RAFFAELE FITTO INTERVISTATO DA REPUBBLICA
Pubblicato il 27 febbraio, 2015 in Politica | Nessun commento »
«Le minacce non mi spaventano. L’epurazione sarebbe un suicidio. Ora si tratta di capire se Forza Italia è un partito europeo o un movimento sudamericano». Raffaele Fitto, abito blu, cravatta a tono, è seduto sul divano in pelle di uno studio al quarto piano di Montecitorio. Rientrato daBruxelles, è pronto aripartire m serata per il Veneto, oggi prima tappa del tour dei “Ricostruttori” a Padova. Ha la flemma che caratterizza questo quarantenne che con tono sprezzante l’ex Cavaliere definisce “democristiano”, ma lo sguardo determinato di chi sa di aver messo in moto una macchina che ormai non si ferma più. Nessun rancore personale nei confronti del leader, assicura: «Solo che Silvio Berlusconi è a un bivio. O aiuta tutti noi a costruire un centrodestra della Terza Repubblica, oppure rischia di farsi rinchiudere in un bunker».
Da oggi parte il suo giro per l’Italia, Berlusconi sembra chenon lasospenda, male farà terra bruciata in Puglia, i suoi uomini saranno esclusi dalle liste regionali. Come reagirà, onorevole Raffaele Fitto?
«Senta, madicheparliamo?Cirendiamo conto che di queste cose non gliene importa niente a nessuno? Vedo che alcuni, forse non avendo di meglio da fare, vogliono buttarla in rissa e trasformare tutto in una squallida lite di condominio. Io dico atutti che il campo di battaglia non è la miaamataPugliaolaLiguriaola Toscana, ma il futuro e le idee, se vogliamo dare un futuro e qualche idea al centrodestra. Altrimenti, Renzi potràcomodamentedire”nonc’èalternativa”».
Toti le rispondere che farebbe bene a concentrarsi sulla sua regione, dove ha sempre perso negli ultimi dieci anni
«Guardi, non mi faccia rispondere allo stratega Toti, per carità di patria. Noi proponiamo idee. Ho dedicato la convention di sabato a proposte precise: meno tasse, meno spesa, meno debito.menovincoliUe.piùsicurezzaconilcoinvolgimento anche delle Forze armate, più rigore sull’immigrazione, nessun appiattimento all’austerità della Merkel. Ne vogliamo parlare o vogliamo lasciare tutto il campo a Renzi e a Salvini, mentre noi facciamo liti da pollaio? Ð resto lo lascio agli abitanti deludenti di corti e cortili».
E la storia dei contributi non pagati dai suoi al partito, del buco nel bilancio regionale da 50 nula euro per bus e altro?
«Abbiamo pagato di tutto e di più e, ne sono fiero, anche e soprattutto per manifestazioni di solidarietà a Berlusconi quando era sotto attacco.Maqualcunodeveaveriodimenticato. Quanto ai conti, se si apre il tema della gestione trasparente del partito sarò io afare domande pubbliche. E attenderò risposte nette e chiare sulle modalità di gestione».
È vero che le è stato proposto di presentare liste parallele a Fi in Puglia e altrove? Lo farete?
«Il mio partito è Forza Italia. E farò ogni sforzo per smuovere un encefalogramma politico drammaticamente piatto».
Pensate davvero di impugnare le liste regionali, dopo l’epurazione in atto?
«Non voglio e non posso credere che qualcuno pensi di fare epurazioni per il semplice fatto che abbiamo avuto ragione su tutto. E poi, un’epurazione, come la chiama lei, non sarebbe politicamente ed elettoralmente parlando un omicidio, ma un suicidio. Oltre che statutariamente impossibile. Certo eche si è creato un clima surreale, con amici che solo perché stanno liberamente partecipando alle nostre manifestazioni in tutta Italia vengono fatti oggetto di attenzioni particolarinel partito, conminacce di commissariamento».
Ecco, appunto. Ma si rende conto che la stanno spingendo con tutte le forze fuori da Fi? Non pensa che forse sarebbe la scelta più coerente, a questo punto?
«Scusi, dico a lei e anche a me stesso: guardiamo la luna, non il dito che la indica. Siamo tra la Seconda e la Terza Repubblica Berlusconi è stato padre e protagonista della Seconda, e ne ha pieno merito. Oggi il centrosinistra, con Renzi — che io pure avverso — è entrato nella Terza. Il centrodestra deve fare la stessa cosa».
Si ma come?
«Silvio Berlusconi — e glielo dico con affetto, senza le smancerie degli adulatori — è anche lui a un bivio: o aiuta tutti noi a costruire un centrodestra della Terza Repubblica, attraverso le primarie, la democrazia, la scelta diretta degli elettori, nuove leadership e programmi, oppure rischia di farsi rinchiudere in un bunker. Il tempo non si può fermare. Quelli della corte e del cortile distruggono tutto consapevolmente e lui sbaglia ad assecondare questa deriva autodistruttiva. Noi c’eravamo, in tanti, il 4 agosto e il 27 novembre 2013 ( la condanna e la decadenza, ndr), nei giorni più difficili per Berlusconi. Altri non so cosa facessero allora. Ma lealtà non vuoi dire fedeltà servile».
Lei continua a chiedere primarie che Berlusconi mai concederà.
«Ma il problema non sono io, pur con tanti parlamentari e tanti amministratori. Sono i 9 milioni di voti spariti, finiti nell’astensionismo. Che facciamo, deferiamo questi 9 milioni di italiani ai probiviri, peraltro inesistenti? D centrodestra o fa come negli Usa, e nelle grandi democrazie anglosassoni, coinvolgendo i cittadini per la scelta di leadership e programmi, oppure sarà condannato solo al ruolo di opposizione».
Intervista su Rebubblica del 27 febbraio 2015
Perché io elettore di centrodestra non voterò Schittulli, di Amerigo De Peppo
Pubblicato il 26 febbraio, 2015 in Il territorio, Politica | Nessun commento »
Francesco Schittulli con Silvio Berlusconi
Caro Presidente Berlusconi, può un elettore importunare il leader del suo partito, peraltro già alle prese con mille problemi, per annunciargli che, in occasione della prossima tornata elettorale, non potrà contare sul suo voto? Che nel suo piccolo non sosterrà un gentiluomo come il professor Schittulli? Può e deve.
Lo deve innanzitutto per quella doverosa lealtà nei Suoi riguardi , quella lealtà che è mancata in quegli eletti con il simbolo del PdL che, all’improvviso, hanno voltato le spalle a Lei e a quegli Elettori che li avevano votati, nel caso dei parlamentari senza neanche poterli scegliere.
Lo può, perché, almeno nel mio caso, intendo dare nel mio piccolo un segnale: non sono detentore di un pacchetto di voti, controllo a malapena il mio, ma se, dopo aver votato Forza Italia e Pdl ininterrottamente dal 1994 a oggi, intendo prendermi una “vacanza”, vuol dire che almeno ai miei occhi si sta commettendo un suicidio politico ed è impossibile per me prendervi parte.
Mi spiego. Dopo l’ennesima delusione per il risultato alle elezioni comunali a Bari, ho sperato, ho voluto credere che almeno in vista delle regionali la scelta del candidato sarebbe avvenuta in tempi brevi e che, come peraltro era stato fatto in passato, sarebbe stata scelta una figura capace quantomeno di potersi battere per la vittoria. Invece assisto da mesi al solito, mesto teatrino della politica: tavoli di coalizione che non hanno portato a nulla, assurdi veti personalistici, figli di una volontà di resa dei conti, che hanno fatto ipotizzare sin dal primo momento una soluzione di compromesso al ribasso, uno snervante ping pong tra Bari e Roma. Insomma, rinvii su rinvii: per fortuna la legge imponeva ovviamente la presentazione delle candidature prima del voto, altrimenti sulla scheda, come su alcuni atti di compravendita di immobili, avremmo trovato la dicitura “candidato presidente da definire”…
Sono intimamente convinto che le primarie di coalizione sarebbero state l’unico modo per dare uno choc positivo all’elettorato pugliese di centrodestra, visto che non si riusciva a tirare fuori il coniglio dal cilindro, ossia un nome nuovo così carismatico da rompere tutti gli schemi e riaprire una partita che non io, ma l’autorevole notista del Giornale Adalberto Signore dà per persa già da qualche mese. Ormai però, dopo aver archiviato l’opzione primarie, il risultato finale sarà che Schittulli candidato, con l’ennesima partenza ad handicap e l’inevitabile “fuoco amico” che lo colpirà da alcuni settori della coalizione, grazie anche all’inqualificabile sistema del voto disgiunto, potrà ambire al massimo a un onorevole piazzamento. Insomma, il nuovo governatore della Puglia ha già un nome: Michele Emiliano.
E allora? Tempo fa, respinsi con sdegno l’analisi di un amico, politico pugliese della Prima Repubblica, secondo il quale la nostra regione era diventata ormai l’Emilia Romagna del Sud, ma ora devo purtroppo ammettere che aveva e ha ancora ragione.Di qui la mia decisione. Non parteciperò all’ennesimo funerale del centrodestra pugliese, non voterò per un galantuomo, sconfitto in partenza, ma non mi asterrò, dal momento che in questo modo andrei a confondermi con chi è ammalato, con chi è lontano da casa per lavoro, o magari si è dimenticato dell’appuntamento elettorale per andare alla partita o dalla fidanzata…
No, io non mi asterrò e per rafforzare questo mio gesto polemico voterò per Michele Emiliano. Se con questi atteggiamenti poco comprensibili il centrodestra sta facendo di tutto per agevolargli il cammino verso la vittoria, facendomi sentire deluso come i tifosi di quelle squadre i cui giocatori si vendevano le partite, allora offro il mio aiuto anche io, e in maniera trasparente, a Michele Emiliano, attribuendogli il mio piccolo, insignificante consenso. Il mio no a Schittulli non è un no alla sua persona, ma, come ha detto Lei motivando il Suo rifiuto a votare Mattarella, un no al metodo usato per arrivare alla sua candidatura.
Il mio comunque non vuol essere un invito ad altri elettori del centrodestra perché mi imitino, ma solo la reazione di chi ritiene che così non si possa andare avanti. Se, come i comunisti, credessi nel primato del Partito, al pari di Maurizio Ferrini, il mitico personaggio di arboriana memoria di cui Bersani sembra il clone, direi: “non capisco, ma mi adeguo” e voterei, turandomi il naso. Da inguaribile liberale quale sono, sognatore e individualista, dico invece: “non capisco e non mi adeguo”. Amerigo De Peppo, cfr. Il Corriere del Mezzogiorno, 26 febbraio 2015
….Salvo qualche non marginale “modifica ed integrazione”, questa lettera aperta di un elettore storico, come egli stesso si definisce, di Berlusconi e del centrodestra, potrebbe essere scritta e firmata e sottoscritta da uno qualsiasi dei 10 milioni di elettori di centrodestra che fra il 2008 e il 2014 hanno disertato il voto al PDL-F.I. in tutta la penisola o da uno qualsiasi delle decine e decine e decine di migliaia di elettori pugliesi che hanno fatto altrettanto tra il 2008, il 2013 e il 2014 e che si apprestano a farlo anche nella ormai imminente scadenza elettorale delle Regionali. Lo spettacolo che si offre agli occhi degli elettori del centrodestra pugliese è ancor più drammatico rispetto allo spettacolo offerto altrove. Qui lo spettacolo è non solo deludente quanto penoso, con gli insulti che ormai volano come stracci da una parte all’altra, tra i “nemici” di Fitto, che, va detto, hanno dato il là alla bordata di insulti e minacce e i suoi “amici”, tra i quali non sono mancati i primi disertori come è consuetudine in ogni luogo e in politica ancor di più. Una cosa però va detta con chiarezza: Fitto ha ragione da vendere nelle cose che dice e nelle contestazioni che fa per la gestione del partito e delle mancate battaglie politico-parlamentari di questi ultimi due-tre anni, ma ha torto lì dove dimentica che di questo andazzo egli stesso ha fatto uso, o quanto meno ha consentito che se ne facesse uso da parte del suo “cerchio magico” (non è solo Berlusconi ad averne uno….) in suo nome e per suo conto nella gestione del partito nella nostra regione. Il risultato è che al netto di tutto, le prossime scadenze elettorali, salvo miracoli e ripensamenti da pate di centinaia di migliaia di elettori moderati, segnaranno la palla in rete di Emiliano in Puglia e, purtroppo, di Renzi nel resto d’Italia, mentre il popolo di centrodestra, quel 65% di italiani, come amava ricordare Tatarella, che non è e mai sarà di sinistra, dovrà rinuciare non solo a vedere le proprie idee trionfare, ma rinunciare, forse per sempre, all’obiettivo di un unico grande contenitore politico-elettorale di centro destra, visto che prolificano galli e pollai, e tante, tante galline. g.
L’ONU, UNA FALSA AUTORITA’ MORALE, di Ernesto Galli della Loggia
Pubblicato il 22 febbraio, 2015 in Politica estera | Nessun commento »
Meglio chiarirlo subito: per sbarrare la strada all’Isis va benissimo cercare ogni possibile via diplomatica (puntare al «dialogo» mi sembra davvero un po’ troppo); egualmente giustissimo non affrettare in alcun modo un’eventuale soluzione militare della questione Libia. Tutto ciò per dire che in vista di qualunque decisione nel merito di tale questione mi sembra più che sensato guardare alle Nazioni Unite. Considerare cioè il Palazzo di Vetro come una sede preliminare ineludibile di qualunque via futura si scelga. Tuttavia, da ciò a celebrare il culto dell’Onu, a proclamarne obbligatoria l’osservanza in ogni circostanza, come sono inclini a fare da sempre una parte dell’opinione pubblica italiana e la totalità della classe politica, ce ne corre (o dovrebbe corrercene). Invece solo da noi, mi pare, l’Onu è considerata quasi una sorta di sede della coscienza universale, di unica titolare autorizzata a giudicare che cosa è bene e che cosa è male negli affari del mondo. Solo nel nostro discorso pubblico o quasi le sue pronunce sono generalmente accolte come l’inappellabile voce della giustizia. Da qui la necessità – sentita in Italia come assoluta – di un consenso dell’Onu stessa per attestare la liceità di qualsivoglia uso della forza: non già, come invece è, per dichiararne semplicemente la conformità formale al deliberato dell’organizzazione. Deliberato – bisognerà pur ricordarlo – che non proviene però da nessuna autorità imparziale (tipo tribunale o gruppo di «saggi» o esperti super partes ), bensì da un’assemblea di Stati. Di quei «freddi mostri», come li definì a suo tempo un grande europeo, i quali sono soliti giudicare legale o meno l’uso della forza (come del resto qualunque altra cosa) sempre e comunque in base a un solo criterio: il proprio interesse politico (o, ciò che è la stessa cosa, il proprio schieramento ideologico di appartenenza). Quale autentico valore morale abbia una simile pronuncia può essere oggetto perlomeno di qualche dubbio. Del resto il carattere moralmente spurio perché fondamentalmente solo politico delle pronunce delle Nazioni Unite è attestato dal suo stesso statuto, quando istituisce il diritto di veto. Cioè la regola per cui qualunque verdetto dell’Assemblea generale degli Stati è di fatto reso inoperante e perciò nullo dal diritto riconosciuto ai cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza (Usa, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna) di opporre la loro volontà contraria. Che razza di accertamento legale, e tanto più etico, è mai quello che può concludersi in questo modo?
Un’ulteriore riprova della base in realtà assai debole su cui poggia l’autorità delle Nazioni Unite è data dagli stessi che per un altro verso si presentano come i loro più convinti paladini. Cioè da coloro che si riconoscono nelle culture politiche che maggiormente auspicano in ogni occasione il ricorso all’Onu e l’ossequio alle sue risoluzioni. Per esempio i cattolici in generale e le gerarchie vaticane: gli uni e le altre sempre pronti a sostenere l’opportunità dell’intervento del Palazzo di Vetro, l’uso delle sue istanze e l’adeguamento alle sue direttive quando si tratta di tensioni e scontri politici tra gli Stati, di minacce di guerra. Quando però si tratta di questioni di diversa natura come l’aborto, la definizione di genere o il matrimonio tra persone dello stesso sesso – questioni dove l’etica conta davvero – allora, invece, all’Onu e ai suoi meccanismi decisionali non vengono più attribuiti, chissà perché, alcuna autorità e alcun valore. Così come del resto una vasta parte dell’opinione pubblica occidentale non attribuisce neppure lei alcun valore alle varie, pazzotiche (per non dir peggio) delibere delle Nazioni Unite in materia di razzismo, sionismo e via dicendo.
La verità, come non è difficile capire, è che dietro il ritornello del ricorso all’Onu che domina la politica estera dell’Europa c’è innanzitutto l’inconsistenza di quella politica. E subito dopo il deperimento del concetto tout court di politica in senso forte: come decisione per l’appunto sulla pace e sulla guerra, sulla vita e sulla morte. E questo è, a sua volta, l’effetto dell’incertezza che regna nella nostra coscienza su che cosa siamo e sul suo senso, su che cosa dunque ci è consentito di volere e sui mezzi da impiegare per volerlo. Ormai anche il concetto primordiale di autodifesa ci appare un concetto problematico. Per qualunque cosa o quasi abbiamo bisogno del consenso degli altri, e per metterci a posto la coscienza ci diciamo che è così perché sono gli altri meglio di noi a sapere che cosa è giusto e che cosa è sbagliato. Anche se dentro di noi sappiamo benissimo che gli altri, in realtà, ci indicheranno solo ciò che sembrerà più utile per loro. Ernesto Galli della Loggia, Il Corriere della Sera, 22 febbraio 2015
……..A conferma di quanto scrive Galli della Loggia, cui sono l’Egitto e la Turchia che infischiandosene dell’Onu, vanno all’attacco armato, aereo e sul campo, dell’ISIS…del resto anche Sarkozy e Cameron nel 2011 non attesero il via libera dell’ONU per attaccare la Libia, paese sovrano, non certo per ragioni umanitarie ma per il vile danaro.
LA BUONA SCUOLA? FRUTTI ACERBI PER TUTTI, di Gianna Fragonara
Pubblicato il 18 febbraio, 2015 in Cronaca, Politica | Nessun commento »
I l testo della Buona scuola, anche dopo la profonda revisione di queste ultime settimane, resta una proposta di riforma della professione di insegnante più che una riforma del sistema educativo. È un tentativo comprensibile e ambizioso di modernizzare la scuola attraverso gli uomini e le donne che ci lavorano. I due pilastri su cui si reggeva la proposta presentata a settembre non hanno retto al tentativo di essere trasformati in legge. Il primo, il sistema degli scatti solo premiali per i due terzi degli insegnanti di ogni scuola, è scomparso dal decreto in preparazione. Nelle intenzioni del governo, questo avrebbe dovuto innalzare il livello di preparazione, di impegno e di performance degli insegnanti italiani: si è capito che sarebbe stato impossibile da applicare e iniquo nei risultati, oltre che inutile. È stato sostituito da un sistema misto di scatti di anzianità e di scatti di merito assegnati con un più complicato sistema di valutazione della quantità e della qualità del lavoro e dell’aggiornamento degli insegnanti. Un sistema che funzionerà soltanto, nel suo intento di premiare i più bravi, se ci saranno fondi sufficienti a spezzare quel patto non scritto del «ti pago poco ma ti chiedo poco».
Il secondo pilastro era il mega piano di assunzioni di precari, pensato con la lodevole quanto illusoria idea di chiudere per sempre il problema dei supplenti nella scuola, si sta rivelando inattuabile, quanto meno iniquo ( lo dicono i sindacati) e addirittura dannoso (giudizio della Fondazione Agnelli) per il sistema scolastico perché riempirebbe le scuole di insegnanti spesso senza cattedra in quanto abilitati in materie secondarie e non utili. Mentre per materie fondamentali come la matematica gli studenti continuerebbero ad avere supplenti e altri precari. C’è da aspettarsi che nel decreto si trovi una soluzione migliore, magari quella dettata dai tribunali con le ultime sentenze: assumere a tempo indeterminato chi ha lavorato 36 mesi negli ultimi cinque anni.
La scelta fatta a settembre di impiegare tutti i fondi disponibili per le assunzioni – salvo briciole per gli altri capitoli come l’innovazione tecnologica – e di rinviare la formazione degli insegnanti e le loro nuove competenze al prossimo concorso autorizza a pensare che per una riforma vera anche della professione ci sarà ancora da aspettare.
Le parole chiave
Lo slogan affascinante – «La scuola che cambia l’Italia» – ha trasmesso l’idea che una riforma della scuola serva a far ripartire il Paese: ma qual è l’idea di scuola che guida la nuova legge? Le parole chiave scelte dalla Buona scuola sono: concorso, alternanza scuola-lavoro, laboratori, autonomia, inglese, Internet, programmi contro la dispersione, formazione, scuole aperte. Tutti istituti o programmi già in vigore da tempo (i concorsi dai tempi della Costituzione) o in via di sperimentazione, ma che finora non hanno funzionato per motivi vari, e che i provvedimenti del governo cercheranno di rilanciare. Norme complicate e la burocrazia hanno frenato le innovazioni ma principalmente sono mancati i fondi e questo si ripeterà.
Dei grandi temi della scuola, a partire da quello che dovrebbe essere il curriculum degli studenti – un’ora di musica alle elementari e una di economia e arte nei licei non bastano -non c’è traccia nelle bozze: davvero così come è impostata la scuola italiana è al passo con i tempi? In passato si era parlato di riformare i cicli, di cambiare le medie, di rendere più flessibile l’ultimo biennio delle superiori, di migliorare l’offerta scientifica, solo per citare i principali temi del dibattito. Ci si attenderebbe che le nuove proposte, contrariamente al testo presentato nei mesi scorsi, parlassero di questo.
Altrimenti, come spesso avviene in Italia, se non si troverà un futuro credibile per la scuola pubblica, la riforma la faranno nei fatti gli studenti. Come dimostrano già i dati anticipati ieri sulle scelte per le superiori: i genitori e i ragazzi considerano che oggi sia utile una formazione scientifica e che servano le lingue, tanto è vero che i due licei con più iscrizioni sono lo Scientifico e il Linguistico. Due genitori su 5 – sono dati della ricerca pubblicata ieri dal Corriere – pensano che i propri figli avranno un futuro professionale all’estero: sarà questa scuola all’altezza di prepararli? Gianna Fragonara, Il Corriere della Sra, 18 febbraio 2015
……Una delle tante riforme renziane, chiacchiere al vento e nesusn fatto concreto. Intanto la “buonascuola” a Pescara cade a pezzi sulle teste dei ragazzi, o, come a Toritto, tiene al freddo i ragazzi della scuola media dove, a due decenni dalla metanizzazione del paese, il riscaldamento della scuola va..si fa per dire…a gasolio. g.
CATIVA COSCIENZA DELL’EUROPA, di Ernesto Galli della Loggia
Pubblicato il 16 febbraio, 2015 in Politica, Politica estera | Nessun commento »
Mentre scriveva nel suo editoriale per il Corriere di ieri che «gli europei sembrano ormai incapaci di pensare seriamente alla sicurezza», Angelo Panebianco non poteva immaginare quanta ragione gli avrebbero dato dopo solo poche ore le notizie giunte da Copenaghen sull’ultima impresa del terrorismo jihadista. E sempre sperando che non facciano lo stesso le notizie provenienti in futuro dall’Ucraina. Alla sua analisi manca tuttavia una premessa importante: gli europei sono incapaci di pensare alla loro sicurezza innanzi tutto perché sono ormai incapaci di pensare alla guerra. Di pensare concettualmente la guerra. Di convincersi cioè che quando in una situazione di crisi una delle due parti appare decisa per segni indubitabili a usare la violenza, c’è un solo modo di fermarla: minacciare di usare una violenza contraria. E quando è inevitabile, usarla.
Da settant’anni questa elementare verità all’Europa di Bruxelles ripugna. Non a caso tutto il suo establishment politico-culturale ha appena potuto permettersi di ricordare il centesimo anniversario della Grande guerra solo a patto di farne propria l’antica qualifica papale di «inutile strage». Inutile dunque l’indipendenza della Polonia, dell’Ungheria o dei Paesi baltici che scaturì da quel conflitto. E perché? In che senso, da quale punto di vista? Inutile pure il risveglio politico di tutto il mondo islamico in seguito al crollo dell’impero ottomano: ma chi può dirlo? Così come inutile, naturalmente, nel suo piccolo, anche il ritorno all’Italia di Trento e Trieste, non si capisce in base a quale criterio. I n base al criterio, si risponde, che tutto questo è costato un enorme numero di morti. È vero. Ma un enorme numero di morti, per fare solo qualche esempio, sono costate anche le invasioni barbariche, le guerre di religione del Seicento, la battaglia di Stalingrado, per non parlare, che so, della colonizzazione dell’America in seguito alla scoperta del Nuovo mondo: si è trattato perciò di avvenimenti «inutili»? Ma via, che modo è mai questo di fare storia, assumendo come criterio chiave il numero dei morti?
È peraltro in questo modo, a forza di suscitare emozioni e di consolidare giudizi del genere, che la storia – quella vera, quella che secondo una famosa immagine di Hegel assomiglia inevitabilmente a un banco di macelleria dal momento che gli uomini sono sempre quelli del peccato originale – è in questo modo, dicevo, che la storia si è progressivamente dileguata dall’orizzonte concettuale dell’opinione pubblica europea. E insieme dalla cultura delle sue élite politiche, dopo il ‘45 orientate massicciamente in senso cristiano-socialdemocratico. Il vuoto lasciato dalla storia è stato riempito dai principi. Unicamente i principi devono guidarci nell’arena del mondo: la giustizia, la libertà, l’eguaglianza, il diritto. Ma soprattutto la pace. Peccato che in quell’arena i principi, se non sono sostenuti dalle armi, possono voler dire una sola cosa: il compromesso a tutti i costi, il compromesso sempre e comunque. E alla fine – nella sostanza, anche se ogni sostanza può sempre essere mascherata – quasi sempre la resa.
E infatti a cos’altro si prepara se non alla resa un’Unione Europea la quale – c’informava sempre ieri sul Corriere Danilo Taino, immagino con intima soddisfazione di Federica Mogherini, ormai avviata a farci rimpiangere lady Ashton – negli ultimi vent’anni, mentre ai suoi confini crollava il mondo, ha visto dimezzare la propria aviazione tattica, l’artiglieria passare da circa 40 mila pezzi a poco più di 20 mila, e i suoi tre Paesi più popolosi (Germania, Francia e Italia) attualmente in grado di schierare insieme solo 770 (dicesi 770) carri armati? E le altre cifre relative agli armamenti declinare più o meno nella stessa clamorosa misura? Forse, per risultare credibile, un presunto ministro degli Esteri dovrebbe occuparsi anche di queste minutaglie.
Niente guerra, invece, niente inutili stragi. L’Italia in specie poi, si sa, è votata alla pace. Se domani andremo in Libia, se mai ci andremo, anche lì, c’è da giurarci, non andremo per fermare con le armi le orde dello «Stato islamico», cioè con la guerra. No. Dimentichi che non c’è ipocrisia maggiore di quella delle parole, ma decisi a non dismettere la nostra sciocca ideologia, andremo «per mantenere la pace».
La guerra, gli europei dell’Ue hanno deciso di lasciarla agli americani. Credendo così, tra l’altro, di poterli comodamente giudicare dei «guerrafondai» schiavi della «cultura delle armi» e di potersi sentire quindi moralmente superiori ad essi: in una parola più democratici.
E invece è vero proprio il contrario. Se anche dopo il terribile Novecento gli Usa hanno potuto lasciare posto nel proprio arsenale ideale e politico alla guerra – e continuare a fare delle guerre – è stato anche perché consapevoli del forte legame della loro società con i valori democratici. Un legame che si è dimostrato capace di rimetterli sulla strada giusta dopo ogni guerra sbagliata, di suscitare gli anticorpi in grado di immunizzarli dai pericoli politici e dalle cadute etiche che sempre si accompagnano alla guerra. È per l’appunto questa consapevolezza (degli americani ma anche dei britannici) che gli europei invece, i quali pure si credono tanto più democratici, non possono avere. Oscuramente essi avvertono che il loro rifiuto della guerra, apparentemente così virtuoso, in realtà copre la paura che in qualche modo la guerra possa resuscitare come d’incanto i démoni che affollano il loro passato così poco democratico. È solo un caso se il Paese non da oggi più pacifista di tutti è la Germania? Il nostro amore per la pace, insomma, assomiglia molto a un antico rimorso divenuto cattiva coscienza. Ernesto Galli della Loggia, Il Corriere della Sera, 16 febbraio 2015
SANREMO: LA NOIA PUO’ FARE ASCOLTI, di Aldo Grasso
Pubblicato il 15 febbraio, 2015 in Spettacolo | Nessun commento »
Lo ammetto, su Sanremo ho sbagliato tutto. Lo davo per morto e invece ha fatto il pieno d’ascolti. Alla vigilia, avevo fatto quello che dovrebbe fare un critico: analisi, comparazioni, stato della musica in tv, cose del genere. Mi aveva confortato un articolo sul Foglio di Stefano Pistolini, che di queste cose capisce: «“X-Factor” oggi comanda, impone, orienta i gusti del pubblico. Al confronto il Festival di Sanremo è un cadavere».
«Cadavre exquis», forse, come piaceva ai surrealisti. A essere sinceri la costruzione del Festival l’avevo prevista giusta: una conduzione rassicurante, impiegatizia, retrò. Lo conosco Conti: prende per mano lo spettatore (anche se gli spazi sono angusti), ha il tono della guida turistica, svelenisce ogni eccesso con battute innocue. Nessuna trovata, nessun colpo di scena, nessuna idea guida, solo 50 e più sfumature di grigio (spesso tendenti al nero dato l’alto numero di necrologi) a smussare ogni sregolatezza. La «medietà» avrebbe dovuto prevalere sulla creazione dell’evento. E così è stato. Persino le «vallette» sono state scelte per deprimere lo show. Persino la reunion di Al Bano e Romina è stata copiata dalla tv russa, ma gli autori non sono stati capaci di far ripetere alla coppia la memorabile interpretazione di «Sharazan». Poi, è vero, Sanremo tira fuori il sociologo che alberga in noi e le spiegazioni ex post fioriscono come i fiori della Riviera (quel tanto che basta per salire sul carro del vincitore). Era un Festival contro i radical chic (ma si possono scrivere fesserie simili?) e, aggiungo io, Conti ha portato a termine la missione con la freddezza di un personaggio dei fratelli Coen. Era un Festival che parlava a tutto il Paese, come ha dichiarato il direttore Gianka Leone «e non a quella frazione che sta su Twitter o viaggia in Frecciarossa» (me lo vedo Leone sul treno dei pendolari, dove non c’è connessione per il suo smartphone!). Che Sanremo è sempre Sanremo. Che il contenuto (immagino le canzoni) è più importante del format. Che i comici che piacciono ai bambini (tipo Pintus) non necessariamente devono piacere ai grandi, ma sanno come fare audience. Che Sanremo è pur sempre un rito collettivo invernale, tranquillizzante proprio nella sua ripetitività, nella sua prevedibilità, nella sua assenza di emozioni forti.
È anche probabile che i dati d’ascolto siano direttamente proporzionali ai dati Istat sulla disoccupazione. Tasso, tasse, tosse. Eppure, lo ribadisco con forza, dal punto di vista dello spettacolo è stato un brutto, noioso Festival, salvo qualche gradevole eccezione. Brutto ma premiato dal pubblico in maniera sbalorditiva. Questo non l’avevo previsto: fare il pieno di audience con il vuoto di idee. Un colpo gobbo o l’involontaria virtù della noia? Aldo Grasso, Il Corriere della Sera, 15 febbraio 2015
………NULLA DA AGGIUNGERE. g.
PRESIDENTE MATTARELLA, ORA APRA IL QUIRINALE AGLI ITALIANI, di Gian Antonio Stella
Pubblicato il 11 febbraio, 2015 in Il territorio | Nessun commento »
Brindano a Madrid: il Palacio Real, nel 2014, ha fatto il botto: un milione e duecentomila visitatori. In un solo anno. Mostre temporanee e «dependance» escluse. Quanti il Quirinale, dicono i dati diffusi dall’ex segretario generale come prova di apertura al pubblico, in tutti gli otto anni di Giorgio Napolitano. Il confronto dice tutto. E potrebbe spingere Sergio Mattarella, nuovo inquilino di quello che è considerato uno dei più bei palazzi del pianeta, a chiedersi: può essere sufficiente, come gira voce, aprire qualche stanza in più per qualche ora in più la domenica prolungando fino alle otto di sera le visite previste ora soltanto la mattina?
Può esser vantato come un grande successo l’ingresso nella «casa degli italiani» nel 2014 di 15.400 alunni e insegnanti pari a 42 al giorno e cioè poco più di quanti studenti visitano quotidianamente la redazione del Corriere ? Sono in tanti, ormai, a invocare la trasformazione del Quirinale in uno straordinario museo della storia, della cultura, dell’arte d’Italia. Dall’ex vicepremier e ministro della cultura Francesco Rutelli ai presidenti del Fai Andrea Carandini e di Italia Nostra Marco Parini e via via un numero crescente di studiosi, parlamentari, siti web, opinion makers , associazioni, cittadini, giornali… In prima fila il nostro.
Certo, rovesciare di colpo le scelte dei predecessori non è facile. I presidenti nei decenni hanno privilegiato il palazzo sul Colle come luogo simbolo dell’eccellenza e del prestigio del Paese in grado di stupire e affascinare i Grandi del mondo, come una sorta di strepitosa vetrina del nostro patrimonio storico e monumentale. C’era un senso, nel vivere il Quirinale come una sorta di «Reggia» laica senza Papi e senza re. Ma oggi? Anche Francesco, scegliendo di vivere in bilocale del convitto di Santa Marta aveva lo stesso problema: non sarebbe suonata, quella decisione, come una presa di distanza dai Pontefici precedenti? Ha deciso la svolta. E Dio sa quanto il gesto sia stato apprezzato dai fedeli. C’è chi insiste che no, non è il caso che il presidente della Repubblica, di questi tempi, traslochi in un altro palazzo, magari bellissimo, nel centro di Roma. Che il cuore dello Stato è lassù sul Colle e lì deve restare. Può essere. Vanno custoditi con amore, certi simboli. Ma se la stessa Casa Bianca ha accolto l’anno scorso 600 mila visitatori spalmati su cinque giorni settimanali pur essendo un bel villone molto più piccolo e più esposto a ogni genere di rischio, possiamo ben immaginare che il Quirinale, con le sue 1.200 stanze, possa esser insieme le due cose. Lo scrigno dello Stato e un immenso spazio museale spalancato tutti i giorni, e non in dosi omeopatiche, ai suoi proprietari: gli italiani. Gian Antonio Stella, Il Corriere della Sera, 11 febbraio 2015
-….Altri l’hanno già scritto, ora si aggiunge Gian Antonio Stella a chiedere al neo presiente della Repubblica di rinunciare al ruolo di “re laico” nelle 1200 stanze del Quirinale per aprire le porte di questo splendido palazzo alcentro di Roma, con i suoi giardini sinora privilegio della casta di regime il 2 giugno di ogni anno, le scuderie aperte solo in occasione di mostre, e le già ricordate 1200 stanze, a beneficio degli italiani cosicchè essi possano davvero sentirsi i padroni di quella “casa”. Lo farà Mattarella o come spesso è accaduto sceglierà la strada delle prediche d’occasione, come quella enunciata in occasione della sua proclamazione (penso alle speranze e alle sofferenze degli italiani…) e perpetuerà la regola sinora seguita dai suoi predecessori? Il tempo, in tempi brevi, darà la risposta. g.
TUTTO CIO’ CHE MANCA ALLA DESTRA, di Ernesto Galli della Loggia
Pubblicato il 10 febbraio, 2015 in Il territorio | Nessun commento »
Tutto lascia credere che l’elezione del presidente della Repubblica, avendo mandato all’aria il cosiddetto patto del Nazareno, abbia posto fine a quella strategia dei «due forni» sulla quale il governo Renzi ha fin qui potuto contare: cioè l’uso di maggioranze parlamentari di volta in volta diverse, includenti oppure no Forza Italia, a seconda dei provvedimenti da votare. Il che, tuttavia, non ha certo cancellato quello che è forse l’elemento chiave che nel nostro sistema politico nato nel 1994 assicura fisiologicamente, come un fatto abituale, un grosso vantaggio competitivo alla Sinistra rispetto alla Destra. Beninteso, ve ne sono parecchi, di questi elementi fisiologici di preminenza: il fatto, tanto per cominciare, che la Sinistra ha dietro di sé settori della società civile più compatti e in certo senso più strategici (ad esempio i media e la cultura); che può contare in linea di massima su una maggiore motivazione, e quindi fedeltà, del proprio elettorato; che essa ha maggiore familiarità e conoscenze con personalità e circuiti politici internazionali.
Ce n’è uno però, come dicevo, più importante degli altri. Questo: la Sinistra, quando è al governo, sa e può fare,pur se entro certi limiti e per intenderci alla buona, politiche sia di sinistra che di destra, dal momento che sa che anche in questo ultimo caso conserverà comunque i propri voti, e in più attirerà quasi certamente voti dal campo avversario. La Destra invece no: essa sa e può fare (quando pure ci riesce) solo politiche di destra; e dunque al massimo può conservare il bacino elettorale suo proprio non potendo tuttavia sperare di ampliarlo di molto. Nella Seconda Repubblica ha funzionato così. Specialmente, come dicevo sopra, per effetto del diverso grado di fedeltà e di senso di appartenenza – o se si preferisce di «laicità» – che esiste in Italia tra il «popolo» di sinistra e quello di destra. Anche se è vero che in compenso la Destra gode del vantaggio di partenza di rappresentare socialmente la maggioranza del Paese. Sta di fatto che nel gioco politico iniziatosi nel ’94 mentre la prima riesce a disporre di due strade la seconda è sembrata sempre capace di percorrerne una sola.
Di tutto ciò, come ha mostrato ieri su queste colonne Michele Salvati, l’azione finora svolta da Matteo Renzi è il massimo esempio – ma non il solo: negli enti locali i casi sono moltissimi – di quanto sto dicendo. Pur con vari mal di pancia perché di certo in contrasto con molte sue premesse, la Sinistra renziana, infatti, può fare liberalizzazioni, riformare la Costituzione, cancellare privilegi nel mercato del lavoro, prendere di petto i sindacati, invocare inchieste e castighi sui vigili fannulloni di Roma, dare un’immagine di sé insomma (non importa che poi la realtà sia talvolta un’altra) diversa da quella sua tradizionale, e così facendo ricevere un gran numero di consensi pure dal centro e dalla destra. Che cosa è stata capace di fare invece di analogo in senso opposto nei suoi anni d’oro la Destra?
Certo, ha pesato molto la leadership berlusconiana, i cui limiti sono divenuti presto evidenti. Specialmente la sua scarsa determinazione e la sua inettitudine a tenere insieme la maggioranza e a guidarne l’azione di governo. Che infatti è apparsa fin da subito priva di un riconoscibile orientamento generale, di un qualunque disegno, sfilacciata in mille provvedimenti dettati dall’emergenza o da puri interessi particolari. La conclusione è stata che nei loro lunghi anni di governo, Berlusconi e i tanti che erano con lui non sono riusciti a trasmettere al Paese l’idea di che cosa potesse voler realmente dire un programma politico di destra, quali principi – se mai c’erano – essa mirasse a realizzare. Tanto meno – figuriamoci! – Berlusconi e i suoi (anche quelli che poi lo hanno abbandonato) sembrano aver mai pensato di spingersi su una strada programmatica che potesse apparire «di sinistra».
Questo è forse il principale problema che il tramonto dell’ex premier lascia in eredità alla sua parte. Se la Destra vuole tornare ad essere elettoralmente competitiva deve prefiggersi una linea che sia riconoscibilmente alternativa a quella della Sinistra, naturalmente, ma che al tempo stesso sappia interpretare anche alcune esigenze di fondo dell’ elettorato di quest’ultima. Ciò sarà possibile, io credo, ma solo a una condizione.
Una condizione che si spiega con la storia particolare del nostro Paese e delle sue culture politiche. Tra le quali quella liberal-democratica nei fatti si è sempre mostrata fragile, poco radicata e soprattutto incapace di sorreggere vaste ambizioni. Altrove sarà diverso, è certamente diverso, ma in Italia – come del resto in molti altri Paesi dell’Europa continentale – una sostanziale contaminazione della Destra moderata con punti programmatici diversi dai propri, i quali guardino verso sinistra, è possibile solo se la Destra riesce a integrare dentro di sé, stabilmente – non già in modo estrinseco sotto forma di fragili accordi di vertice che lasciano il tempo che trovano – la cultura del cattolicesimo politico.
Berlusconi ha pensato che fosse sufficiente un’alleanza con le gerarchie ecclesiastiche all’insegna di una strumentale condivisione di «valori irrinunciabili» (a lui e al suo ambiente peraltro del tutto estranei). Ma evidentemente non di questo si tratta. Bensì di fare i conti con quel lascito di idee e di propositi che vengono da una lunga storia e che hanno alimentato un’esperienza che è stata decisiva per la vicenda della democrazia italiana.
Altrimenti, per una Destra che oggi miri a contrastare l’egemonia renziana l’alternativa è una sola: quella di puntare spregiudicatamente su un massiccio smottamento ideologico-emotivo delle masse (popolari e non) verso particolarismi anarcoidi, verso forme di xenofobia e di antieuropeismo radicali. È la via attuale della Lega: una via tenebrosa e senza ritorno. Ernesto Galli della Loggia, Il Corriere della Sera, 10 febbraio 2015
…….Lucida analisi della realtà che però non riguarda solo il centrodestra della seconda repubblica. Anche nella prima repubblica il centrodestra, che salvo le correnti di sinistra peraltro subalterne per scelta autonoma alla sinistra dell’epoca (basta ricordare gli “indipendenti di sinistra”, tutti cattolici eletti nelle liste del PCI), poteva ben individuarsi nella DC, era “vittima” della sua collocazione ideologica e perciò costretta a scelte che anche quando potevano considerarsi indirizzate ai ceti medio-bassi della scoietà, finivano per portare acqua alla sinistra ufficiale. Del resto incominciò nella prima repubblica l’asservimento del mondo culturale italiano alla sinistra, anzi, per dirla tutta, iniziò sin da subito dopo la guerra, quando Togliatti non ebbe scrupolo ad arruolare nel PCI i tantissimi intellettuali forgiati dal fascismo (e la lista sarebbe lunghissima) affidando loro il compito di indirizzare la “cultura” verso la sinistra. Fu allora che la sinistra occuò tutti gli spazi possibili, dai premi letterari alla cinematografia alle case editrici, attraverso cui operò una intensa opera di “cattura” della società italiana del dopoguerra, nonostante che il benessere procurato dal boom degli anni non potesse ascriversi di certo alla sinistra in genere e al Pci in particolare. Poi è arrivata la seconda repubblica e l’improvvisa assunzione del potere da parte anche di quel segmento della politica escluso sino ad allora dalla vita dello Stato. Stranamente, però, è stato proprio questo segmento, cioè la destra missina e poi postmissina, a mancare l’appuntamento con la storia e con la realtà, è stata questa che, a prescindere dallo stesso Berlusconi che pur nella prima repubblica aveva comuqnue tranquillamente operato, ha glissato rispetto a tutto ciò che aveva denunciato come invasione e straripamento della sinistra nella società italiana. Come molti commentatori, primo fra tutti Pietrangelo Buttafuco, hanno rilevato, la classe dirigente postmissina si è preoccupata più di se stessa, anzi solo di se stessa e magari dei propri cari, piuttosto che della società, per cui invece di rifare al contrario ciò che la sinistra aveva fatto nei decenni precedenti,non ha in alcun modo rimodulato la presenza del centrodestra all’interno della società, mostrando non solo indifferenza, ma, peggio, evitando accuratamente di restituire alla destra ciò che le era stato tolto. Insomma, mostrando assoluta manxcanza di spregiudicata disinvoltura nelle scelte, da quelle culturali a quelle politiche, a quelle economiche. Certo, ha vinto e governato, ma ha mancato i grandi appuntamenti che pure milioni di elettori moderati, la grande maggioranza di questo Paese, si attendevano che fossero raggiunti. E ciò spiega le ragioni per cui oggi esso è elettoralemente minoritario nel Paese che pur rimane, come rileva Galli della Loggia, nella sua maggioranza moderato e liberale. g.
TATARELLA NEL RICORDO DI PIETRANGELO BUTTAFUOCO
Pubblicato il 8 febbraio, 2015 in Il territorio, Politica | Nessun commento »
16 anni fa, l’8 febbraio 1999 moriva Pinuccio Tatarella. Nell’anniversario della morte ecco un “ritratto” del politico e del’Uomo di Pietrangelo Buttafuco, oggi uno dei pochi intellettuali di Destra del nostro Paese.
Le vinceva sempre le sue battaglie politiche, Pinuccio Tatarella, perché non faceva altro che passeggiare durante le campagne elettorali. E stravinceva perché trasformava il tempo della città in un continuo far campagna, propaganda, attività e presenza di un destino consumato tutto in pubblico, tra la gente, e non per farsi tramite retorico, piuttosto spugna. Nel mare grande di una festa di popolo. Dove lui assorbiva tutti gli umori. E i colori.
Nichi Vendola, per conquistare Bari, la città tutta di superba plebe, si prese il testimone di Pinuccio Tatarella. E il vero erede di Tatarella – scomparso ancora prima di vedere la propria creatura, la destra di governo, sfasciarsi – fu proprio il comunista Vendola, uno degli uomini più fortemente poetici nella politica (tanto quanto Pinuccio, genuino e sentimentale lo fu nella “narrazione”, la capacità di dare coralità alla stagione dell’Armonia marchiandone i tempi).
Il governatore delle Puglie fu degno erede di Pinuccio non solo perché imparò presto a far doverosa sosta da Cenzino, il bar di piazza Mercantile, o per intrattenersi con la partita a carte e nel rinunciare alla vita blindata, ma perché seppe evocare nel comizio la ragione sociale della prima qualità dei pugliesi: la politica.
La destra che nella parentesi di governo non seppe scendere dalle sue auto blindate, non riuscì più a fare comizi come un tempo li faceva a Bari, in piazza S.Ferdinando: “Gianfrango” – recitava in cerignolese al microfono Tatarella presentando Fini ai baresi – “non sei tu che parli a questa piazza, è questa piazza che parla a te”. In nessun altro posto come a Bari, infatti, vale l’equazione tra piazza e politica – non c’è posto che eguagli Bari nella lettura dei giornali, nella discussione, nel ragionamento – ed è veramente un Mezzogiorno emancipato quello che ha dato all’Italia l’alta scuola di Tatarella, una prospettiva sociale e culturale che attraversa le pagine delle tante testate fondate da Pinuccio e fabbrica, con il vissuto popolare, la specificità di un laboratorio politico purtroppo irripetibile. Se vale l’ancoraggio meridiano, e in tema di Bari vale, altro che, ciò che ha radicato Tatarella nella scienza della politica neppure un Aldo Moro lo ha lasciato, al netto della vicenda esistenziale, tutta di tragedia e di potere. Se vale, infine, l’attraversamento trasversale, e tutto in Pinuccio è trasversale, quel suo modello è paradigma di pluralità in ragione di un fatto tutto speciale e tutto suo: nell’impossibilità di immaginare l’amministrazione della res senza la corresponsabilità dell’avversario.
La storia di Tatarella incontra quella della destra in Italia. Nel 1994, anno del primo governo Silvio Berlusconi, quando per definire Roma non si seppe trovare altra definizione che “cloaca”, in quella stessa cloaca che attentava all’efficienza della neonata Seconda Repubblica, Pinuccio Tatarella, vice-presidente del Consiglio, intuì la prima delle impossibilità. Quella di mettere alla prova le energie di piazza e di popolo da sempre tenute fuori dalla centrale del potere. Si vide respingere per ben tre volte una lettera da un dirigente del Ministero delle Telecomunicazioni, raccontò l’accaduto a Berlusconi e gli disse: “Qua non duriamo”. La storia della destra in Italia è nel perdurare del non durare. Ci fosse stato ancora Tatarella, lungo tutto il ventennio del berlusconismo, non avrebbe che avuta confermata, negli esiti, quella sua intuizione. Ci fosse stato ancora Tatarella non si sarebbe forse avuta la liquefazione di An – piuttosto vi avrebbe iscritto Berlusconi in persona – ma avrebbe acceso ancora attività, presenza e campagne elettorali nell’unica agorà accessibile all’animale politico, la piazza d’Italia la cui originaria impronta è la libertà. Ci fosse ancora Pinuccio, saremmo tutti in piazza, ciascuno forte della propria voce. Pietrangelo Buttafuco, 8 febbraio 2015.
Al direttore Antonio Polito il premio dedicato a Tatarella
Antonio PolitoLECCE – Ad Antonio Polito è stato assegnato il Premio Giuseppe Tatarella per il giornalismo politico. Sull’editorialista del «Corriere della Sera» e direttore del «Corriere del Mezzogiorno» è caduta la scelta dei comitati direttivi della «Fondazione Giuseppe Tatarella» e dell’associazione «Giuseppe Tatarella», che hanno istituito il riconoscimento che ogni anno premierà un giornalista politico italiano e che vuol ricordare l’impegno di Tatarella nel giornalismo. Il Premio Giuseppe Tatarella per il giornalismo politico si tiene sotto l’Alto patronato del Presidente della Repubblica, con il patrocinio del Presidente del Consiglio, del Presidente della Giunta regionale della Puglia, del Sindaco di Bari e del Sindaco di Cerignola, mentre il Presidente della Camera e il Presidente del Senato hanno inviato un premio di rappresentanza al vincitore del riconoscimento.La cerimonia di consegna del premio avverrà nel mese di marzo a Roma nel corso di un’iniziativa che sarà introdotta da Michele Placido che tratteggerà la figura di Giuseppe Tatarella. La costituzione del premio, che è stato assegnato l’8 febbraio, giorno della scomparsa del politico pugliese, vuole onorare l’impegno reale per la cultura e le idee profuso da Tatarella e la sua capacità di dar vita a riviste politiche capaci di interpretare i cambiamenti del sistema.
…E’ una scelta che condividiamo per la stima che nutriamo per il direttore Polito i cui editoriali e il cui pensiero non sono omologabili se non nel verso del più assoluto equilibrio. g.