LA PROVA CHE ATTENDE IL PRESIDENTE, di Ernesto Galli della Loggia

Pubblicato il 6 febbraio, 2015 in Politica | Nessun commento »

Designando Sergio Mattarella, l’assemblea dei grandi elettori del presidente della Repubblica ha scelto senz’altro una persona degna e irreprensibile. Non si può dire però di pari notorietà. Credo che fino a sabato scorso, infatti, ben pochi italiani avessero idea di chi fosse il futuro capo dello Stato, sapessero qualcosa di lui, ne conoscessero perfino l’aspetto. È questo, del resto, l’ovvio risultato dell’aver scelto un candidato del quale al momento dell’elezione – come ci hanno informato i giornali – non si conosceva alcuna manifestazione o dichiarazione pubblica successiva al 2008 (quindi ben prima di venir eletto alla Consulta), salvo una sua breve intervista a un gruppo di giovani dell’Azione Cattolica.

Alla lunga lista delle sue singolarità l’Italia ne ha aggiunta così un’altra: quella di avere un capo dello Stato che, pur avendo a norma della Costituzione il compito di «rappresentare l’unità nazionale», risulta però affatto sconosciuto alla stragrande maggioranza dei cittadini per non dire alla loro quasi totalità. Così come del resto anche la sua prima e più vera affiliazione politica – quella al cattolicesimo democratico rappresentato da Aldo Moro (un leader politico assassinato circa quarant’anni fa) – temo che non riesca a significare più molto per chiunque non faccia parte di un ristretto gruppo di seguaci o di addetti ai lavori.

Lo dico con il più grande rispetto, non di maniera, per la persona e per le istituzioni repubblicane, ma è così: la presidenza Mattarella reca il segno, ancor più di tutte le altre che l’hanno preceduta, di un frutto esclusivo del sistema politico-partitico. D i mediazioni, stratagemmi tattici, inclusioni ed esclusioni, tutte interne ad esso. In questo senso essa reca il segno inevitabile della massima separatezza tra quel sistema e il Paese, tra la sfera della politica e la gente comune.

Non si tratta di invocare in alternativa rovinosi plebiscitarismi. Non è questo il punto. Si tratta di convincersi che in un regime democratico, perché vi sia un minimo di autoriconoscimento dei cittadini nelle istituzioni è auspicabile – io aggiungerei necessario – che le istituzioni stesse siano rappresentate da persone in qualche modo note, con il cui volto, con le cui idee, vi sia da parte degli stessi cittadini un minimo di familiarità. E del resto non ebbe in mente precisamente un’idea del genere lo stesso attuale presidente della Repubblica quando oltre vent’anni fa propose, proprio lui, una legge elettorale (il ben noto Mattarellum ), largamente basata sul collegio uninominale maggioritario, cioè su un rapporto immediato e diretto tra eletto ed elettori?

Sono convinto che proprio per l’abito di sobrietà che è del suo temperamento, il presidente Mattarella avrà letto con un certo ironico distacco la valanga di dichiarazioni e di articoli di giornali gonfi di adulazione e di retorica che si è rovesciata sulla Penisola e sulla sua scrivania in questi giorni. Valanga che però non sarà certo servita a nascondere alla sua intelligenza il carattere di separatezza, di forte lontananza dalla pubblica opinione, sotto la cui insegna è nata la sua elezione. E di conseguenza la necessità di porvi rimedio utilizzando la grande quantità di risorse simboliche di cui il suo incarico dispone. Cominciando con il parlare superando il suo naturale ma forse eccessivo amore per le poche parole e rivolgendosi agli italiani nel modo in cui chi li rappresenta deve oggi fare: con semplicità, trovando reale novità d’accenti, animando il loro senso di appartenenza alla comunità nazionale, suscitando le loro speranze. Ernesto Galli della Loggia, Il Corriere della Sera, 6 febbraio 2015

……Dubito fortemente che le puntuali considerazioni del prof. Galli della Loggi sulla elezionje di uno “sconosciuto” al Quirinale  abbiano minimamante interessato sia i cittadini, sia quelli del “palazzo”. La gente comune, sempre più lontana dalle vicende del “palazzo” cui assistono con sempre maggior distacco e assoluto scetticismo non credo che sia più di tanto “toccata” dal fatto che il neo presidente della Repubblica sia più o meno uno sconosciuto; quelli del “palazzo” poi hanno compiuto scelte,a parer loro, in assoluta sintonia con i loro interessi di parte, del tutto lontani da ciò che la gente comune può ritenere più giusto. Del resto se l’attuale premier che un’ora si e l’altra pure annuncia cambiamenti e innovazioni,  se avesse voluto davvero cambiar pelle a questa repubblica lo avrebbe e potrebbe ancora farlo  sottraendo, attraverso la riforma costituzionale in gestazione,  la elezione del capo dello stato che è il “capo” di tutti,  ai giochi di partito, di correnti, di gruppi e sottogruppi, per affidarne la elezione al popolo elettore. Invece no. Non solo ha glissato in occasione della riforma costituzionale che si rivelerà alla fine una modesta rivenciatura dell’esistente, ma ha ignorato  che quella della  elezione diretta del Capo dello Stato è l’unica, vera “rivoluzione” copernicana  che potrebbe ricreare tra il popolo e la classe dirigente il necessario rapporto fiduciario che, esso solo,  può ricreare le condizioni di ritorno alla normalità in un Paese che da decenni vive in un clima di perenne straordinarietà. Ma forse è questo l’unico disegno vero della “casta” per perpetuare se stessa e i propri privilegi. Tra cui quello  di eleggere uno “sconosciuto” alla massima carica dello Stato. g.


QUEL CHE HA FATTO IMPLODERE IL CENTRO DESTRA….di Francesco Capozza

Pubblicato il 5 febbraio, 2015 in Politica | Nessun commento »

Se Atene piange, Sparta di certo non ride. Senza scomodare gli antichi è questa la drammatica situazione in cui si trova il centrodestra – o quel che ne rimane – dopo l’elezione di Sergio Mattarella al Quirinale. Certo, paragonare Forza Italia alla grande capitale ellenica e Ncd alla storica rivale potrebbe risultare anacronistico, ancorché velleitario, ma rende certamente bene l’idea del caos in cui sono sprofondati entrambi i partiti prima, durante e soprattutto dopo le giornate che hanno portato l’ormai ex giudice della Consulta al Colle.

Dentro il partito berlusconiano è ormai un tutti contro tutti e per molti, addirittura, un tutti contro uno: Denis Verdini. L’ex coordinatore del PdL, potente uomo macchina del partito di Piazza San Lorenzo in Lucina, viene accusato da quasi tutti i colleghi di partito di essersi praticamente svenduto al conterraneo inquilino di palazzo Chigi. Persino Maria Rosaria Rossi, l’ombra silente di Berlusconi, la senatrice poco più che quarantenne che segue il leader ovunque e che resta una delle persone più influenti sulle decisioni del capo, accusa Verdini (chiedendone l’allontanamento) di aver gestito la partita del Quirinale in maniera approssimativa, sbagliando su tutta la linea e convincendo il capo azzurro a votare una legge elettorale favorevolissima al Pd con la certezza di arrivare ad un Presidente della Repubblica condiviso e non imposto. Verdini replica che non è nel suo Dna dimettersi da nulla, e che solo lui conosce veramente i contenuti del Patto del Nazareno.

Per non parlare poi di Raffaele Fitto, il pasionario pugliese leader della minoranza interna del partito (che molto probabilmente ha votato Mattarella nel segreto dell’urna) ha chiesto l’azzeramento di tutte le cariche in Forza Italia. Senza prendere le parti di nessuno – e ci mancherebbe altro – c’è da dire che Fitto tutti i torti probabilmente non ce l’ha. L’elezione del successore di Napolitano è infatti solo la punta dell’iceberg che ha fatto implodere Forza Italia. E probabilmente lo stesso Berlusconi ha sbagliato su tutta la linea nella partita quirinalizia. Se avesse tenuto il punto sulle Riforme facendo mancare i propri voti al Senato fino a dopo la riunione del parlamento in seduta comune, forse le cose si sarebbero messe diversamente. O se, una volta trovatosi nel cul de sac, con un nome secco – quello di Mattarella – proposto da Renzi per il Quirinale, l’avesse condiviso immediatamente, avrebbe evitato la tragicommedia delle ore successive. O, in ultima analisi, se avesse puntato su un altro candidato forte (Finocchiaro, Bersani, Veltroni…) targato Pd, in contrapposizione al costituzionalista palermitano, probabilmente avrebbe creato non pochi problemi nella compagine dei grandi elettori del Nazareno.

Melodramma analogo nel Nuovo Centrodestra, con un segretario e Ministro dell’Interno del governo Renzi, Angelino Alfano, che prima ha stretto un patto sul Colle con il suo ex leader salvo poi, all’ultimo minuto, salire sul carro del vincitore intestandosi, seppure in parte, la riuscita dell’operazione Matterella. Questione di Metodo, si è detto più volte, sconfortando persino La Palisse: “Mattarella è un candidato eccezionale, ma non ci è piaciuto il metodo di Renzi”. Come dire: avremmo voluto una terna di nomi nella quale scegliere quello a noi più gradito. Renzi sarà pur giovane, ma di certo non è fesso: lasciare la golden share a Berlusconi e Alfano (per lui, i loro, sono “partitini”) avrebbe innescato una bomba ad orologeria nel Pd, dove la minoranza era pronta, si dice, a votare Prodi insieme al M5S già alla prima votazione.  Sarà stata questione di metodo, ma tant’è che anche NCD sta perdendo pezzi un giorno via l’altro, numerose defezioni sono già arrivate sulla scrivania del Viminale e pure Maurizio Lupi non va mascherando in Tv e sui giornali il suo disappunto.

Se tutto quello che sta accadendo nel centrodestra porterà alla caduta del governo o all’arenarsi delle Riforme elettorale e costituzionale non è dato sapere (seppure siamo pronti a scommettere che nulla cambierà), ma una cosa è certa: se in Forza Italia si piange, in Ncd di certo c’è davvero poco da ridere, aprendo uno spazio enorme, come giustamente afferma Passera, per chi, come noi, spera in un centrodestra e in una Destra assai differenti. Francesco Capozza, LIBERADESTRA, 5 febbraio 2015

…intanto Forza Italia scende al 12% o forse meno e il resto della galassia in cui si è sparpagliato quel che appena 7 anni fa conquistava il 48% degli elettori italiani assomiglia sempre più al fantasma dell’opera, tanto da ridare fiato e visibilità a Gianfranco Fini che sul Corriere della Sera di oggi invita a “ripartire da Alleanza Nazionale” cioè dal partito che proprio lui sciolse come neve al sole, uomo solo al comando. Povera Destra, mai come in questo momento appare una nave nel bel mezzo di una tempesta terribile da cui è difficile, assai difficile possa uscirne indenne. Una cosa però ci sembra abbastanza evidente: non possono essere i responsabili del disastro che è sotto gli occhi di tutti,  coloro i quali possano restituire dignità, onore, rappresentanza  e cittadinanza alla Destra italiana.  g.

LA FRUSTA E IL DOLCE FISCALE, di Antonio Polito

Pubblicato il 3 febbraio, 2015 in Politica | Nessun commento »

Matteo Renzi, Sergio Mattarella e Angelino Alfano (Ansa/Carconi)

Meno male che oggi parla Mattarella. Innanzitutto perché sono sette anni che non parlava; e questo già la dice lunga su un sistema politico che ha dovuto cercarsi l’arbitro più lontano possibile dal suo chiacchiericcio quotidiano. E poi perché, parlando il garante dell’unità nazionale, forse taceranno per un giorno tutti gli altri che hanno già ricominciato a darsele di santa ragione.

I due gruppi più rumorosi sono composti da quelli che negano di aver venduto tappeti e da quelli che rifiutano di essere usati come tappeti. Nel primo gruppo spicca Verdini, il quale respinge le accuse di «fallimento» che gli piovono addosso dal cerchio magico di Berlusconi ricordando che nel Patto con Renzi c’era, altroché se c’era, la scelta comune del nuovo presidente. Testimonianza autentica, visto che viene da uno degli apostoli del Nazareno; ma ormai utile solo per gli storici poiché, come lui stesso ha ammesso, in politica chi ha i numeri fa quello che vuole, e Renzi ha fatto di Berlusconi ciò che voleva.

Ma lo scontro in cui è coinvolto l’ex falco berlusconiano diventato colomba renziana non va sopravvalutato, poiché ha risvolti più interni che esterni. Comunque finisca, che l’ex Cavaliere torni in sella o continui a fare il fante, ormai non conta molto ai fini delle sospirate riforme istituzionali. Il più, infatti, è fatto. E per la minoranza pd non sarebbe decoroso rimetterle in discussione dando una mano alla vendetta berlusconiana. D’ altra parte al capezzale del Nazareno è subito accorsa il ministro Boschi, vera e propria crocerossina delle riforme, a ricordare e ribadire che la norma per la depenalizzazione dei reati fiscali, nota ormai come decreto tre per cento, si farà. Anche se, visto che il tutto era stato rinviato al 20 febbraio, e non foss’altro che per una ragione di stile, forse era meglio aspettare un attimo di parlarne con il nuovo capo dello Stato, cui spetterà firmarla trattandosi di un Decreto del Presidente della Repubblica.

Più interessante, e sorprendentemente perfino più delicata per gli equilibri della legislatura, è la tempesta che si è scatenata nel partito di Alfano ad opera di coloro che non vogliono essere trattati come tappeti, anzi come tappetini per usare l’espressione del ministro Lupi. La crisi interna di quel gruppo non è solo frutto di rabbia passeggera per il trattamento ricevuto, ma richiama per così dire una questione ontologica mai risolta da Alfano e i suoi. E cioè come può un partito che si chiama Nuovo centrodestra stare in un governo organico di centrosinistra proponendosi di andare alle prossime elezioni con il centrodestra. Nello sfavillio di maggioranze che Renzi ha messo in mostra in questi mesi (una per il governo, una per le riforme, una per il Quirinale), si tende infatti a dimenticare che al Senato ne ha ogni giorno una risicatissima appesa proprio a quel «partitino» delle cui convulsioni il premier dichiara di non volersi curare. Se per caso Ncd non reggesse alla prova da sforzo cui è stata sottoposto nel fine settimana, qualche conseguenza politica potrebbe infatti prodursi. E per quanto sembri improbabile che gli alfaniani al governo siano disposti ad aprire una crisi, i non alfaniani non al governo potrebbero tagliare la corda prima di finirci impiccati.

A parte il tran tran quotidiano, c’è in particolare un futuro appuntamento parlamentare in cui ogni voto conterà di nuovo moltissimo: la seconda lettura al Senato della riforma costituzionale. In quella occasione, che si proporrà comunque tra non meno di tre mesi, sarà richiesta la maggioranza qualificata di 161 voti al Senato. Alla portata del governo, ma certo non sicura se una forza politica di maggioranza vi arrivasse in via di dissolvimento.

Le incognite del circo politico non si sono dunque tutte sciolte nell’ovazione che ha accolto Mattarella presidente. Anche se il domatore, Matteo Renzi, sembra oggi più in comando che mai, zuccherino in una mano e frusta nell’altra. Antonio Polito, Il Corriee della Sera, 3 febbraio 2015

….Oggi trombe e  e trombettieri  hanno fatto a gara a tirare il fiato ai tanti laudatores dell’ennesima giornata storica e forse anche epica del nostro povero – in tutti i sensi! – Paese, parte del quale, una piccollissima parte ha pre4so parte attraverso la TV alla parata di Stato introino al nuovo presidente  della Repubblica che mentre da una parre guardava a sinistra -metaforicamente – alle delusioni e alle povertà degli italiani, dall0′altra, da destra, diciamo, ha preso parte, protagonista, allo spettacolo che più si adatta a un popolo felice piuttosto che ad un popolo malfermo sulle gambe, con tanto di corazzieri, cavalli, aerei che sfrecciano nel cielo, e, giusto per non farsi mancar nulla, anche  un cane scondizolante, mascotte dei carabinieri. Ma è solo lo spettacolo di un giorno, nel quale si è visto anche il baciamani di Berlusconi alla Bindi, e il sorriso ebete di Alfano mentre applaude il congterraneo che non voleva votare e che popi ha votato. E’ solo lo spettacolo di un giorno, perchè da domani con il Paese in deflazione e la ripresa che sta solo nel sorriso abatino del premier, si torna alla solita vita di tutti i giorni, con un paese legale sempre più lontano dal paese reale, con una classe dirigente che perpetua non solo i riti ma anche e sopratutto i privilegi più incredibili sui quali si sorvola, e solo interessata ai giochi e giochetti della politica, che nulla hanno a che vedere con i problemi della gente comune, con quella gente  che percepisce  poche migliaia di euro l’anno e non ce la fa ad andare avanti. g.

LA DISSOLUZIONE DEL CENTRODESTRA, di Pierluigi Battista,

Pubblicato il 1 febbraio, 2015 in Il territorio | Nessun commento »

Il leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi, al termine dell’assemblea dei Grandi elettori di FI per il Quirinale (Ansa)

Nel giorno dell’elezione di Sergio Mattarella e del trionfo di Matteo Renzi, ciò che resta del centrodestra certifica la sua completa dissoluzione. Lo spettacolo umiliante di questi giorni non rivela infatti soltanto insipienza tattica, confusione mentale, goffaggine estrema nel perseguire un obiettivo, paralisi psicologica nel complesso e infido gioco parlamentare, incapacità di stabilire una strategia minima di alleanze.

Rivela nel modo più doloroso per chi nell’elettorato italiano ha guardato in passato al centrodestra l’evanescenza di ogni leadership. Un fondo di disperazione politica di fronte a un avversario forte che ha impresso una svolta impressionante nello scenario politico italiano. Un legame sempre più sottile con la società italiana: interi ceti sociali che abbandonano la rappresentanza berlusconiana, la quasi totalità degli enti locali (se si esclude il Veneto, una ridotta lombarda e qualche macchia nel Sud) in mano al Pd, un’opinione pubblica frastornata, muta, sconfortata, residuale. Un partito afasico, con un leader che le vicende giudiziarie hanno piegato e ferito molto più di quanto non si dica. Una classe dirigente mediocre e inadeguata che pensa al partito come a una corte in fuga, in attesa di una parola e di un favore elargiti da un monarca sempre più appannato, come nell’ Ancien Régime alla vigilia del 1789. Forza Italia nel caos. Il «Nuovo centrodestra» vissuto come un poltronificio, i «Fratelli d’Italia» prigionieri di un reducismo minoritario. E accanto l’unico leader in partita, in crescita, aggressivo, capace di mietere nuovi consensi: Matteo Salvini. Che però è l’opposto di un centrodestra di governo: è la destra di protesta, vociante ed energica ma che non potrà mai aspirare a contendere a Matteo Renzi l’ingresso a Palazzo Chigi.

Il centrodestra ha cominciato a morire nel novembre del 2011, con l’estromissione traumatica di Berlusconi dal governo. Il Pdl era già spaccato in fazioni, il leader sembrava sul viale del tramonto, ma solo la non vittoria di Bersani nelle elezioni del 2013 ha dato la sensazione che il centrodestra, dopo aver perso 16 punti percentuali in soli 5 anni, potesse risorgere. Intanto il Pd si rinnovava, con le primarie imponeva il suo dibattito nell’agenda politica e nel mondo dell’informazione e dell’immagine, con la vittoria di Renzi si dimostrava capace di parlare a un mondo che non era già rinchiuso nei recinti del centrosinistra classico. E nel centrodestra? Con il leader condannato ai servizi sociali e un Pd in vertiginosa ascesa, il centrodestra berlusconiano si è aggrappato al «patto del Nazareno» come ultima spiaggia per contare qualcosa e addirittura per cointestarsi la regia delle riforme istituzionali: Berlusconi a Cesano Boscone al mattino, ma Padre della Patria nel pomeriggio.

Ma un «patto» prevede, se non la perfetta parità, almeno una passabile equivalenza dei due contraenti. Le vicende di questi giorni, con il metodo renziano del prendere o lasciare, hanno dimostrato che tra i due contraenti del patto, uno detta le condizioni, l’altro può solo rincorrere e accettare i ritmi e le forme che il contraente giovane, pieno di futuro, carico di energia, spavaldamente certo di giocarsi la grande partita della vita impone al contraente stanco, sfiduciato, nel pieno del declino, con un partito sempre più fragile, silente, stordito.
E ora? Ora tra un Ncd che ha misurato in questi giorni tutta la sua precaria irrilevanza, con Forza Italia dilaniata da scontri mortali e una Lega salviniana sempre più tonica ma che rischia di trascinare l’intero schieramento dietro le sirene dell’antieuro e della guerra santa contro l’immigrazione, o nel centrodestra ci si rende conto che bisogna cambiare tutto, oppure il tramonto sarà inevitabile e doloroso. Cambiare tutto significa rimettere in discussione la leadership, il modo di essere, l’identità culturale. Significa un salutare bagno democratico. Rimettersi a parlare con il mondo e non starsene rinchiusi nella fortezza sempre più asfittica di un cerchio magico ripiegato in se stesso a contemplare le rovine. Altrimenti il bipolarismo italiano si trasformerà in monopolarismo, e una democrazia ha bisogno di almeno due competitori per essere sana e vitale. Perciò la dissoluzione del centrodestra riguarda l’intera politica italiana. Non una questione interna alla galassia tardo-berlusconiana, ma un problema dell’intero sistema. Se vogliamo ancora il bipolarismo. Pierluigi Battista, Il Corriere della Sera, 1° febbraio 2015

…….Pur con qualche inevitabile forzatura, l’analisi di Battista è coerente con la realtà. Il centrodestra, che apperna 7 anni fa raccoglieva quasi il 50% degli elettori italiani e ne rappresentava forse anche di più, in pochi anni si è dissolto, e si è dissolto il grande sogno degli italiani moderati, anticomunisti, antistatalisti, fortemente sensibili ai Valori del trinomio Dio, Patria, Lavoro, di essere rappresentati e di riconoscersi in un unico grande contenitore politico-elettorale. Di quel contenitore è rimasto solo  l’involucro, con caratteristiche esclusivamente elettorali, ma privo del tutto di contenuti politici, programmatici, etici, proiettati verso il futuro. Come è ovvio i padri di questa debacle sono tanti, non il solo Berlusconi che ne ha la massima responsabilità ma i tanti che in questi anni chiudendo ostentatamente gli occhi su quel che accadeva intorno al partito e nel mondo, hanno favorito, giorno dopo giorno, l’eclissi di una stagione che non solo è lontana ma appare irripetibile. Quanto è accaduto negli ultimi mesi, poi, ha del surreale. Solo gli sciocchi chiudevano gli occhi per non vedere quello che stava accadendo e che poi è accaduto, la rovinosa caduta verso i piedi di Renzi la cui  scarsa affidabilità avrebbe dovuto  spalancare le orecchie. Invece. come i kamikaze giapponesi delle ultime ore di guerra, Berlusconi è stato lanciato verso il baratro da chi avrebbe dovuto aprirgli gli occhi e metterlo sul chi va là. Lo ha fatto Fitto, ma il suo tentativo di lanciare una OPA su Forza Italia era destinato all’insuccesso sia per lo scarso appeal personale fuori dalla Puglia, sia perchè in Puglia, in questi anni, Fitto ha fatto o ha lasciato fare le stesse cose che Berluscon ha lasciato fare nel resto d’Italia, cioè attorniarsi di utili idioti, sempre pronti a dirgli di si, in cambio di posizioni di potere mal utilizzati al momento opportuno e, sopratutto, a discapito del partito che se in Puglia non è arretrato come nel resto d’Italia è solo per l’antico e ancora diffuso sentimento quasi romantico che anima molti degli elettori di destra in una terra che la Destra ha sempre sentito molto più vicina della sinistra. E’ vero,  il centrodestra italiano è nelle macerie e non è ipotizzabile che dalle macerie sia facile tirarsi fuori per ricostruire ciò che malamente è andato distrutto. Anche perchè, ed è quel che più pesa, si avveertè l’assenza di un leader, un nuovo leader,   capace di intepretare i sentimenti del popolo e del mondo di destra, capace di restituire ad un esercito  ora stanco e sfiduciato la voglia di ritonare a combattere e di ritornare a vincere. Ed anche quando questa figura apparisse all’orizzonte,  la traversata nel deserto sarà lunga e difficile,  ricca  di nostalgie e di ricordi, sui quali però costruire il futuro. g.

I PADRONI DEL VOTO, di Michele Ainis

Pubblicato il 24 gennaio, 2015 in Politica | Nessun commento »

I compromessi, come i funghi, si dividono in due categorie: quelli buoni e quelli cattivi. È commestibile il compromesso raggiunto sulla legge elettorale? Perché di questo, in ultimo, si tratta: l’ Italicum che sta per varcare l’uscio del Senato non è la legge di Renzi, né di Berlusconi. Il primo avrebbe preferito i collegi uninominali (intervista al Messaggero , 25 aprile 2012). Il secondo ha ingoiato il doppio turno, e ha pure dovuto digerire il premio alla lista, anziché alla coalizione. Ma non è generosità, è realismo. Perfino Lenin, nel settembre 1917, scrisse che in politica non si può rinunziare ai compromessi.

E a noi popolo votante, quanto ci compromette il compromesso? Per saperlo, bisogna innanzitutto togliersi un Grillo dalla testa: che da qualche parte esista un sistema perfetto, dove l’elettore sia davvero sovrano. No, non c’è. I candidati li decidono i partiti, mica noi. Anche con l’uninominale, la nostra scelta è sempre di secondo grado. Rousseau diceva che il cittadino è libero soltanto quando vota, dopo di che per 5 anni torna schiavo. Sbagliava: non siamo del tutto liberi nemmeno in quell’unica giornata.

Però c’è prigione e prigione. La più buia era il Porcellum : premio di maggioranza senza limiti, parlamentari senza voto. Di quanto si sono poi allargate le sbarre della cella? Di un bel po’, diciamolo; specie se mettiamo a confronto l’ultima versione dell’ Italicum con il suo primo stampo. Per farlo, basta puntare gli occhi
su una lettera dell’alfabeto: la «P». Premio, pluricandidature, preferenze, parità di genere, primarie, percentuali per l’accesso ai seggi: è su questi campi che si gioca la partita dei partiti.

E dunque, il premio di maggioranza. In origine scattava con il 35% dei consensi, poi al 37%, ora al 40%. Meglio così, la forzatura suona meno forzata. Quanto alla soglia di sbarramento per i piccoli partiti, l’8% è diventato il 3%; ma dopotutto, se la governabilità discende dal premio, non aveva senso negare l’accesso in Parlamento alle forze politiche minori. Progressi pure sulle quote rosa: la Camera aveva detto no, il Senato dice sì. Però regressi sulle pluricandidature: da 8 a 10, come se Buffon giocasse in tutti i ruoli. E niente da fare sulle primarie obbligatorie, che avrebbero restituito un po’ di peso agli elettori. Infine le preferenze: subentrano alle liste bloccate, anche se restano bloccati i capilista. E clausola di salvaguardia rispetto all’abolizione del Senato elettivo, un altro punto che mancava nell’accordo originario.

Si poteva fare meglio? Certo, ma anche peggio. Tuttavia c’è un’altra «P» da scrivere a margine di questa legge elettorale: il nuovo presidente. Toccherà a lui compensare la «P» del premier, che ne esce più forte che mai. Se viceversa al Colle entrerà una sua controfigura, in futuro i compromessi Renzi potrà farli con se stesso. Michele Ainis, Il Corriere della Sera, 24 gennaio 2015

……Se a Renzi dovesse riuscire il colpaccio di eleggere una  sua controfigura (leggi Padoan) al Colle quirinalizio, il centrodestra, almeno quello che così si etichetta, potrà contratularsi con se stesso per aver contribuito a realizzare  la prima repubblica leninista postsovietica del gterzo millennio. Complimenti!

IL PARTITO DERL NAZARENO, di Anonio Polito

Pubblicato il 22 gennaio, 2015 in Il territorio | Nessun commento »

È nata una nuova maggioranza, con Berlusconi dentro e Bersani fuori? Se lo chiedono in molti dopo che i senatori di Forza Italia, al grido di «forza Italicum», hanno salvato il governo sostituendosi ai voti della minoranza pd. Ma è una domanda ingenua, almeno per la prima metà. Berlusconi era già di fatto nella maggioranza che sorregge il governo fin dal suo parto; ne fu anzi l’ostetrico nell’incontro del Nazareno. S olo grazie al placet di Berlusconi sulle riforme Renzi poté presentarsi al Quirinale e chiedere l’incarico a Napolitano: era diventato in grado di fare ciò che a Letta e ad Alfano non era stato consentito.

I puristi della Costituzione formale potrebbero ora anche chiedere al capo dello Stato, se ce ne fosse uno nella pienezza dei poteri, una verifica parlamentare della nuova maggioranza. Ma la verità è che dalla nascita a oggi già più volte si è visto all’opera nelle Camere il partito del Nazareno (PdN?), o «soccorso azzurro» come lo chiamano spregiativamente gli avversari. Sulla riforma del Senato a Palazzo Madama, quando l’opposizione interna al Pd è stata resa ininfluente grazie al sostegno di Forza Italia. Ma anche per garantire il numero legale sul Jobs act. E sul decreto fiscale tanto contestato, quello della depenalizzazione dei reati sotto il 3%, si può star certi che Forza Italia sosterrà il governo quando se ne discuterà in Parlamento.

Né vale l’obiezione per cui la legge elettorale non è materia di maggioranza, perché lasciata al libero formarsi del consenso in Parlamento. Ma quando mai? La legge elettorale è la più politica delle leggi (De Gasperi mise addirittura la fiducia sulla legge-truffa). Infatti l’Italicum è stato preparato dall’esecutivo, accompagnato amorevolmente in Parlamento da un ministro plenipotenziario, ed è materia essenziale del programma di governo. La controprova sta nel fatto che se ieri fosse caduto, sarebbe caduto anche il governo (come del resto lo stesso Renzi ha fatto intendere ai suoi «ribelli»). Dunque sì, il voto di ieri configura una maggioranza politica. Solo che la novità non è questa. La novità è che, per la prima volta, i voti di Berlusconi sono determinanti: l’ex Cavaliere è diventato l’ago della bilancia di un equilibrio che finora pendeva tutto dalla parte di Renzi. In questo senso ha ragione il gianburrasca Brunetta: ora il premier non può più dire «se non ci state andiamo avanti da soli».

E qui arriviamo alla seconda domanda. Assodato che Berlusconi è in maggioranza, se ne deve dedurre che Bersani, D’Alema, Cuperlo, Fassina e tutta la schiera di dissidenti democratici sono passati all’opposizione? Gente del mestiere come loro non poteva non sapere che facendo mancare 27 voti a Renzi avrebbe innescato la clausola di mutua difesa del patto del Nazareno, producendo così l’effetto collaterale di rendere determinante Berlusconi. È possibile che l’abbiano fatto deliberatamente? Da tempo si dice che la minoranza Pd è divisa tra chi vorrebbe metter su una casa nuova e chi vuol acquartierarsi nella vecchia. D’Alema guiderebbe il primo gruppo, e a sentirlo l’altra sera da Floris mentre tifava Tsipras si era indotti a crederlo. Mentre Bersani vorrebbe restare nella Ditta, di cui del resto ha il copyright . Ma nel gruppo dei 27 oltre a Gotor, che è pur sempre un professore guidato dall’etica weberiana della convinzione, c’era anche Migliavacca, che di Bersani è invece l’uomo d’azione, rotto a ogni compromesso. Se stavolta non c’è stato, vuol dire che qualcosa di profondo è accaduto. La scelta di abbandonare l’assemblea del gruppo al Senato, presieduta dal segretario-premier, è simbolica per le liturgie di quel partito, quasi una scena da congresso di Livorno. Così come lo è la convocazione nella sala Berlinguer di 140 parlamentari fedeli. Tutto ciò autorizza il sospetto che davvero Bersani&co, più Fitto&co dall’altra parte, possano passare all’opposizione del governo, oltre che del partito del Nazareno.

Se così fosse il terreno ideale per la resa dei conti, col favore del voto segreto, è ovviamente l’elezione del nuovo capo dello Stato. Ne uscirebbe definitivamente sancito un tale rimescolamento tra sinistra e destra che perfino Giorgio Gaber non sarebbe più in grado di riconoscerle. Potrebbe diventare l’apoteosi di Renzi, l’ homo novus che libera la sinistra dai suoi rompiscatole. Ma potrebbe anche essere un cambio di pelle costoso per il giovane leader. Perché una cosa è appoggiarsi a Berlusconi, un’altra è mettersi nelle sue mani. Antonio Polito, Il Corriere della Sera, 22 gennaio 2015

.…..Polito è uno dei più bravi analisti politici in circolazione, la sua analisi dei fatti è sempre attenta, e lo è anche quella che attiene ai recenti sviluppi della situazione politica dopo lo strappo di ieri al Senato, dove con un artificio regolamentare proposto da un ex sostenitore delle preferenze (il sen. Esposito del PD) e il sostegno aperto e rivendicato di una forza politica a parole alternativa al Pd, il PD ha incartato il via libera ad una legge elettorale che ripropone con modalità diverse la stessa identica minestra del porcellum cioè un lungo elenco di nominati nel Parlamento futuro.  Sulla scelta di Berlusconi di legarsi mani e piedi a Renzi rimandiamo alle parole di Fitto secondo il quale si tratta di una scelta suicida non soltanto perchè di Renzi è assai nota la propensione a pugnalare alla schiena chiunque, ma anche – e sopratutto – perchè induce altri milioni di elettori, dopo i tanti che già l’hanno abbandonato, ad allontanarsi dal ex contenitore unico del centrodestra nel quale in tanti avevano riposto speranze e attese, che ora appaiono tradite.

L’ERRORE DI PAGARE PER GLI OSTAGGI, di Marco De Marco

Pubblicato il 18 gennaio, 2015 in Il territorio | Nessun commento »

La liberazione di Greta e Vanessa ci restituisce due vite, ma col cedimento al ricatto altre ne espone.

Siamo tutti felici per la liberazione di Greta e Vanessa, ma siamo tutti preoccupati per le sorti generali. E in più c’è il fatto che l’inconciliabilità tra questi due atteggiamenti non può più essere occultata per tacitare il senso morale e favorire la ragion pratica. La liberazione di Greta e Vanessa ci restituisce due vite, le strappa alla ferocia dei tagliagole, ma molte altre ne espone. Ciò può avvenire non in astratto, ma in concreto, vista la ferocia cieca che si è scatenata in Francia e ovunque nel mondo. Se si fosse pagato un riscatto quei soldi, molti o moltissimi che siano, finirebbero per finanziare nuovi attacchi armati e nuovi rapimenti. Può accadere di mettere molte altre vite in pericolo soprattutto perché un cedimento al ricatto spaccherebbe il fronte occidentale dell’antiterrorismo; perché separerebbe chi paga per liberare i propri concittadini da chi invece resiste affinché si vinca tutti; perché sminuirebbe la considerazione internazionale di chi si piega; perché costringerebbe chi contratta a dissimulare mediazioni e compromessi indicibili; e perché indurrebbe a sacrificare quella trasparenza dell’azione di governo che alimenta la fiducia del cittadino nello Stato. Su questi ultimi punti, il ministro Gentiloni è stato molto chiaro: quando ha detto che le decisioni assunte per Greta e Vanessa sono in linea con quelle adottate nel passato e quando ha aggiunto che esse sono le decisioni dell’Italia e non «di questo governo», da una parte ha invitato a non alzare inutili polveroni, ma dall’altra ha anche chiuso ogni margine per l’indignazione demagogica. Ostaggi sono stati liberati, insomma, anche quando al governo c’erano Berlusconi e i suoi alleati. Ma al posto di una unità al ribasso, del tipo «scagli la prima pietra chi è senza peccato», oggi è di altro che si sente il bisogno. L’Italia è il Paese che, pagando il prezzo altissimo della vita di Aldo Moro e della sua scorta, ha sconfitto il terrorismo delle Br. L’Italia è il Paese che ha vinto il fenomeno dei sequestri di malavita negando ai familiari degli ostaggi di disporre dei propri beni. È da qui che deve ripartire una responsabile via italiana all’antiterrorismo. Oggi uno Stato che ripiegasse rispetto alla propria storia e che concedesse a se stesso ciò che nega al singolo cittadino sarebbe molto vulnerabile. E più esposto al fallimento. Il Corriere della Sera, 18 gennaio 2015

……Quel che scrive De Marco è condivisibile. E molti lo hanno ricordato nei giorni che hanno preceduto la liberazione delle due suffragette lombarde e subito dopo, quando è circolata la notizia del pagamento di un riscatto milionario (11 o 12 milioni di euro) ai sequestratori che se pure non sono i terroristi dell’ISIS, ne sono comunque fiancheggiatori. Aldo Moro fu sacrificato con l’intesa di tutti i partiti, escluso il PSI di Bettino Craxi, perchè, si disse, non si poteva cedere al ricatto dei terroristi che avevano trucidato gli uomini della scorta, perchè, si aggiunse, non si sarebbe potuto guardare negli occhi i familiari, le mogli e i figli e i genitori dei poliziotti assassinati con estrema ferocia dai rapitori di Moro, se per Moro si fosse scesi a compromesso, perchè, si disse, cedere al ricatto sarebbe significato incentivare altre azionmi simili. E Moro fu ucciso in none della ragion di stato. Altrettabnto accadde durante la stagione dei rapimenti: quando la magistratura adottò la strategia del blocco dei beni per impedire il pagamento del riscatto, ci fu chi, specie i familiari del rapito di turno, che criticò il provvediemnto ma nei tempi anche abbastanza brevi il fenomeno, grazie proprio a quella scelta, andò velocemente riducendosi sino a scomparire. Perchè ora no, allora? Cosa c’è di diverso? La scelta di non pagare non è una scelta, è un obbligo, nè vale la scusa discutibile che altri Paesi lo fanno di nascosto. Specie per chi si avventura per puro spirito esibizonistico, come nel caso delle due lombarde, mettendo a repentaglio non solo la loro vita, ma anche quella di altri, come accadde nel caso della giornalista del manifesto per la cui liberazione non solo fu pagato il riscatto, ma perse la vita il capo degli 007 italiani Calipari. Tutti sono liberi di fare della loro vita ciò che vogliono, ma è bene che ciascuno sappia che se fa scelte pericolose, tra l’altro, come nel caso delle due “volontarie”,  senza alcuna informazione nè al Ministero degli Esteri nè altri, solo per puro esibizionismo, sappia che lo fa a proprio rischio e pericolo, e sopratutto lo sappiano i genitori, nel caso specifico, peggiori delle figlie, perchè se avessero avuto nella zucca un pò di buon senso avrebbero imepdito alle figlie, senza esprienza e preparazione, di avventurarsi in uno scenario di guerra civile, che è peggiore di una guerra dove si sa chi sta con chi. E peggiori perchè dopo aver implorato l’intervento dello Stato non hanno neppure chiesto scusa per la dabbenaggine sia delle figlie che di se stessi. g.

PAPA FRANCESCO: NON DERIDERE LA FEDE DEGLI ALTRI (E I LORO SIMBOLI), di Luigi ACCATTOLI

Pubblicato il 16 gennaio, 2015 in Il territorio | Nessun commento »

Papa Francesco a Manila (Ap/Favila) Papa Francesco a Manila (Ap/Favila)

Volando dallo Sri Lanka alle Filippine, Francesco ieri ha pronunciato uno dei suoi detti veraci destinato alla massima risonanza: se offendi la fede altrui, ha detto in sostanza, è normale che ti arrivi un pugno. Stava rispondendo a una domanda sulla libertà di stampa e la libertà religiosa e ha detto con il suo stile diretto: «Andiamo a Parigi, parliamo chiaro». Ha difeso il diritto alla libertà d’espressione ma ha aggiunto che esso non contempla il diritto all’offesa e ha illustrato quella massima – già formulata dalla Santa Sede sotto Benedetto XVI in riferimento alle vignette danesi del 2005 – con il suo linguaggio pittoresco: «È vero che non si può reagire violentemente, ma se il dottor Gasbarri (è l’organizzatore dei viaggi papali e gli stava accanto, ndr.), che è un amico, dice una parolaccia contro la mia mamma, lo aspetta un pugno! Ma è normale! Non si può provocare. Non si può insultare la fede degli altri. Non si può prendere in giro la fede».

Prima di buttarsi a polemizzare su questo detto bergogliano conviene richiamare due antefatti: la posizione vaticana consolidata sulle vignette contro Maometto, che Francesco ha richiamato quasi alla lettera; la libertà di linguaggio del Papa argentino, anzi il gusto creativo per quella libertà, che spesso determina la fortuna delle sue omelie o delle sue interviste.

La posizione vaticana sulle vignette danesi fu così affermata dal portavoce vaticano Joaquín Navarro-Valls il 4 febbraio 2006, cioè nei giorni in cui la loro pubblicazione – che risaliva al settembre precedente – stava provocando violente reazioni nei paesi musulmani: «Il diritto alla libertà di pensiero e di espressione, sancito dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo, non può implicare il diritto di offendere il sentimento religioso dei credenti. Tale principio vale ovviamente in riferimento a qualsiasi religione (…) talune forme di critica esasperata o di derisione degli altri denotano una mancanza di sensibilità umana e possono costituire in alcuni casi un’inammissibile provocazione. Va però subito detto che le offese arrecate da una singola persona o da un organo di stampa non possono essere imputate alle istituzioni pubbliche del relativo Paese (…) Azioni violente di protesta sono, pertanto, parimenti deplorabili».

È proprio questo e tutto questo che ieri ha detto Francesco. Nella fedeltà a quanto già affermato sotto il predecessore è da vedere una riprova della tenuta del Papa argentino sulle questioni più dibattute: viene accusato di non nominare la matrice islamista degli attentati, o di mostrarsi in generale troppo rispettoso nei confronti della fede musulmana, ma non si tiene conto che in questo egli segue i predecessori.

Altrettanto istruttivo, per intendere il motto del «pugno» a chi gli offenda la mamma, è il richiamo alla passione bergogliana per le trovate linguistiche. Sempre nella parlata di ieri ha usato un neologismo, «giocattolizzare» (prendersi gioco), come ne butta là in continuità, che attiene proprio all’irrisione delle fedi: «Tanta gente che sparla di altre religioni o delle religioni, che prende in giro, diciamo giocattolizza la religione degli altri, questi provocano. E può accadere quello che accadrebbe al dottor Gasbarri se dicesse qualcosa contro la mia mamma! C’è un limite. Ogni religione ha dignità, ogni religione che rispetta la vita e la persona umana, e io non posso prenderla in giro. Questo è un limite. Ho preso questo esempio per dire che nella libertà di espressione ci sono limiti. Come quello della mia mamma».

Dunque il Papa argentino non giustifica in nessun modo gli attentati – «È vero che non si può reagire violentemente» – ma non giustifica neanche le vignette che irridono a un’intera religione. La sua linea è quella del «limite» nell’uso della libertà di espressione.

Lo scorso Giovedì Santo, parlando degli «olii santi» che quel giorno vengono benedetti, disse che essi non mirano a produrre prelati «untuosi, sontuosi e presuntuosi»: e aveva davanti i cardinali e l’intera Curia. Sempre alla Curia il 22 dicembre ha lanciato il monito dell’Alzheimer spirituale e altra volta aveva bollato come «cristiani pipistrelli» i fedeli che vedono sempre nero.

Dunque il Bergoglio che si lascia sedurre dalle invenzioni linguistiche e dal motto tranciante già lo conoscevamo. Ora siamo arrivati al «pugno» indirizzato a chi provoca, ma è certo che il Papa amico dei preti di strada non si fermerà qui.  Il Corriere della Sera, 16 gennaio 2015

…La saggezza di Papa Francesco indica la strada da seguire nel rapporto con le altre fedi religiose i cui simboli non possono essere oggetto di satire che sfociano nella blasfemia.  E se è pur vero che non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire, pure è dovere di chi non è cieco di  non offrire loro  occasioni che vengono trasformati in alibi. Ciò vale sia per i credenti che per i non credenti  quali erano molti dei redattori del settimanale francese  rimasti vittime dell’odio e del fanatismo la scorsa settimana a Parigi. Nè quei fatti possono giustificare l’accanimento satirico che lungi dall’essere quel che vorrebbe apparire, cioè la difesa della libertà di espressione, si trasforma in una inutile  provocazione che spesso si ritorce sugli innocenti. Questo ci pare essere il senso delle sagge parole del Pontefice che da Manila si è rivolto a tutti gli uomni di buona volontà nella speranza di essere ascoltato. g.

DOPO NAPOLITANO, LA FIGURA CHE VORREMMO, di Michele Ainis

Pubblicato il 14 gennaio, 2015 in Il territorio | Nessun commento »

Ogni presidente della Repubblica scrive la storia, però è vero anche il contrario: è la storia che scrive i presidenti. Ciascuno di loro è figlio d’una particolare stagione politica, civile, culturale, e la influenza, ma soprattutto ne viene influenzato. Rammentiamocene, quando potremo vergare un giudizio a mente fredda sull’esperienza di Giorgio Napolitano al Quirinale. Rammentiamocene, mentre ci sospinge l’urgenza d’individuare il nome del suo sostituto. Perché una cosa è certa, nell’incertezza in cui nuotiamo giorno dopo giorno: l’uomo che uscirà dal Colle, al termine del settennato, sarà un uomo diverso da quello che v’era entrato.

I precedenti, d’altronde, sono inconfutabili. Il caso più vistoso fu Cossiga: per cinque anni silente ed ossequiente, dal 1990 si trasforma in «picconatore» del sistema, insulta questo o quel capopartito, monta sul ring contro i magistrati, blocca sistematicamente le leggi approvate dalle Camere (con la media d’un rinvio a bimestre). Anche il suo successore, tuttavia, ospitava un mister Hyde sotto l’abito del dottor Jekyll. Scalfaro aveva criticato a muso duro l’interventismo di Cossiga, e infatti nel 1992 – quando giurò da capo dello Stato – promise di ripristinare la centralità del Parlamento, garantendo il self-restraint (l’autocontrollo) nell’esercizio delle proprie funzioni. Risultato: divenne il più interventista fra i nostri presidenti.

Ben più di Napolitano, messo in croce per il battesimo dell’esecutivo Monti. S calfaro nominò sei presidenti del Consiglio, fra i quali almeno tre (Amato, Ciampi, Dini) posti sotto l’esplicita tutela presidenziale. E decise due interruzioni anticipate della legislatura, compresa quella davvero eccezionale del 1994, benché il Parlamento fosse capace d’esprimere una maggioranza in sostegno del governo.
Potremmo continuare ancora a lungo in quest’esercizio di memoria. Potremmo evocare il nome di Pertini, eletto nel 1978 – durante i nostri anni di piombo – per garantire la tenuta delle istituzioni, poi perennemente scavalcate dal nuovo presidente attraverso il colloquio diretto con la pubblica opinione.
Potremmo ricordare la traiettoria di Segni: nel 1962 esordisce anch’egli criticando l’attivismo del predecessore Gronchi, ma sta di fatto che nel biennio della sua presidenza usa per otto volte il potere di rinvio, quando in tutte le legislature precedenti le leggi rispedite alle Camere erano state appena sette. Senza dire dei fatti del 1964, su cui permane ancora un’ombra: nel bel mezzo d’una crisi di governo, Segni riceve ufficialmente al Quirinale il comandante dell’arma dei carabinieri, artefice del «piano Solo».

Quale lezione possiamo allora trarre da questi remoti avvenimenti? Una doppia lezione, un corso universitario in due puntate.
Primo: contano gli accidents of personality , come dicono gli inglesi. Conta il carattere, la tempra individuale. Perché al Quirinale risiede un potere monocratico, che ogni presidente usa in solitudine. E quel potere – scriveva nel 1960 il costituzionalista Carlo Esposito – non viene affidato alla Dea Ragione, bensì a un uomo in carne e ossa, con i suoi vizi e con le sue virtù. L’esperienza solitaria di ciascun presidente può acuire i vizi, o altrimenti può esaltare le virtù. Dipende. Ma lo sapremo solo a cose fatte, a bilancio chiuso.
Secondo: contano altresì gli accidents of history, se così possiamo dire. Conta la storia, con i suoi imprevedibili tornanti. Dopotutto è questa la ragione che rese un primattore Scalfaro, al pari di Napolitano. A differenza di Ciampi – che visse gli anni più stabili della Seconda Repubblica – l’uno e l’altro si sono trovati a navigare il fiume lungo le sue anse terminali. Scalfaro alla sorgente, Napolitano alla foce. Anche se l’epilogo di quest’esperienza ventennale è ben lungi dall’essersi concluso. Ma in entrambi i casi si conferma un’altra profezia di Esposito, che dipingeva il presidente come «reggitore» dello Stato durante le crisi di sistema.
Poi, certo, ogni crisi può abbordarsi in varia guisa. Ancora una volta, dipende: dagli uomini, così come dalle circostanze. Scalfaro distingueva fra governi amici e nemici, sicché nel maggio 1994 salutò il primo gabinetto Berlusconi con un altolà, esigendo per iscritto la sua «personale garanzia» circa il rispetto della Costituzione. Per Napolitano tutti i governi erano amici, e infatti nel novembre 2010 salvò lo stesso Berlusconi dalla mozione di sfiducia, ottenendone il rinvio al mese successivo. La sua bussola, insomma, si chiamava stabilità. Anche se nel frattempo l’edificio diventava sempre più instabile e sbilenco, anche se talvolta uno scossone può riuscire salutare. O almeno era quest’ultima la ricetta di Cossiga, una ricetta opposta a quella offerta da Napolitano.
In conclusione, non c’è una conclusione univoca dettata dalla storia. O forse sì, c’è almeno un monito. Attenzione a scegliere una figura dimessa e scolorita: sarebbe un errore. In primo luogo perché il soggiorno al Colle accende colori insospettabili nei suoi vari inquilini. In secondo luogo perché la tormenta non si è affatto placata, ci siamo dentro mani e piedi. La Seconda Repubblica rantola, la Terza non ha ancora emesso i suoi vagiti. E in questo tempo di passaggio serve un capo dello Stato, non un capo degli statali.
Michele Ainis, Il Correre della Sera, 14 gennaio 2015

…….Chissà se il superRenzi leggerà questa nota del costituzionalista Ainis, e se la leggerà ne terrà conto. C’è da dubitare vista la supponenza dell’attuale premier per il quale nonm conta la sostanza  ma solo quel che appare, cioè la sua vanità. E’ probabile, anzi certo che Renzi tenterà di eleggere la figura più opaca e inconsistente che ci sia e forse ci riuscirà. Forse allora, solo allora, se le previsioni di Ainis risulteranno esatte, visti i precedenti, per Renzi incomincerà il conto alla rovescia. g.

SVEGLIAMOCI: TROPPI SILENZI E AMNESIE, di Antonio Polito

Pubblicato il 10 gennaio, 2015 in Il territorio | Nessun commento »

N on c’è da meravigliarsi se l’Aula di Montecitorio era semivuota, mentre il ministro Alfano riferiva sulla nuova guerra santa scatenata in Europa. Tutto sommato è lo stesso Parlamento che, rinunciando agli F35, sarebbe pronto a disfarsi dell’arma aereonavale nel Paese che è geograficamente una portaerei nel Mediterraneo. E la politica non è l’unico pezzo della nostra classe dirigente che appare indifferente ai limiti della diserzione di fronte a una svolta così radicale della storia. È certo un ritardo antico: abbiamo sempre inteso la politica estera come una paziente attesa di ciò che avrebbero fatto gli Usa o la Francia. N on basta un upgrading nella prima classe di Bruxelles per colmare il ritardo di una classe dirigente: prova ne sia lo scarso interesse che suscita in questo frangente, perfino sulla stampa italiana, l’azione della nostra Federica Mogherini, Alto Rappresentante per la politica estera dell’Ue. Ma bisogna dire che la fine dei partiti, un tempo capaci di formare un’intellettualità diffusa, informata sui fatti del mondo anche se partigiana, colta per quanto faziosa, ha peggiorato le cose. Il nostro dibattito politico è rimasto così avvitato sull’asse Est-Ovest, pulluliamo ancora di antiamericani e di filorussi; ma nel frattempo il mondo è girato, e sull’asse Nord-Sud, Europa-Islam, non sappiamo che dire.

Non tace solo la politica. Da quanto tempo in Italia non si pubblica un bestseller come Le suicide français di Eric Zemmour, o un romanzo come Sottomissione di Michel Houellebecq? Chi, dopo la Fallaci, ha provato a «profetizzare il presente» nel Paese più esposto d’Europa all’ondata migratoria, sollevata proprio dallo tsunami dell’Islam? E in quante università italiane si studia e si legge l’arabo? Sono di fronte a noi, a pochi chilometri da noi, ma non sappiamo niente di loro (con rare eccezioni: un politico come la Bonino, saggisti come Cardini e Buttafuoco).
Poiché nulla accade per caso nella storia delle nazioni, è possibile che questa indifferenza nasca in realtà da una rimozione. I nostri ceti intellettuali, quelli che formano l’opinione pubblica dalla scuola ai talk show , sono infatti molto più a loro agio con l’ appeasement che con la guerra, se la cavano meglio con la retorica del dialogo che con quella dello scontro di civiltà. Sanno apprezzare un «ritiro» e deprecare una battaglia.

Quando la storia si incarica di smentirne il sogno irenista, e scoprono che il mondo è pieno di cattivi, restano senza parole. Nasce da qui l’ostracismo a ogni serio dibattito sull’identità nazionale, subito tacciato di razzismo (e perciò regalato al furbo Salvini, che ne fa un uso stupefacente). Nasce così la orribile confusione tra interesse nazionale e scambio commerciale, che consente di dire pubblicamente «chi se ne frega dell’Ucraina, pensiamo al nostro export con la Russia». Siamo pur sempre il Paese del colonnello Giovannone, pronto a stringere negli Anni 70 un patto di non belligeranza col terrorismo palestinese, purché non colpisse in casa nostra. In più, da noi il dibattito pubblico è di solito egemonizzato da un’opinione militante, pronta a scendere in piazza per difendere la satira quando attacca Berlusconi, ma molto più prudente quando se la prende con Maometto.
Nel suo ultimo romanzo Houellebecq ipotizza che l’Europa sia esausta proprio perché stanca della sua libertà, e sempre più disposta a barattarla con un po’ di benessere e di quieto vivere. È una tentazione che in Italia ben conosciamo. Ma è anche l’ennesima illusione: il nemico che abbiamo di fronte non fa prigionieri.
Antonio Polito, Il Corriere della Sera, 10 gennaio 2015