EXPO: UN SUCCESSO, SI, MA BASTA CON LE RICONRSE DA ULTIMA NOTTE, di Gian Antonio Stella

Pubblicato il 3 maggio, 2015 in Cronaca, Politica | Nessun commento »

Visitatori all’Expo (LaPresse)

Da infarto, ma è andata. E hanno buonissime ragioni, tutti i protagonisti del «prodigio», da Giuseppe Sala a Matteo Renzi a tutti gli altri, a ironizzare sui «rosiconi». Ovvero tutti quelli che avevano scommesso che l’obiettivo della «data catenaccio» sarebbe stato mancato. Qualche pannello è ancora fuori posto, qualche portone resta chiuso, qualche martello continua a battere di notte per gli ultimi ritocchi? Dettagli. È andata. Ma sarebbe un delitto se dai patemi d’animo di questi anni e dagli affannati formicolii notturni di queste settimane non traessimo una lezione: basta con le date catenaccio.

È bella, l’Expo 2015. Bellissimi alcuni padiglioni, dalle gole desertiche degli Emirati Arabi al «Vaso luna» della Corea, dall’alveare britannico alle suggestioni del bosco austriaco… Per non dire dell’Albero della vita e del padiglione Italia. Dove bastano le sale sospese tra il patrimonio d’arte del passato e la potenza espressiva delle nuove tecnologie a togliere il fiato non solo agli stranieri ma anche agli italiani. Una meraviglia.

Certo, sapevamo dall’inizio, come ha spiegato Marco Del Corona, di non poter competere sui numeri con il gigantismo di Shanghai 2010: 192 Paesi, 530 ettari occupati (cinque volte più che a Rho), 73 milioni di visitatori, 4,2 miliardi di euro di investimenti diretti più 45 in opere infrastrutturali tra cui due nuovi terminal aeroportuali di cui uno da 260 mila passeggeri al giorno e tre nuove linee metro, fino a portare la rete cittadina a 420 chilometri con 269 stazioni. Troppo, per noi.
Eppure, a dispetto di tutti gli errori, i ritardi e gli incubi di questi anni, la città è riuscita a dimostrare di essere in grado di recuperare, puntando su altri valori e su una maggiore coerenza, quello spirito che a lungo la fece vedere a milioni di italiani come la vedeva il nonno di Indro Montanelli: «Per lui, Milano era la cattedrale innalzata dall’ homo faber alla Tecnica e al Progresso». L’unica città italiana, avrebbe ribadito Guido Piovene, «in cui non si chiami cultura solo quella umanistica».

Proprio perché lo sforzo enorme speso nella rimonta ha avuto successo, successo peraltro da confermare giorno dopo giorno nei prossimi sei mesi, sarebbe sbagliato rimuovere oggi gli errori, i ritardi e gli incubi di cui dicevamo. Se era suicida «gufare» contro la riuscita d’un evento planetario dove non erano in ballo la faccia della Moratti o Berlusconi, di Prodi o Renzi, ma la faccia dell’Italia, non meno suicida sarebbe brindare oggi a questo debutto rimuovendo i problemi evidenziati dal 2007 ad oggi. La litigiosità degli amministratori intorno agli uomini da scegliere, più o meno vicini a questa o quella bottega. La paralisi di tre interminabili anni prima che la macchina organizzativa si mettesse davvero in moto. L’ombra di contaminazioni tra il mondo della cattiva imprenditoria e della cattiva politica. Le mazzette. La corruzione. «Mai più date catenaccio»: questo dovrebbe essere l’obiettivo di chi ha a cuore l’Italia dopo aver portato a casa l’incontestabile successo del 1° maggio, solo parzialmente sfregiato dagli incidenti dei teppisti black bloc.

Spiegava anni fa Gianni De Michelis, ai tempi in cui si batteva perché l’Expo 2000 fosse fatta a Venezia tra padiglioni galleggianti, giochi d’acqua e hovercraft dall’aspetto di tappeti volanti: «Primo: sappiamo che ci sono delle cose da fare per non essere tagliati fuori dai grandi processi d’integrazione. Secondo: sappiamo che questo è un Paese paralizzato dalla burocrazia, dai veti incrociati, dalla cultura del rinvio. Terzo: sappiamo che occorre uscire da questa paralisi. Dunque occorre una data-catenaccio che ci costringa a fare le cose nei tempi stabiliti». Uno dopo l’altro.
E ci è andata sempre «quasi» bene. I Mondiali del ‘90, sia pure spendendo per gli stadi l’83% e per le infrastrutture il 93% più del previsto e pur essendo da completare, a campionati finiti, il 39% delle opere. Le Colombiadi di Genova del ‘92, sia pure costruendo ad esempio un sottopasso più basso rispetto al progetto col risultato che non passavano i camion ed i pullman. E poi i Mondiali di ciclismo e i campionati planetari di nuoto e il Giubileo del 2000, atteso da secoli come un appuntamento scontato eppure segnato, ancora una volta, da anni di melina burocratica fino alla febbricitante rincorsa finale… Il tutto accompagnato quasi sempre da inchieste giudiziarie, accertamenti di lavori troppo frettolosi, scoperte di scandali, affari sporchi, processi, strutture costosissime abbandonate alle erbacce… Senza alcun progetto per il «dopo».

Perché questo, troppo spesso, è stato il meccanismo infernale delle «date catenaccio». La scelta, da parte della cattiva politica e della cattiva imprenditoria, di non muoversi mai per tempo. Come nei Paesi seri. Ma di «rassegnarsi» allo scorrere dei mesi e degli anni fino all’arrivo fatidico del gong: aiuto, emergenza! Nel nome della quale, Dio non voglia anche stavolta, è stato giustificato tutto. Fino all’assurdità: lo Stato che aggira le regole dello Stato perché incapace di cambiare le proprie leggi.

È giusto che un grande Paese si dia obiettivi ambiziosi. Compreso quello, ad esempio, delle Olimpiadi. Che potrebbero essere, andasse bene l’Expo, il nostro prossimo appuntamento con la ribalta mondiale. Ma per favore: basta rincorse all’ultimo momento e pezzi di cornicione provvisoriamente attaccati con lo scotch. La «#svolta buona» dovrebbe essere, per un Paese straordinario ma un po’ matto come il nostro, lavorare giorno dopo giorno dopo giorno dopo giorno… Gian Antonio Stella, Il Corriere della Sera, 3 maggio 2015

L’ITALICUM E’ IL CONTRARIO DI BIPARTITISMO, di Giovanni Belardelli

Pubblicato il 23 aprile, 2015 in Politica | Nessun commento »

Lo scontro politico interno ed esterno al Pd, legato alla sostituzione dei dieci membri della commissione Affari costituzionali della Camera non allineati col presidente del Consiglio, sembra aver messo ancor più in ombra i contenuti della nuova legge elettorale. A cominciare da un punto che pure di dubbi e perplessità ne dovrebbe suscitare: la possibilità che l’Italicum spinga davvero il nostro sistema politico verso un assetto di tipo bipartitico. Lo ha sostenuto più volte, ancora nei giorni scorsi, Matteo Renzi senza suscitare alcuna particolare discussione. E la cosa è davvero sorprendente, visto che si tratta di una tesi di dubbio fondamento. Si possono dire infatti molte cose sul progetto di legge elettorale all’esame della Camera; è evidente, ad esempio, che esso garantirebbe la governabilità (sia pure al prezzo di dare la maggioranza dei seggi a chi ha avuto solo una minoranza dei voti). Ma che possa anche favorire il bipartitismo, questo sembra difficile.

Al momento il sistema politico italiano vede un solo partito in grado di superare il 30 per cento dei voti e per il resto un insieme — in continua ridefinizione — di partiti medi (Lega, Forza Italia, M5S), piccoli e piccolissimi. Dunque nella situazione esistente oggi, e presumibilmente nel prossimo futuro, quello che si configura è un particolarissimo caso di «monopartitismo». Per quanto si tratti evidentemente di un «monopartitismo democratico», rappresenterebbe egualmente un problema per chi considera l’alternanza come un elemento indispensabile in una democrazia.

Questa situazione ha dietro di sé molte cause e responsabilità, non può dunque essere direttamente imputata all’attuale presidente del Consiglio (è forse colpa sua se Berlusconi, piuttosto che cedere il controllo di FI, preferisce condannarla all’irrilevanza e forse alla scomparsa?). Ma è anche vero che l’Italicum sembra congegnato proprio per accentuare una situazione del genere, che vede un gigante — il Pd — circondato da molti cespugli, come ha efficacemente scritto Antonio Polito su queste colonne. In particolare, l’aver abbassato al 3 per cento dei voti la soglia che consente a un partito di ottenere seggi, favorendo la frammentazione politica, va nella direzione esattamente opposta a quella del bipartitismo evocato dal presidente del Consiglio.

Del resto, se una logica si può individuare nella sua strategia politica, essa sembra tutt’altro che di tipo bipartitico. La dura e insistita polemica con la Cgil e con la sinistra del Pd lascia intendere che per Matteo Renzi la nascita di una formazione alla sinistra del suo partito non sarebbe poi un dramma. Anzi, sarebbe perfino una cosa buona, non in una logica bipartitica (che implicherebbe al contrario un Pd capace di tenere anche le correnti di sinistra al proprio interno) bensì in quella del «partito della nazione» — pure più volte evocato da Renzi — che però del bipartitismo (e del bipolarismo) rappresenta l’esatto contrario.

Lo dimostrano i casi dei due partiti della nazione che a lungo hanno governato l’Italia, prima e dopo il ventennio fascista: il partito liberale in epoca Giolittiana e la Democrazia cristiana nel dopoguerra. Fatte salve le molte differenze (tra l’altro, quello liberale aveva solo in parte la struttura di un partito come lo intendiamo noi oggi), si trattava in entrambi i casi di forze collocate al centro del sistema politico, che hanno governato ininterrottamente per decenni grazie all’emarginazione dei partiti o gruppi esistenti sulla destra e sulla sinistra. È solo dopo il 1994 che questa modalità di governo dal centro ha potuto essere sostituita da un assetto che, per quanti difetti avesse, era però di tipo, se non bipartitico, bipolare.

Con l’Italicum si tornerebbe probabilmente a una condizione molto simile a quella che il Paese ha già conosciuto per tanta parte della sua storia: più che di un cambio di verso, insomma, rischierebbe di trattarsi — se vogliamo riprendere un’altra espressione volentieri utilizzata da Renzi — di un ritorno alla casella di partenza, come nel gioco dell’oca. Giovanni Belardelli, Il Corriere della Sera, 23 aprile 2015

…..C’è poco da agguungere alle considerazioni negative sulla legge elettorale che il PD vuole appriovarer a tutti i costi come se fosse la cosa più urgente nell’interesse del Paese. C’è da aggiungere alle considerazioni squisitamente politiche esposte nell’editoriuale del Corriere della Sera solo la circostanza che in oparte la nuova legge è anche anticostituzionale lì dove prevede la nomina di buona parte dei nuovi deputati – i cosiddetti capilista- che limiterebbe la elezioni attraverso la scelta degli elettori a meno di un quarto dei componenti dell’unica Camera elettiva dopo la trasformazinen del Senato in camera di nominati dai Consigli regionali. Ce n’è abbastanza per auspicare che la Camera affossi questa legge liberticida che travolge anche come se niente fosse anche la pronncia della Corte Csotituzionale. g.

LA TRAGEDIA DI IERI: DOVE CESSA L’UMANITA’, di Claudio Magris

Pubblicato il 20 aprile, 2015 in Cronaca, Politica estera | Nessun commento »

Una barca di immigrati soccorsa dalla Marina italiana (Ansa/Lami)

Ogni volta la tragedia è più grande – e lo sarà sempre più – e ogni volta si dice, mentendo in buona fede a se stessi, che si è raggiunto il colmo.
E che è vicino il momento in cui si volterà pagina, proprio perché è intollerabile che continui questo crescendo di orrori.

Invece con ogni probabilità continuerà, se non accadrà qualche radicale e inimmaginabile cambiamento nella situazione e nella politica mondiali. La pietà, l’indignazione e lo sgomento del mondo – di noi tutti – si accenderanno, sinceri e inutili, a ogni nuovo episodio di barbarie.

Ma forse sempre meno, perché ci si abitua a tutto e proprio il ripetersi delle orrende e criminose tragedie renderà più assuefatte e meno reattive le coscienze.
Che fare, come dice il titolo di un famoso pamphlet politico? Il problema è tragico,
perché agli immigrati e senza nome e senza destino si oppongono non solo le livide, imbecilli e regressive paure di chi teme ogni forestiero incapace di bestemmiare nel suo dialetto e sogna un mondo endogamico e gozzuto di consanguinei.

Alla doverosa accoglienza umana di tanti fratelli perseguitati e infelici si oppone e purtroppo si opporrà una difficoltà o impossibilità oggettiva, il numero di questi fratelli infelici, che un giorno potrebbe essere materialmente impossibile accogliere. Un ospedale che ha cento posti letto può ospitare, in situazioni di emergenza, 150 malati, ma non 10 mila, e chi facesse entrare nelle sue corsie 10 mila persone creerebbe, irresponsabilmente, la premessa di nuove difficoltà e di nuovi conflitti. Queste infami tragedie sono la prova di un’altra triste realtà: l’inesistenza dell’Europa. Il problema dei dannati della Terra che arrivano sulle nostre coste è europeo, non italiano; coinvolge l’Europa, non solo l’Italia. Che l’Unione Europea se ne disinteressi è oscenamente autodistruttivo; è come se il governo italiano si sbarazzasse del problema dicendo che è affare della regione di Sicilia, visto che i naufraghi, vivi o morti, non arrivano a Roma o a Torino. Se l’Unione Europea se ne disinteressa, e non può essere un tardivo intervento a dimostrare il contrario, significa che l’Unione Europea non esiste. Che fare? Certo, si possono adottare piccole misure. Ad esempio, sarebbe opportuno che i mercanti di schiavi, colpevoli spesso volontariamente di crimini, fossero sottoposti, data l’emergenza di questa vera guerra per l’Italia, al codice marziale.

Non sarebbe male se i mercanti di schiavi e di morte sbrigassero i loro affari rischiando la morte come i loro schiavi.
Fa impressione leggere di alcuni di questi assassini arrestati e presto scarcerati e tornati al loro traffico lurido e lucroso. Che fare? Nessuno, sembra, lo sa.
Claudio Magris, Il Corriere della Sera, 20 aprile 2015

…Ecco il punto, l’Europa non c’è, anzi c’è quando si tratta di imporre austerità e vincoli, non c’è quando si tratta dei grandi temi etici e politici che riguardano la realtà del nostro e degli altri continenti. Questa Europa nion piace a nesusno che abbia un pò di buon senso, piace solo ai banchieri ae agli affaristi , i migliori alleati dei trafficanti di morte. g.

IL RIVALE CHE SERVE PER RENZI, di Angelo Panebianco

Pubblicato il 19 aprile, 2015 in Politica | Nessun commento »

Il presidente del Consiglio Matteo Renzi a Pompei (Ansa)

Poiché «l’era Renzi» promette di durare a lungo, una domanda diventa legittima: gli storici futuri ne parleranno come di un’epoca di buongoverno oppure di malgoverno? Si dirà un giorno che durante l’era Renzi vennero introdotte serie innovazioni a correzione dei nostri mali antichi, oppure se ne parlerà come di un periodo costellato da improvvisazioni demagogiche, capaci di suscitare consensi immediati ma anche di aggravare, nel medio termine, le difficoltà del Paese?

La risposta più ovvia a questa domanda («dipenderà da Renzi») è, almeno in parte, sbagliata. Perché molto, moltissimo, invece, dipenderà non da Renzi ma dall’opposizione, dalla qualità dell’opposizione. Se il premier sentirà sul collo il fiato di un’opposizione vigorosa (che non significa affatto agitata, scomposta o urlatrice) con serie possibilità di sconfiggerlo, di mandarlo a casa nelle elezioni successive, allora è probabile che egli venga costretto dalla forza delle cose a ben governare. Se Renzi dovrà invece fronteggiare un’opposizione non credibile, plausibilmente incapace di batterlo elettoralmente, se avrà la sensazione dell’impunità qualunque cosa egli dichiari o faccia, e qualunque errore commetta, allora non ci saranno santi: il suo diventerà rapidamente un malgoverno.

Poiché, come è noto, la storia non insegna mai niente a nessuno, sembra che oggi molti si apprestino a commettere, di fronte a Renzi, gli stessi errori che altri commisero durante la cosiddetta Prima Repubblica, quando giudicavano le performance dei governi della Democrazia cristiana. Allora, tanti commentatori, e tanti agitatori politici, si specializzarono nella critica del (vero o presunto) «malgoverno democristiano». Senza rendersi però conto del fatto che quel malgoverno dipendeva da una circostanza: la Dc non poteva perdere le elezioni, era inamovibile, e proprio per questo poteva dedicarsi in tutta tranquillità a ciò che i suoi critici chiamavano malgoverno. La ragione della sua inamovibilità aveva un n ome preciso: quello del Partito comunista. Poiché il Pci era al tempo stesso il più forte partito di opposizione e un’opposizione non credibile, incapace di vincere le elezioni, la Dc restava per l’appunto inamovibile, impunibile e impunita. Chi ce l’aveva con la Dc, in realtà, avrebbe dovuto prendere di petto il Partito comunista, avrebbe dovuto augurarsi che quel partito cessasse di essere il principale partito d’opposizione. Solo così, un giorno, si sarebbe potuto sconfiggere elettoralmente la Dc. E solo così i democristiani, temendo di perdere il potere, si sarebbero sforzati di migliorare la propria capacità di governo.

Oggi si fanno troppe chiacchiere su presunti sviluppi autoritari alle porte. Non è affatto quello il rischio che corre la democrazia italiana. Il rischio è quello di un governo Renzi senza rivali plausibili, spinto a mal governare (poiché mal governare è sempre molto più facile che governare bene) dall’assenza di serie sfide elettorali. Se nei prossimi anni i cosidetti principali sfidanti di Renzi saranno Beppe Grillo e Matteo Salvini, allora vorrà dire che Renzi non dovrà fronteggiare alcuna opposizione capace di batterlo. Certo, gli sbarchi continui di migranti gonfieranno plausibilmente i voti della Lega ma ciò, di sicuro, non basterà a farne uno sfidante vero.

Ciò che servirebbe all’Italia, allora, è una qualche soluzione (che ancora non si vede) della crisi innescata nel centrodestra dal declino politico di Berlusconi. Perché solo se rinasce una forte opposizione – conservatrice ma non estremista – Renzi si sentirà elettoralmente minacciato e sarà costretto a governare limitando al minimo indispensabile il ricorso ai trucchi da avanspettacolo, non sarà tentato di nascondere le difficoltà del governare ricorrendo ad armi di «distrazione di massa» (così il Sole 24 Ore di qualche giorno fa a proposito di tesoretti, bonus e altre tentazioni peroniste).

Qualcosa a che fare col tema che stiamo discutendo ce l’ha la legge elettorale che si andrà fra poco a votare. Non aiuterà la formazione di una forte e credibile opposizione la scelta di consentire a chiunque di entrare in Parlamento superando una misera soglia del tre per cento (come la proposta di legge prevede). Si è detto che una soglia così bassa è stata una concessione di Renzi ad Alfano e alle altre formazioni minori che sostengono il suo governo. Lo è ma non è solo questo. Perché favorisce, in prospettiva, una frammentazione dell’opposizione che a Renzi, forse, non dispiace. Fu Berlusconi ad accettare, ai tempi del patto del Nazareno, una soglia così bassa e commise un grave errore, un errore che, presumibilmente, in futuro, pagheranno proprio i suoi eredi politici.
Alla democrazia conviene che esista un’opposizione credibile. Converrebbe anche a Renzi, in realtà. Angelo Panebianco, Il Corriere della Sera, 19 aprile 2015

……Panebianco mette il dito nella piaga. Per fermare Renzi, la sua deriva autoriataria (che Panebianco gudica inesiustente) o il suo nullismo governativo che, questo si, è sotto gli occhi di tutti, occorre una opposizione vera, seria e combattiva, capace di interpretare e rappresentarela grande maggioranza degli italiani, cioè il mondo liberal-moderato. E questa opposizione è quella che si colloca naturalmente a destra, nel centrodestra, oggi fortemente spezzettato, incapace di una visione unitaria e oeganica del propriuo ruolo e delle proprie responsabilità difronte alla storia e al Paese. La maggiore responsabiità ricade su Berlusconi che ha legato uil suo declino personale a quello del centro destra, ma non ne sono da meno gli altri protagonisti o presunti tali dello scenario politico che ruota o ruotava intorno a Berlusconi. Tutti o comprendono che di fronte a Renzi va schierato un nuovo Berlusconi,  alleggerito dat utto ciò che ha reso vulnerabile l’ultimo Belrusconi, oppure il centro destra è destinato alla marginalità a tutto vantaggio di Renzi e naturalmente a discapito del Paese, anzi, chiamamola come ci piace chiamarla, della Patria. g.

QUELL’EUROCAVILLO CHE COSTA CARO ALLA PUGLIA, di Bepi Castellaneta

Pubblicato il 13 aprile, 2015 in Il territorio, Politica | Nessun commento »

La furia dell’acqua ha sparso terrore e morte trasformando una luccicante cartolina della Puglia turistica in una palude di fango. E un cavillo legato a una percentuale ha cancellato invece la speranza di un aiuto da parte dell’Europa. I danni infatti non sarebbero superiori all’1,5 del Prodotto interno loro regionale: tanto basta all’Ue per impedire di avviare la pratica, questa semplice soglia è sufficiente per respingere qualsiasi progetto di rinascita che passi per gli aiuti comunitari. Perché proprio quella percentuale è il limite fissato nei rigidi meccanismi di un ingranaggio che non fa sconti anche se paradossalmente si chiama «fondo di solidarietà». Una misura che sarà pure ancorata a una giusta ripartizione delle risorse tra i vari Paesi, ma sfugge a una logica di equità se si tiene presente che in una regione ogni provincia è differente dall’altra e il comune denominatore del Pil regionale può raccontare una situazione diversa dall’emergenza reale. Fatto sta che il Gargano si ritrova solo, lasciato a rimboccarsi le maniche dopo la tragedia che il 6 settembre dell’anno scorso travolse Peschici e altri centri vicini, un’alluvione che provocò due vittime e devastò nel giro di poche ore case e alberghi, campeggi e fattorie. Una terra in ginocchio, come annunciato dallo spicchio di mare divenuto marrone, un lago spettrale, immobile, sorvolato dall’elicottero di Matteo Renzi: il premier accorse al capezzale della Puglia ferita, ma non è chiaro quali verifiche siano state fatte dal governo per accertare se i danni fossero davvero inferiori alla fatidica soglia stabilita dall’euroburocrazia e se ci fossero i presupposti per avviare la richiesta di accesso ai fondi.

Due giorni fa la Commissione europea ha sbloccato 1,98 milioni di euro per la Bulgaria, 8,5 milioni per la Romania e 56 milioni per l’Italia: risorse che serviranno a coprire gli interventi di emergenza attivati in seguito alle alluvioni in Emilia Romagna, Liguria, Lombardia, Piemonte e Toscana. Lo ha annunciato la Commissaria per la Politica regionale dell’Ue, Corina Cretu, dopo l’interrogazione dell’europarlamentare (lombarda) di Forza Italia Lara Comi. Per la Puglia non è previsto neanche un centesimo: il governo italiano non l’ha inserita nel dossier inviato a Bruxelles. Sul Gargano dovranno arrangiarsi da soli, aggrappandosi a fondi statali e regionali. Come avvenne dopo il tragico incendio del 24 luglio del 2007 a Peschici: tre morti e migliaia di sfollati, almeno cinquanta milioni di danni, ma la richiesta di risarcimento fu respinta perché la domanda fu presentata in ritardo. E adesso, l’Europa è ancora più lontana. Bepi Castellaneta, Il Corriere del Mezzogiorno, 13 aprile 2015

…Una ragione di più per dubitare della efficienza e, sopratutto, delll’equilibrio della istituzione europea, la stessa che come nei paesi del terzo mondo sanzionano i pescatori italiani se usano reti di un millimetro in più dello stabilito per la pesca di pesci che attraverso le reti non passerebbero neppure se fossero fantasmi. Ecco, questa è la Europa dei burocrati strapagati per fare leggi e regolamenti a dir poco strampalati. E a farne le spese sono, come i quiesto caso, i ougliesi, i foggiani, i pescatori di Peschici. g.

L’ITALICUM, UN GIGANTE CON TANTI CESPUGLI, di Antonio Polito

Pubblicato il 8 aprile, 2015 in Politica | Nessun commento »

Se tutto resterà com’è, non c’è da andar tanto fieri della riforma elettorale che Montecitorio si appresta a varare. Innanzitutto per un problema di metodo. Le leggi elettorali sono le regole del gioco politico, e dovrebbero perciò essere considerate imparziali dal maggior numero possibile di giocatori. Altrimenti nascono zoppe, con maggioranze risicate, e hanno vita breve, come accadde prima al Mattarellum e poi al Porcellum. L’Italicum sembrava partito bene. Renzi chiarì che per evitare quel rischio bisognava cercare un compromesso tra le maggiori forze politiche. Per questo fece un accordo con Berlusconi, e a chiunque chiedesse modifiche replicò che non poteva tradire quell’accordo. Per questo ne offrì uno, a un certo punto sembrò anche seriamente, ai Cinquestelle. E invece in dirittura finale l’Italicum arriva con un sostegno politico molto ristretto, perfino inferiore alla stessa maggioranza di governo, a causa della fronda interna al Pd; addirittura inferiore al consenso con cui fu approvato il Porcellum, che per lo meno ebbe i voti di tutti i sostenitori del governo dell’epoca, e cioè Forza Italia, An, Lega Nord e Udc.

C’è dunque un’elevata probabilità che gran parte dello schieramento politico consideri ostile la legge che sta per essere approvata, e ne contesti aspramente la legittimità anche in futuro, fino magari a sostituirla per l’ennesima volta quando le maggioranze muteranno. Non sarebbe una novità: da vent’anni cambiamo sistema elettorale ogni dieci anni. Ma se il risultato fosse eccellente, e cioè una legge elettorale di stampo europeo al di sopra di ogni sospetto, si potrebbe anche tollerare il modo in cui nasce. Purtroppo non è così.

Di stampo europeo certamente non è, perché il premio di maggioranza non esiste in nessuna delle grandi democrazie europee con l’eccezione della Grecia (anche se il premier garantisce che correranno a copiarcela tutti). Al di sopra di ogni sospetto nemmeno, perché introduce di fatto l’elezione diretta del capo del governo senza dargliene i poteri e senza prevedere i contrappesi che esistono nei sistemi presidenziali. Produrrà dunque uno pseudo presidente in uno pseudo Parlamento, quest’ultimo essendo ulteriormente indebolito dal declassamento del Senato a vacanze romane dei consiglieri regionali e dalla selezione per nomina di un elevato numero di deputati. Per di più, non prevedendo la possibilità di apparentamenti al secondo turno come invece è nelle città italiane e nel Parlamento francese, assegna il 55% dei seggi a uno solo e il restante da dividere tra tutti gli altri, che a questo punto saranno molti visto che lo sbarramento è al 3%. Il risultato non sarà una forte e responsabile opposizione, bensì un coacervo di sigle frammentato e impotente, inevitabilmente portato al chiasso mediatico e alla protesta demagogica.

Un gigante e tanti cespugli: non è esattamente questa la democrazia rappresentativa in Europa. Non stiamo infatti per approvare una legge maggioritaria, che moltiplica i voti in seggi per dare una maggioranza; ma una legge proporzionale, cui alla fine si sommano i seggi del premio. Della stessa famiglia, dunque, delle tre più contestate della nostra storia: la legge Acerbo del 1923, la cosiddetta legge-truffa del 1953 (su entrambe il governo mise la fiducia) e la legge Calderoli del 2005.

I difetti dell’Italicum sono tanti. Il pregio è unico, ma non da poco: risponde a uno stato di necessità, e riempie il vuoto aperto dalla sentenza della Consulta. Qualsiasi legge elettorale è meglio di nessuna legge elettorale. Però in sedici mesi si doveva (e si può ancora) fare di meglio. Antonio Polito, Il Corriere della Sera, 8 aprile 2015

…Non c’è da aggiungere una virgola a quanto scrive Polito sulla nuova legge truffa che sta per essere varata con la forza da Renzi e compagni in Parlamento…anzi due cose si: 1. la legge Acerbo portava la firma di un illustre uomo di Stato, politico ed economista;  2. la legge truffa del 1953 non produsse effetti perchè il modesto premio di maggioranza   per il vincitore,  non potè essere attribuito perchè la coalizione vincente  non ottenne, sia pure  per poche briciole di voto, la maggioranza assoluta che la legge prevedeva si docesse conseguire per aver diritto al premio di maggioranza. Con la legge cosidetta Italicum basterà al partito vincente  il 40% dei voti validi (validi!, non degli aventi diritto al voto) per ottenere il 55% dei seggi della Camera dei Deputati. Bel passo indietro per la democrazia italiana ai tempi del renzismo. g.

I MISTERIOSI COSTI DEI POLITICI, di Gian Antonio Stella

Pubblicato il 2 aprile, 2015 in Il territorio | Nessun commento »

«Misteriosi e non accessibili»: sono sassate, le parole del «rapporto Cottarelli» per spiegare i troppi dubbi sui canali attraverso cui i soldi seguitano ad arrivare alla cattiva politica. Sassate che mandano in pezzi la bella vetrina luccicante dove era stata esposta agli italiani l’abolizione del finanziamento pubblico.
Ma come: neppure gli esperti scelti dal commissario incaricato dallo Stato di scovare le escrescenze da rimuovere con la spending review han potuto scavare fino in fondo? No. Carlo Cottarelli l’aveva buttata lì nell’intervista a Beppe Severgnini mentre già stava tornando al suo ufficio a Washington: «Spesso molti documenti non mi venivano dati. Non per cattiva intenzione, ma perché non facevo parte della struttura».

Il dossier «numero 5» sui costi della politica, tenuto in ammollo un anno (con spiritati inviti ad agire «entro fine febbraio 2014») accusa: «Il lavoro è stato reso difficoltoso dalla difficoltà di accesso ai dati e dalla bassa qualità degli stessi». Non solo «l’eterogeneità della contabilità regionale ha reso molto difficile svolgere stime accurate» ma, appunto, «restano misteriosi e non accessibili molti dei flussi finanziari che rappresentano forme diverse di finanziamento del sistema della politica». Testuale.

Vale per le Fondazioni dai nomi più altisonanti che, in assenza di regole chiare, sono ripetutamente coinvolte in pasticci troppo spesso dai risvolti giudiziari. Vale per i privilegi figli di altre stagioni e accanitamente difesi come le prebende ai giornali di partito, le agevolazioni postali (0,04 euro a lettera!) che si traducono «in un credito di Poste Italiane nei confronti del Tesoro per 550 milioni di euro», o l’Iva sulla pubblicità elettorale al 4 per cento, «ovvero la stessa aliquota vigente per i beni di prima necessità». Vale infine per le agevolazioni fiscali più generose concesse a chi regala soldi a questa o quella forza politica invece che, ad esempio, ad una onlus impegnata nell’assistenza ai malati terminali: «Non appare evidente il motivo per cui ai finanziamenti privati ai partiti debba essere riconosciuto un regime di favore rispetto alle altre associazioni».

Per non dire di norme che sembrano studiate apposta per sollevare fumo. Un esempio? Il comma 3 dell’articolo 5 dell’ultima legge sul finanziamento pubblico dove, in una brodaglia di 342 parole e tecnicismi si spiega che il nome di chi dona fino a centomila euro l’anno a un partito «con mezzi di pagamento diversi dal contante che consentano la tracciabilità» va reso comunque pubblico sul sito web del partito stesso. Ma solo nel caso «dei soggetti i quali abbiano prestato il proprio consenso». Evviva la trasparenza…
Eppure l’ex commissario ai tagli batte e ribatte lì: trasparenza, trasparenza, trasparenza. «La pressione dell’opinione pubblica è essenziale per evitare gli sprechi». Quindi, salvo le rare e ovvie eccezioni che riguardano la sicurezza, «tutto dev’essere disponibile online ». Tutto. Dalla banca dati dei costi standard a quella dell’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici.
E sempre lì torniamo. Alla necessità assoluta di offrire ai cittadini la possibilità di leggere i bilanci. Leggerli sul serio: la vera trasparenza non può essere alla portata dei soli specialisti in grado di capire le più acute sottigliezze da legulei. Se è vero, come scriveva un secolo fa Max Weber, che lo Stato «cerca di sottrarsi alla visibilità del pubblico perché questo è il modo migliore per difendersi dallo scrutinio critico», è fondamentale per noi, che abbiamo un enorme problema di corruzione, aprire le finestre perché ogni contratto sia finalmente trasparente. E leggibile.
Perché è lì, come hanno dimostrato decine di casi, che si annida la serpe del finanziamento occulto dei cattivi imprenditori ai cattivi politici. Scardinando le regole della sana economia, facendo lievitare i costi e imponendo, dice la Corte dei Conti, «una vera e propria tassa immorale ed occulta pagata con i soldi prelevati dalle tasche dei cittadini».

Lo sapevamo già prima del rapporto Cottarelli? Certo. Colpisce, però, leggere su un documento ufficiale lo sfogo di chi, dopo essersi visto affidare dallo Stato la missione di studiare le storture di un sistema ancora corrotto dalla cattiva politica, spiega di aver dovuto fare i conti con ostilità enormi.
Basti leggere, oltre ai già citati, questo passaggio firmato dal gruppo di studio guidato da Massimo Bordignon, che confessa di non essere proprio in grado di fornire dati precisi, ad esempio, sulle buste paga reali di governatori, assessori o consiglieri: «La difficoltà a ricostruire una banca dati affidabile per i costi del personale politico, incontrata anche in questo rapporto, dipende (oltre che dalla presenza della diaria) dalla moltiplicazione delle indennità, che gonfiano le retribuzioni e rendono poco significativa la retribuzione del singolo consigliere per la stima della spesa complessiva» Gian Antonio Stella, Il Corriere della Sera, 2 aprile 2015

……Mentre per gli italiani di serie B c’è l’Agenzia delle Entrate che controlla anche i respiri di ciascuno di noi, per i politici non c’è regola che tenga, i loro conti restano blindati e inaccessibili per tutti, anche per quelli designati al controllo con tanto di roboanti decreti e altrettanti roboanti annunci. g.

IL RENZISMO SI E’ FERMATO AD EBOLI, di Antonio Polito

Pubblicato il 31 marzo, 2015 in Politica | Nessun commento »

I l nuovo Pd di Renzi si è fermato a Eboli. Anzi, non ha neanche varcato il Garigliano. Più che la minoranza interna, il rischio peggiore per il segretario è questa maggioranza esterna di notabili e cacicchi locali che, soprattutto da Roma in giù, controlla tuttora il partito: un ceto politico rimasto del tutto immune alla cosiddetta «rivoluzione» renziana.

Non si tratta solo della questione morale. Che pure conta. L’ultimo arrestato in Campania, il sindaco di Ischia, non è uno qualunque: è un capo locale, uno capace di prendere 70 mila preferenze in tutto il Sud alle Europee fallendo per un soffio l’ascesa
a Strasburgo, uno che fino a dieci anni fa stava in Forza Italia, un Nazareno ante litteram nella sua isola, che governava in un patto di ferro con la destra. Più che una devianza, incarna cioè una filosofia politica molto diffusa nel Pd campano, spesso usato come un taxi da chi è a caccia di potere. Vedremo se con lui il segretario sarà inflessibile come con Lupi o flessibile come con De Luca. Conterà molto il clamore mediatico: che in questo caso è assicurato, perché le duemila bottiglie del vino di D’Alema non hanno niente da invidiare al Rolex di Lupi.

Ma prima ancora che morale, il problema è politico. Nel Mezzogiorno Renzi è un estraneo. Ci si fa vedere anche poco, per la verità. E comunque non c’è una regione meridionale dove si possa dire che abbia cambiato verso al suo partito. I governatori e gli aspiranti governatori del Pd sono tutti esponenti di un’altra epoca, che traggono la loro forza dal sistema di consenso costruito sul territorio e che sono al massimo tollerati, non certo scelti, dal centro. Crocetta in Sicilia, Emiliano in Puglia, Oliverio in Calabria, De Luca in Campania: niente di più lontano dalle camicie bianche, l’ e-govern ment e i talk show. E dietro di loro si agita il solito coacervo di potentati locali, neanche correnti si possono chiamare, che non fanno nulla per nulla, piccole aziende il cui core business sono i voti, meglio se con le preferenze. Il Partito democratico nel Sud è spesso un verminaio in cui è impossibile mettere le mani senza sporcarsi: e Renzi non ama sporcarsi.
Di conseguenza, hic sunt leones , ognuno si sbrana come può. Si spiega così l’impotenza dimostrata nella vicenda De Luca, quando Roma ha dovuto digerire la sua candidatura prima e la sua vittoria alle primarie dopo.

Non è del resto un caso se nel governo non c’è neanche un ministro meridionale, se la questione meridionale è stata ridotta all’utilizzo dei fondi Ue, se a gestirli c’è un signore di Reggio Emilia, se il Pd che va in televisione parla solo con l’accento toscano, o al massimo lodigiano come Guerini. Il Sud è rimasto un grande buco nero della politica italiana, uno spazio vuoto non più riempito né da una idea né da una classe dirigente di peso nazionale. Ed è un grande punto interrogativo sul nuovo Partito democratico di Renzi, ancora troppo diverso dal suo elettorato. Antonio Polito, Il Corriere della Sera, 31 marzo 2015

AI TEMPI IN CUI C’ERA LUI (BERLUSCONI), di Angelo Panebianco

Pubblicato il 29 marzo, 2015 in Politica | Nessun commento »

Sia Berlusconi ai suoi bei dì che Matteo Renzi da quando è al governo sono stati accusati di autoritarismo, di rappresentare una minaccia per la democrazia. Ma c’è una grandissima differenza. Berlusconi aveva contro (ferocemente contro) metà dell’Italia e, per conseguenza, anche una grande quantità di persone che contavano tantissimo sia dentro che fuori il Paese. Renzi, invece, è accusato di autoritarismo solo da una minoranza (sinistra pd, Cinque Stelle, una parte del sindacato), per lo più composta da sconfitti, molti dei quali presumibilmente in marcia verso una definitiva marginalità politica . Non è la stessa cosa. E infatti le campagne contro Berlusconi e il suo supposto autoritarismo videro impegnati eserciti sterminati, guidati da persone dotate delle risorse necessarie per alimentare un volume di fuoco elevatissimo, capaci anche, ad esempio, di arruolare nella crociata antiberlusconiana fior di cronisti stranieri, figure di spicco del Parlamento europeo, eccetera eccetera.

Niente del genere è accaduto e accade a Matteo Renzi. Eppure Renzi, ad esempio, ha predisposto una riforma della Rai di cui un aspetto non secondario è accrescere il controllo di Palazzo Chigi. Sta proponendo, con esiti ancora incerti, una stretta sulla pubblicazione delle intercettazioni giudiziarie e uno dei suoi, per l’occasione, ha ipotizzato (pensate cosa sarebbe successo ai tempi di Berlusconi) il ricorso al carcere. R enzi, inoltre, ha messo in piedi una riforma elettorale che gli cade addosso perfettamente come fosse un vestito di alta sartoria (invece, la cattiva legge elettorale fatta a suo tempo da Berlusconi servì a lui ma anche, e forse soprattutto, ai suoi alleati). Infine, Renzi sta (finalmente) imponendo il superamento del bicameralismo paritetico. Quando Berlusconi tentava di fare cose simili, veniva giù il Paese, gli attacchi e gli allarmi contro il «nuovo fascismo» erano quotidiani, anche sulle reti Rai. O qualcuno si è forse dimenticato di cosa accadeva all’epoca dei governi Berlusconi?

Ci sono tre considerazioni da fare. La prima è che, molte volte, quanto più i «grandi principi» e i «grandi valori» vengono sbandierati con ossessione, quanto più ci si straccia pubblicamente le vesti in loro difesa gridando al lupo, tanto meno chi lo fa crede davvero in quei principi e valori. I principi vengono spesso usati in modo strumentale, piegati alle esigenze politiche del momento, sono, per molti, armi da usare contro il nemico politico e da rinfoderare quando è l’amico a fare ciò che faceva il nemico.

La seconda considerazione è che era insopportabilmente esagerata la «mobilitazione anti autoritaria» contro Berlusconi. È pertanto decisamente un bene che (sia pure a causa dell’opportunismo e del doppiopesismo di tanti) tale mobilitazione non ci sia, o coinvolga comunque assai meno persone, nel caso di Renzi.

La terza considerazione è che non c’è contraddizione fra volere un rafforzamento del governo (e dunque un accrescimento delle capacità d’azione di chi momentaneamente lo controlla) ed essere pronti a criticarne le singole decisioni e azioni. Proprio se si auspica, perché serve alla democrazia, un più forte potere esecutivo, occorre essere pronti a fargli le bucce ad ogni passo falso. Le democrazie hanno bisogno di governi forti (e chi scambia ciò per «autoritarismo» prende lucciole per lanterne). Non hanno invece bisogno di stuoli di cortigiani sdraiati ai piedi del suddetto governo forte. E il premier ne ha tanti.

Renzi ha un grande merito: sta abituando la democrazia italiana all’idea che «un uomo solo al comando» non equivalga, in quanto tale, e solo per questo, al fascismo. È anche possibile che i futuri libri di storia finiscano per ricordarlo soprattutto per questa eccellente, meritoria impresa. Ma questo non deve renderlo immune dalle critiche. Le lodi doverose per certe buone cose varate non possono oscurare i motivi di biasimo. Sia per il tanto fumo e poco arrosto che per certe scelte, le quali spacciano come «grandi innovazioni» banali, antiche, e collaudate, furbizie elettorali. Angelo Panebianco, Il Corriere della Sera, 29 marzo 2015

….Non dubitiamo della assoluta indipendenza di giudizio di una delle migliori “penne” del Corriere quale è Angelo Panebianco e dello stesso quotidiano la cui autorevolezza è fuori discussione, meno forse la sua costante equidistanza (sfogliavamo ieri una vecchia e preziosa  raccolta di “prime pagine” del più grande quotidiano italiano  del secolo scorso, unica e cara eredità di un nostro avo, povero ma galantuomo,   e una  di queste ci ha un pò stupito ma non più di tanto: il Corriere anunciava con toni a dir poco trionfalistici il successo di Hitler alle elezioni tedesche che lo issarono al canciellerato della Germania con tutto quello che ne seguì…). Perciò consideriamo le riflessioni di Panebianco nel raffronto tra Berlusconi e Renzi del tutto obiettive, sia lì dove sottolinea la potenza di fuoco posta in essere contro Berlusconi, sia lì dove evidenzia come contro Renzi il fuoco sia stato quello della carabine a due colpi, incapaci neppure di raggiungere l’obiettivo. E valutiamo positivamente anche la sottolineatura che Panebianco fa circa la opportunità delle iniziative  legislative in atto da parte dell’attuale governo in materia di riforme (talune, forse quasi tutte, attese da decenni), condividendo peraltro le critiche apertamente espresse  sulla riforma della Rai che riforma non è salvo un accentramento di potere nelle mani del governo, e quelle invece riferite a cosiddette “grandi innovazioni” che   Panebianco invece liquida come “banali, antiche e  collaudate furbizie elettorali”. Quel che invece Panebianco, ed è per un verso strano e per altro verso grave, ignora è l’atteggiamento assai diverso assunto dai due protagonsiti a confronto rispetto alle critiche. Berlusconi, sommerso da critiche violente e fatto bersaglio, come si è detto, di una potenza di fuoco degna della battaglia di Stalingrado, alle critiche rispondeva con modi e toni abbastanza temporeggianti e forse ammiccanti, come è nel carattere dell’imprenditore che è sempre stato; Renzi invece risponde con sufficienza, supponenza, talvolta con violenza, spesso con insolente presa in giro, usando termini dispregiativi con gli avversari e/o i critici, accusati di essere volta a volta gufi o qualcosa del genere, e comunque manifestando insofferenza alle critiche perchè lui “fa quel che deve”. Forse… Ma il diritto di critica non può essere estirpato da nessuno e nei confronti d nessuno, neppure nell’era del decisionismo per il momento ancora improduttivo del renzismo rampante. Il diritto di eprimere ciascuno la propria opinione e di manifestare la critica non può essere impedito a chicchessia, qualsiasi sia il livello di gradimento(nel caso di Renzi ancora tutto da misurare elettoralmente)  dell’uomo  solo al timone. In democrazia, non è neppure il caso di dirlo, la ruota elettorale è simile a quella della fortuna  (in cui un tempo era esperto Renzi)  e quindi gira, ora di quà, ora di là. Ciò dovrebbe indurre chiunque alla moderazione e al rispetto delle altrui opinioni, senza considerarsi “arrivato” per sempre. g.

LA TENTAZIONE (RENZIANA) DELLA SEMPLIFICAZIONE, di Michele Ainis

Pubblicato il 27 marzo, 2015 in Politica | Nessun commento »

Dal 22 febbraio 2014 il segretario del Partito democratico è anche presidente del Consiglio. Dallo stesso giorno il presidente del Consiglio è anche ministro per le Pari opportunità. Dal 30 gennaio 2015 il ministro per le Pari opportunità è anche ministro per gli Affari regionali. Dal 23 marzo 2015 il ministro per gli Affari regionali è anche ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti. Troppi poteri in un solo potentato? No, sono ancora troppo pochi. Perché questo vuole lo Zeitgeist, lo spirito dei tempi. Un venticello che Matteo Renzi respira a pieni polmoni, e lo risputa fuori in norme, azioni, progetti di riforma. Incontrando l’applauso delle folle, anziché un’onda di sospetto. Lui l’ha capito, noi forse stentiamo un po’ ad accorgercene. Questa è l’epoca dell’unificazione.

Eppure basterebbe volgere lo sguardo al paesaggio che attraversiamo tutti i giorni. In quel quartiere c’erano tre o quattro botteghe alimentari, ora c’è un supermercato. O meglio c’era, perché i supermercati vengono divorati a loro volta dagli ipermercati. C’erano pure alcuni vecchi cinema, ma li ha sostituiti un multisala. Succede altrettanto nelle professioni, dove per esempio gli studi legali si sono trasformati in fabbriche, ciascuna con decine d’avvocati alla catena di montaggio.

Succede altresì nella cultura, nell’informazione, nella scuola. Messaggerie e Feltrinelli hanno costituito una joint venture che accorpa la distribuzio- ne di 70 milioni di volumi l’anno. Quanto alla loro produzione, l’offerta di Mondadori su Rcs Libri promette di controllare il 40% del mercato. Nel campo dell’educazione, una legge del 2011 ha stabilito l’accorpamento degli istituti scolastici; l’anno dopo la Consulta l’ha bocciata, ma solo perché questa decisione spetta alle Regioni. Mentre il disegno di legge sulla «Buona scuola» prevede la fusione dei due enti (Indire e Invalsi) che s’occupano di valutazione. Accadrà pure alla Rai, con l’accorpamento dei Tg. O forse è già accaduto: basta spingere sui tasti del telecomando per scoprire che tutti i talk show sono lo stesso talk show, con gli stessi ospiti, lo stesso fastidioso cicaleccio.

Sicché l’unificazione genera uniformità, e quest’ultima ci cuce addosso un’uniforme. Ormai la indossano, d’altronde, pure le nostre istituzioni. Il Senato ha appena deciso di ridurre le 105 prefetture alla metà. La Giunta toscana propone di concentrare le Asl in una megastruttura. Dalla Sicilia alla Liguria, s’avviano progetti di fusione delle Camere di commercio. I piccoli tribunali sono già stati soppressi da un decreto del 2012. La legge n. 56 del 2014 accorpa i piccoli comuni. Ma il loro corpo resta pur sempre esile, rispetto al gigantismo delle nuove città metropolitane. O delle macroregioni su cui s’esercita una commissione istituita dal governo: nascerebbero l’Alpina, il Triveneto, il Levante, e via giganteggiando.

Dopo di che su questo paesaggio erculeo vigilerà un ciclope con un occhio solo sulla fronte: il partito premiato dall’Italicum, che per l’appunto conferisce un premio in seggi alla lista, non alla coalizione.

Piccolo è bello, si diceva un tempo. Magari sbagliando, perché l’eccesso di chiese e campanili aveva disgregato la nostra identità comune. Anche l’eccesso di semplificazione, però, rischia di lasciarci prigionieri dentro un guscio vuoto. «Non si può unificare un Paese che conta 256 tipi di formaggi», recita un aforisma di De Gaulle. E il formaggio, una volta, piaceva pure a noi italiani. Michele Ainis, Il Corriere della Sera, 27 marzo 2015