-Schmidt (Reuters) La ex premier danese Helle Thorning-Schmidt (Reuters)

C ome i dinosauri, anche il gigante della socialdemocrazia rischia l’estinzione? Le dimissioni presentate ieri alla regina di Danimarca da Helle Thorning-Schmidt, la più glamour dei leader della sinistra europea (Renzi escluso), sembrano l’ultimo segno di un destino crudele, e forse irreversibile, che si sta abbattendo sulla storia centenaria del riformismo. La vicenda danese è altamente simbolica. La giovane premier, sposata col figlio di Neil Kinnock, storico capo del laburismo britannico, non esce infatti di scena per una delle solite oscillazioni del pendolo elettorale; ma è stata travolta dal boom di quella destra anti-immigrati che dal circolo polare in Norvegia fino alla linea gotica in Italia sta rubando voti alla sinistra in nome di un «sacro egoismo» nazionale.

È il male oscuro che divora le radici di una storia ispirata all’uguaglianza e alla fraternità. Per tenere insieme i suoi valori la socialdemocrazia ha sempre avuto bisogno di molti soldi, di crescita economica e forte tassazione, per pagare un sistema di welfare che è diventato il vanto del Vecchio Continente, ma oggi ne è anche la soma. La spesa pubblica non può più essere la misura della giustizia sociale, e la sinistra riformista non ha ancora trovato un altro modo di finanziarla. A soffrirne di più sono proprio gli elettori del tradizionale blocco sociale progressista. Nei quartieri dove sono nati il sindacato e il movimento cooperativo ora si aggirano disoccupati, giovani maschi arrabbiati, ceti medi impoveriti ed esposti alla concorrenza dei nuovi arrivati per la casa, per il lavoro, per l’assistenza.

Nelle società senza poveri, in Svizzera o negli Emirati, i lavoratori stranieri fanno meno paura, anzi, sono accettati come i nuovi servi. Ma non è così a Rotterdam, ad Anversa, o a Dresda. La sinistra riformista ha finora trovato una sola risposta: l’appello alla tolleranza e al cosmopolitismo. Ripete l’antico mantra di Roosevelt, non dobbiamo aver paura che delle nostre paure. Ma la gente ha paura lo stesso. Anche quando non va a destra, è attratta da un nuovo populismo non meno nazionalista, come Syriza in Grecia, Podemos in Spagna, e Grillo in Italia. La socialdemocrazia sta perdendo la battaglia delle idee. E se un movimento politico smette di saper parlare al presente può anche estinguersi, come successe ai liberali inglesi in pochi anni dopo la Grande guerra, o come profetizza Houellebecq accadrà tra breve ai socialisti francesi. Per quanto Renzi non faccia parte, né per cultura né per stile, della storia della sinistra socialdemocratica, neanche il suo Pd può ritenersi immune da questo sommovimento continentale. Neanche la ripresa economica, di per sé, mette oggi al riparo dalla rabbia e dalla paura. Alla danese Helle, di certo, non è bastata. Antonio Polito, Il Corriere  della Sera, 20 giugno 2015

TROPPI SILENZI SULL’ASTENSIONE, di Michele Ainis

Pubblicato il 18 giugno, 2015 in Politica | Nessun commento »

Uno vince, l’altro perde. Ma c’è un partito che a ogni elezione si gonfia: il non partito del non voto. I numeri dell’astensionismo elettorale ormai surclassano la Dc dei tempi d’oro, pur senza ottenerne in cambio seggi e ministeri. Difatti alle Politiche del 2013 gli astenuti erano già il primo partito, con 11 milioni di tessere fantasma. Alle Europee del 2014 l’affluenza si è fermata al 58%, in calo di 8 punti rispetto alle consultazioni precedenti. Alle Regionali del 2015 un altro salto all’indietro: 54%, ma sotto la metà degli elettori in Toscana e nelle Marche. Infine i ballottaggi delle Comunali, con il sorpasso degli astenuti (53%) sui votanti.

Questo fenomeno cade per lo più sotto silenzio. Qualche dichiarazione preoccupata, qualche pensoso monito quando si chiudono le urne; ma tre ore dopo i partiti sono già impegnati nella conta degli sconfitti e dei vincenti. È un errore, perché qualsiasi maggioranza rappresenta ormai una minoranza. Ed è miope la rimozione del problema. Vero, gli astensionisti non determinano il risultato elettorale. Però se l’onda diventa una marea, significa che esprime un sentimento: d’indifferenza, nel migliore dei casi; d’avversione, nel peggiore. E il sentimento dai partiti si riversa sulle stesse istituzioni, le sommerge come durante un’alluvione.

La questione, dunque, interroga la democrazia, anzi la pone davanti a un paradosso. Perché la democrazia è un sistema dove si contano le teste, invece di tagliarle. Il suo fondamento sta nella regola di maggioranza. E allora la democrazia entra in contraddizione con se stessa, quando nega agli astenuti ogni influenza, benché essi siano la maggioranza del corpo elettorale. Di più: tradisce la propria vocazione. Perché la democrazia è inclusiva, accoglie pure le opinioni radicali. Tuttavia con il popolo degli astenuti diventa esclusiva, respingente. Anche a costo di rinchiudersi in una casa vuota: la democrazia disabitata.

C’è modo di riannodare questo filo? Non imponendo l’obbligo del voto. Funzionava così nel dopoguerra, quando gli astensionisti dovevano giustificarsi presso il sindaco, e per sovrapprezzo beccavano una nota nel certificato di buona condotta; ma il rimedio sarebbe peggiore del male, offenderebbe i principi liberali. Non è una buona soluzione nemmeno quella escogitata in Francia nel 1919: se non vota almeno la metà del corpo elettorale, le elezioni si ripetono. Con questi chiari di luna, rischieremmo di votare ogni domenica. Però la via d’uscita c’è, e oltretutto procurerebbe un risparmio di poltrone. Va alle urne il 50% degli elettori? Allora dimezzo il numero dei parlamentari. E ne dimezzo altresì le competenze, trasferendole ai Comuni, se per avventura il voto cittadino risulta più attraente di quello nazionale. In caso contrario apro ai referendum sulle decisioni del sindaco, per supplire alla sua scarsa legittimazione.

Un’idea bislacca? Fino a un certo punto. Nella Repubblica di Weimar si guadagnava un seggio ogni 60 mila voti validi; e il medesimo sistema fu riproposto in Austria nel 1970. Anche in Italia, fino al 1963, le Camere esponevano numeri variabili in base alla popolazione complessiva; mentre c’è tutt’oggi un quorum per la validità dei referendum. L’alternativa, d’altronde, è una democrazia senza linfa vitale, perché il non voto ne sta essiccando le radici. Per salvarla da se stessa, qui e ora, serve un lampo di fantasia istituzionale. Michele Ainis, Il Corriere della Sera, 18 giugno 2015

I FANTASISTI DELLA SCAPPATOIA, di Michele Ainis

Pubblicato il 10 giugno, 2015 in Politica | Nessun commento »

In Italia va così: norme dure come il ferro, interpretazioni al burro. Succede quando la politica aumenta le pene dei delitti, salvo poi scoprire che aumentano, in realtà, i prescritti. Succede con le regole del gioco democratico. Talvolta arcigne, spesso cervellotiche. E allora non resta che trovare una scappatoia legislativa al cappio della legge. Almeno in questo, noi italiani siamo professori. Come mostrano, adesso, tre vicende. Diverse una dall’altra, ma cucite con lo stesso filo.

Primo: il caso De Luca. Nei suoi confronti la legge Severino è severissima: viene «sospeso di diritto». Dunque nessuno spazio per valutazioni di merito, per apprezzamenti discrezionali. Tanto che il presidente del Consiglio «accerta» la sospensione, mica la decide. Però l’accertamento è figlio d’una procedura bizantina: la cancelleria del tribunale comunica al prefetto, che comunica al premier, che comunica a se stesso (avendo l’ interim degli Affari regionali), dopo di che tutte queste comunicazioni vengono ricomunicate al prefetto, che le ricomunica al Consiglio regionale. Ergo, basterà un francobollo sbagliato per ritardare l’effetto sospensivo, permettendo a De Luca di nominare un viceré. E poi, da quando dovrebbe mai decorrere codesta sospensione? Dalla proclamazione dell’eletto, dissero lorsignori nel 2013 (caso Iorio). Dal suo insediamento, dicono adesso. Acrobazie interpretative, ma in Campania l’alternativa è la paralisi. È più folle la legge o la sua interpretazione?

Secondo: la riforma del Senato. L’articolo 2 del disegno di legge Boschi è già stato approvato in copia conforme dalle assemblee legislative, stabilendo che i senatori vengano eletti fra sindaci e consiglieri regionali. La minoranza pensa sia un obbrobrio, la maggioranza a quanto pare ci ripensa. Però il ripensamento getterebbe tutto il lavoro in un cestino. La procedura, infatti, vieta d’intervenire in terza lettura sulle parti non modificate; se vuoi farlo, devi cominciare daccapo. Da qui il colpo d’ingegno: si proceda per argomenti, anziché per parti modificate. Dunque il voto cui s’accinge il Senato non è vincolato dal voto della Camera. Interpretazione capziosa? E allora verrà in soccorso una preposizione: Palazzo Madama aveva scritto «nei», Montecitorio ha scritto «dai». La copia non è proprio conforme, sicché il Senato può stracciarla. Domanda: meglio un obbrobrio sostanziale o un obbrobrio procedurale?

Terzo: la sentenza numero 70 della Consulta. Quella sulle pensioni, con un costo stimato in 18 miliardi. Il governo, viceversa, ha stanziato 2 miliardi, risarcendo le pensioni più basse, ma lasciando all’asciutto 650 mila pensionati. Poteva farlo? Dicono di sì, con argomenti che s’appoggiano sulla motivazione della sentenza costituzionale. Che però disegna un arzigogolo, dove c’è dentro tutto e il suo contrario. Sennonché il dispositivo è netto, e non distingue fra categorie di pensionati. Dal dispositivo, peraltro, derivano gli effetti vincolanti. A meno che quest’ultimo non rinvii espressamente alla motivazione, come succede di frequente. Non in questo caso, tuttavia. E allora, che diavolo avrebbe potuto inventarsi il nostro esecutivo? Quattrini non ne abbiamo, siamo ricchi soltanto di fantasia interpretativa.

Morale della favola, anzi delle tre favole su cui sta favoleggiando la politica. Quando la legge, o il disegno di legge, o la sentenza fanno a cazzotti con la logica, diventa logica un’interpretazione illogica. Michele Ainis,Il Corriere della Sera, 10 giugno 2015

REGIONALI: ECCO CHI HA VINTO E CHI HA PERSO.

Pubblicato il 2 giugno, 2015 in Politica | Nessun commento »

Per l’istituto Cattaneo Pd perde oltre 2 milioni di voti rispetto 2014. Calo anche per M5s e Fi

La proliferazione delle liste, la molteplicità delle alleanze nelle diverse regioni, rendono difficile uno studio dei flussi elettorali rispetto alle elezioni regionali del 2010. Gli analisti sono propensi a dire che in queste amministrative l’elemento locale ha pesato maggiormente rispetto a quello nazionale. Due elementi sembrano tuttavia comuni a tutte e sette le regioni: l’astensionismo e il peso che la crisi economica ha avuto nelle scelte. Che l’astensionismo abbia fatto da padrone, lo dimostra il dato generale (ha votato il 53,90% rispetto al 64,13% del 2010), omogeneo in tutte le regioni; e lo certificano alcuni dati esemplari. In Veneto Luca Zaia nel 2010 vinse con 1.528.382 voti (contro i 738.763 di Bortolussi), e quest’anno si ferma a quota 1.107.145 (502.841 quelli di Moretti). In Campania Vincenzo De Luca ha vinto con 985.962 voti, e cinque anni fa con 1.258.787 voti aveva perso contro Stefano Caldoro. L’astensionismo, spiega il prof Roberto D’Alimonte, direttore del Cise della Luiss, “e’ una tendenza che va avanti da anni, ed è composto da due componenti distinte: una quota è strutturale, e cresce anche per l’invecchiamento della popolazione; l’altra quota di elettori va e viene a seconda delle circostanze”. Per questa seconda componente, in questa tornata “può aver pesato anche il fatto che fosse il primo ponte estivo”, a cui vanno ad aggiungersi altri elementi come “una insoddisfacente offerta politica nelle sette Regioni, dove l’aspetto locale ha prevalso su quello nazionale”. Inoltre sull’astensionismo, “ha inciso anche la crisi economica, che ha però in parte premiato anche i partiti di opposizione radicale come Lega e M5s”. L’Istituto Cattaneo di Bologna ha fatto un raffronto tra i voti ottenuti dai quattro principali partiti (Pd, M5s, Lega e Fi) rispetto alle Politiche del 2013 e alle Europee del 2014: ebbene, solo il Carroccio avanza, e gli altri tre arretrano. Il Pd ha perso in tutto 2.143.003 voti sul 2014 e 1.083.557 sul 2013. M5s cala del 60% rispetto alle politiche del 2013, ma anche rispetto alle europee del 2014 (-40,4%): in valore assoluto, meno 1.956.613 voti e meno 893.541. In calo anche Fi che sul 2013 e sul 2014 cede 1.929.827 voti e 840.148. La Lega ha un vero balzo di 402.584 rispetto a due anni fa, e di 256.803 sull’anno scorso. Il dato è confermato da Swg che in uno studio, regione per regione, che i flussi elettorali della Lega sono ovunque solo in entrata, riuscendo a rubare voti sia anche a Pd e M5s e non solo a Fi. Per esempio in Liguria il più 14,7% è arrivato prendendo voti da Pd (1,3%), M5s (2,3%), da Fi (4%) oltre che dall’astensione (6,3%). D’Alimonte invita alla cautela: “è difficile fare un confronto, perché c’è stata una proliferazione di liste civiche che ha tolto voti soprattutto a Pd e Fi”. In Campania, per esempio, sia De Luca che Caldoro erano sostenuti da ben 10 liste; ma anche in Puglia Michele Emiliano aveva due liste del Presidente (155.840 voti l’una e 68.366 l’altra) e altre due civiche. E liste del Presidente o civiche correvano in tutte le Regioni sia nel centrosinistra che nel centrodestra “Occorrerà costruire dei blocchi di liste civiche appartenenti alle varie aree politiche, per poter fare un confronto”. Per D’Alimonte M5s, pur avendo perso voti sul 2013 e il 2014, ha avuto un buon risultato. “Alle amministrative – spiega – M5s non ha speranza di vincere, e nonostante ciò ha dovunque sfiorato o superato il 20%, senza che Grillo facesse campagna elettorale. Significa che ormai c’è una componente di elettorato fidelizzata, anche se la polemica sugli “impresentabili” ha aiutato il Movimento”. FONTE ANSA, 2 GIUGNO 2015

IERI, OGGI E….DOMANI?

Pubblicato il 22 maggio, 2015 in Il territorio | Nessun commento »

ELEZIONI REGIONALI ALLE PORTE: CI SARA’ O MENO LA TEMUTA ASTENSIONE?

Pubblicato il 19 maggio, 2015 in Politica | Nessun commento »

Rieccolo lo spettro dell’astensione. A poche settimane dal voto (ormai ne mancano due), da po’ di anni scatta l’allarme rosso: vedrete, nessuno andrà a votare. Quest’anno poi, dopo l’esperienza emiliana (novembre scorso, partecipazione del 37,7% alle elezioni per il nuovo governatore) lo spettro è diventato spaventosissimo. E la paura resta nonostante che il dato del Trentino Alto Adige abbia ridimensionato la fuga degli elettori registrando la settimana scorsa solo un calo del 7%. Gli istituti di ricerca avanzano ipotesi che rischiano di essere puntualmente smentite come sta accadendo da tempo e ormai non solo in Italia. Il Corriere del Mezzogiorno li ha messi a confronto ieri. Per alcuni (Ipsos Pa per il Corriere della Sera) in Puglia il dato che raccoglie incerti e non voto si aggira tra il 49% e il 53%; per altri (Tecnè per Porta a Porta) siamo al 51%; per altri ancora (Ipr, Porta a porta), si arriva al 52%. Swg indica solo gli incerti, il 27% dell’elettorato, e quindi non si può chiamare astensionismo. Insomma oltre metà dell’elettorato pugliese avrebbe deciso di non recarsi alle urne.

In linea con il voto europeo del maggio 2014: nella circoscrizione meridionale, la percentuale degli elettori fu del 51,7% contro il 58,6% del dato nazionale. Quindi se avranno ragione gli istituti di ricerca lo spettro emiliano non arriverà in Puglia. Eppure… Eppure siamo sicuri che anche voi state facendo la stessa esperienza nostra: ovunque vi giriate, al bar, in lavanderia, in coda alla Posta, intorno a voi si sente un’unica e inderogabile decisione, «io non vado a votare». Quelli che si ispirano a sinistra, perché Emiliano non è di sinistra, ha reclutato candidati da ogni colore politico, e non difende l’esperienza del suo partito in questi dieci anni vendoliani. Quelli che a destra erano stati abituati ai fasti del passato prossimo, sono così mortificati a vedere sparsi i brandelli di quell’esperienza, che sono tentati di rimanere a casa per protesta contro la guerra civile in corso fra fittiani e berlusconiani. Insomma mai come stavolta a destra e a sinistra hanno un sacco di ragioni per andarsene al mare il 31 maggio, per citare lo spregiudicato Craxi. Andrà proprio così? Chi la sa lunga immagina che alla fine il dato non sarà drammatico; anzi c’è chi scommette che la partecipazione supererà anche il risultato europeo poiché stiamo parlando di un voto che ci riguarda più da vicino e che, come sempre è accaduto, alla fine vincerà il richiamo del nome che conosciamo in questa o quella lista. Siamo anche noi di questa idea. E non solo perché saremo portati a non far mancare il nostro voto alla persona che stimiamo; ma perché mai come stavolta non c’è bisogno di astensione, il menù pugliese è ragguardevole per tutti gli appetiti. Ci sono liste di sinistra-sinistra (2), di ambientalisti (1), di centrosinistra (8), di centrodestra (7), di antipolitica (1). Alla fine basterà mettersi a tavola e scegliere il piatto che più ci stimola. Maddalena Tulanti, Il Corriere del Mezzogiorno, 19 maggio 2015

…….Andrà così, forse che si, forse che no. Comunque andrà, però, sarà assai divertente leggere e interpretare i risultati. g.

LA STORIA DI U NA INSEGNANTE IN CATTEDRA DA 32 ANNI E’ LA STORIA DI GRAN PARTE DEGLI INSEGNANTI ITALIANI

Pubblicato il 6 maggio, 2015 in Cultura, Politica | Nessun commento »

L a questione è: ci saranno tanti professori come Giovanna Nosarti, pugliese, 32 anni di servizio nelle scuole medie e poi nelle superiori? Giovanna che, a casa con la broncopolmonite, tiene i contatti con gli allievi e con i loro genitori, via Whatsapp per rispondere alle domande sui compiti, sulle verifiche, sulle valutazioni. «Non sono un’eccezione», dice. Insegna dal 2000 al Liceo artistico Enzo Rossi di Roma, italiano, storia e geografia. Periferia Tiburtino III, non un quartiere facile. «Una scuola inclusiva per eccellenza con molti disabili che richiedono la collaborazione dei docenti di sostegno». E con tanti stranieri, moldavi, romeni, russi, ma anche africani e cinesi. La «didattica inclusiva» deve soddisfare i «bisogni educativi speciali», con piani personalizzati che portano via un sacco di tempo.
Il tempo. «Le ore di lezione al giorno sono 3 o 4, ma in genere se arrivo a scuola alle 8 esco alle 14 e occupo le ore buche per i ricevimenti o al telefono con i genitori per avvertirli delle assenze, delle mancate giustificazioni, dei cali di rendimento; oppure per il coordinamento di classe, per monitorare…». Senza contare: a inizio anno le riunioni di dipartimento, la compilazione degli obiettivi minimi, la programmazione da consegnare alla segreteria didattica; a fine anno il bilancio con la percentuale degli obiettivi raggiunti sottoscritta dai ragazzi. «Monitorare» e «programmazione» sono parole frequenti, nel racconto di Giovanna. Così come «obiettivi» e «offerta formativa». Dunque, se va bene, a casa verso le 14.30, il pranzo riscaldato pronto dalla sera prima. E poi? «Si continua a lavorare per due o tre ore: preparare le lezioni del giorno dopo e le verifiche, leggere, correggere…».

Le correzioni. «Il 25 aprile l’ho passato a casa sui saggi brevi dei ragazzi. Un lavoro ripetitivo, finisci per inciampare sempre negli stessi errori, ma non mancano le sorprese e io mi entusiasmo quando constato che ci sono belle riflessioni critiche o buone competenze nell’analisi dei testi. Di recente sono rimasta stupita di fronte alla capacità di cogliere le ironie del Parini, la sua critica alla società… Mi consolo così». 100, 200, 300 compiti al mese. «Insegnare è un impegno a tempo pieno, e io, a 57 anni, sono molto stanca».

Lo stipendio. Il tutto con una busta paga di? «Circa 1800 euro al mese, più 200 o 250 all’anno per il coordinamento, ma non lo so esattamente perché non ho ancora ricevuto quelli dell’anno scorso». Se le capita di dover restare a scuola, non c’è buono-pasto né mensa, dunque un piatto a proprie spese nel bar più vicino. I tre figli che Giovanna ha avuto con Bernardo sono ormai grandi, 28, 26, 21 anni. «Quando erano piccoli, correggevo spesso di notte, dopo averli messi a letto, mi sono pure ammalata per carenza di sonno. E se il pomeriggio avevo le riunioni dovevo pagare una babysitter: una tonsillite mi costava 200 mila lire, una bronchite 500. Per anni lo stipendio lo giravo alla tata».

I ragazzi. «Hanno sempre più bisogno di essere seguiti, gratificati, motivati. Devono sentire la cultura come qualcosa di vivo, di utile. Sono molto fragili nell’approccio alla vita, hanno poche regole, dormono poco, stanno fino a tarda sera a chattare nei social network. Sono in aumento gli attacchi di panico. I genitori non riescono a far rispettare i limiti e spesso chiedono agli insegnanti di supplire a queste lacune».
Gli interessi. Per Giovanna non mancano. Molte mostre d’arte, il laboratorio di scrittura, i corsi di storia contemporanea (a sue spese), e la domenica mattina all’Auditorium per le lezioni di storia: «Quest’anno erano sul tema del viaggio, bellissime, una boccata d’ossigeno. Mio marito ha smesso il tiro con l’arco per seguirle con me. Entusiasta. A scuola, poi, le metto a frutto con i ragazzi».
La riforma. Giovanna è appena tornata a casa dalla manifestazione. Anche lei protesta. «La scuola non è un’azienda, non deve formare burocrati e specialisti di nuove tecnologie. Deve tirar su dei buoni cittadini attraverso la cultura. Inoltre, non sento mai parlare del carico di lavoro degli insegnanti, della necessità di una formazione continua, che viene lasciata alla volontà del singolo. Io sono per premiare il merito, ma prevedere un bonus per il 5 per cento dei docenti è umiliante. Perché il 95 per cento non è fatto di fannulloni…» . Paolo Di Stefano, Il Corriere della Sera, 6 maggio 2015

…..Meditino, se ne sono capaci, Renzi e la sua ministra al topless su questa accorata denuncia di una insegnante che riflette la storia e l’impegno di tanta parte degli insegnanti italiani nei cui confronti occorre rispetto e tutela, sul piano morale e su quello economico, visto che da una parte sono vittime di una ingiusta e cosontinua disattenzione da parte dello Stato e dall’altra risultano essere i peggio pagati d’Europa.