VENT’ANNI DI SOLITUDINE, di Michele Ainis

Pubblicato il 4 gennaio, 2015 in Costume, Politica | Nessun commento »

L’ingresso del Palazzo del Quirinale (Ansa/DiMeo) L’ingresso del Palazzo del Quirinale (Ansa/DiMeo)

Rovesciare lo sguardo sul passato è come sporgersi da un pozzo: ti fa venire le vertigini. E t’impaurisce, perché il passato è un fondo d’acque limacciose. Sarà per questo che guardiamo sempre al dopo, come se ogni giorno la vita stia per cominciare. È un errore: il futuro dipende dal passato. Vale per gli individui, vale per la società nel suo complesso. E vale per l’Italia, da tempo immersa in una stagione di «eccezionalità costituzionale». L’ha definita così Napolitano, auspicando il restauro della norma, della regola. Quale normalità? E dov’è stata, fin qui, l’eccezione?

A girarsi indietro sui vent’anni della seconda Repubblica, due fenomeni si stagliano sopra tutti gli altri: la verticalizzazione del potere; la sua concentrazione personale. Entrano in crisi gli organismi collegiali, dal Parlamento che la Costituzione situa a fulcro del sistema, ma che ormai appare come una folla d’anime perdute; ai Consigli regionali, le cui imprese allietano la cronaca giudiziaria, non più quella politica. Lo stesso Consiglio dei ministri – che ai tempi della prima Repubblica costituiva il crocevia nel quale s’intessevano gli accordi fra i partiti di governo – viene offuscato e sormontato dal faccione del leader, del Gran Capo di turno.

Perché è questo il nuovo verbo, tanto da praticare un lifting sulle parole stesse della Carta. Così, il presidente del Consiglio si trasforma in Premier, confondendo Tevere e Tamigi. I presidenti regionali sono altrettanti Governatori, come s’usa negli Usa. Il capo dello Stato diventa un monarca («re Giorgio»), manco fossimo a Madrid. Vent’anni di solitudine, direbbe García Márquez. E la solitudine al potere. Ma nel frattempo questi poteri solitari s’intralciano, si sfidano, tendono sgambetti. Anzi: tutta l’avventura della seconda Repubblica può leggersi come un duello, fra le istituzioni, se non fra le persone. E i maggiori duellanti hanno casa rispettivamente a Palazzo Chigi e al Quirinale.

Chi ha vinto? Napolitano, nella penultima stagione. Quando i partiti gli chiesero a mani giunte di rieleggerlo, in nome dello stato d’eccezione. O quando lui fu levatrice e nume tutelare dei governi, surrogando il Parlamento. Ma ha vinto Renzi, nell’ultima stagione. Ossia un presidente del Consiglio superpopolare, mentre cadeva di 27 punti la popolarità del Colle (Demos 2014), mentre il suo inquilino lasciava il campo pur restandogli 5 anni di mandato. Sarà forse questa, la normalità costituzionale che ci attende. E dopotutto è questa – ahimé – la norma cui tende il progetto di riforma. Molte truppe, un solo generale. Michele Ainis, Il Corriere della Sera, 4 gennaio 2015

…..Arridateci la prima Repubblica!

MIRACOLO A NEW YORK: RIAPRE LA PRIMA LIBRERIA ITALIANA D’AMERICA

Pubblicato il 2 gennaio, 2015 in Il territorio | Nessun commento »

Per le librerie indipendenti New York è un cimitero costellato di croci: Gotham e Coliseum se ne sono andate ai primi decenni del 2000, vittima delle grandi catene, a loro volta finite sott’acqua con l’avvento di Amazon. Rizzoli ha chiuso l’anno scorso per far posto a un grattacielo di lusso. Se dunque Vanni, la prima libreria italiana in America, fondata nel 1884 dal siciliano (di Caltagirone) Sante Fortunato Vanni, riapre i battenti a Greenwich Village, si può legittimamente parlare di “miracolo sulla 12/a strada”.

Appuntamento a fine gennaio: con un occhio al passato e l’altro al futuro i locali di Vanni, al numero 30 della 12/a strada, riapriranno per qualche mese come libreria “pop up” e centro culturale sotto gli auspici del Centro Primo Levi. “L’obiettivo – spiega Alessandro Cassin, direttore editoriale del Centro e figlio di quell’Eugenio Cassin che, con la piccola casa editrice Orion Press a Londra, pubblicò la prima edizione in inglese di “Se questo è un uomo” nel 1959, è puntare i riflettori sulla storia dell’ebraismo italiano in America, ma anche resuscitare un mito”. Vanni arriva a New York nel 1884, all’apice dell’immigrazione italiana, e inizia la sua attività di libreria e stamperia al 548 West Broadway. La libreria vende classici italiani, manuali d’inglese e dizionari (anche un vocabolario siciliano-italiano), ma anche cartoline, riviste, manuali tecnici, calendari, biglietti da visita, santini e materiale religioso per le diocesi. Vanni svolge anche l’attività di scrivano, occupandosi di corrispondenze private e scritture commerciali per i tanti emigranti analfabeti. Nel 1931 entra in campo Andrea Ragusa, consulente editoriale appena arrivato dall’Italia. La libreria passa a Bleeker Street, poi nella sede attuale sulla 12/a. Ragusa è il direttore generale della Fratelli Treves: arriva negli States con l’idea di vendere la Treccani negli Usa. Quelle strade del Village all’epoca erano l’epicentro delle stamperie. Ragusa pubblica libri in inglese ad argomento italiano e trasforma la libreria in un punto di riferimento culturale. Fino al 1974, quando viene ucciso in una rapina davanti al negozio, stampa 138 titoli, tra critica letteraria italiana e libri per le scuole. Diventa il principale fornitore di libri italiani per le biblioteche pubbliche e universitarie in Nord America. La libreria passa nelle mani delle figlie Isa e Olga fino al 2004, quando il sipario cala per sempre. O così sembrava. Che fine avrà la seconda (o terza vita) di Vanni? La palazzina sulla 12/a, a due passi dalla Casa Italiana della New York University, è doppiamente cinta d’assedio: da un lato ricchi e famosi che aspirano a un pezzo di uno dei quartieri più′ romantici e fermi nel tempo di Manhattan, dall’altro l’ateneo che anno dopo anno sta acquisendo tutte le proprietà disponibili nella zona. L’iniziativa del Centro Primo Levi cerca di alzare una diga. Ma arriverà un angelo custode per salvare Vanni? Fonte ANSA, 2 gennaio 2015

IL QUIRINALE DIVENTI MUSEO, E’ LA CASA DI TUTTI NOI,di Gian Antonio Stealla

Pubblicato il 30 dicembre, 2014 in Il territorio | Nessun commento »

«Il Quirinale è la casa degli italiani», ha detto più volte Giorgio Napolitano. È una frase molto bella. Espressa, ne siamo certi, con sincerità. Gli italiani, però, possono entrarci poco. Sarebbe un torto alle istituzioni scegliere per il capo dello Stato una sede nobile ma diversa spalancando finalmente a tutti uno dei palazzi più importanti del pianeta?

Conosciamo l’obiezione: ma come, adesso? Non c’è il rischio, in questi tempi di sbandamento, di intaccare una delle figure che ancora godono di largo prestigio popolare? Tesi dura da sostenere: Francesco ha scelto di abbandonare gli appartamenti papali per vivere nei pochi metri quadri di una delle camere con salottino del convitto Santa Marta. E mai Papa ha goduto di tanto prestigio e tanto affetto popolare.

Napolitano, nella scia di Carlo Azeglio Ciampi e altri ancora, ha reso onore al Quirinale. E a buon diritto può rivendicare di avere contenuto le spese: il palazzo costa oggi, contando l’inflazione, meno che nel 2008. E i tagli, compreso quello di 507 addetti, sarebbero stati più vistosi se alcuni costi mostruosi come quello delle pensioni (90 milioni sui 228 della dotazione 2014) non fossero imbullonati alla difficoltà enorme di toccare i diritti acquisiti, sia pure spropositati.

Resta il fatto che la reggia che ospitò i Papi, i Savoia e infine i presidenti della Repubblica, proprio perché è molto più grande e più ricca e più costosa nella manutenzione, come il Colle precisa ogni volta che c’è una polemica sui confronti con l’Eliseo o Buckingham Palace, pesa sulle pubbliche casse più di ogni altro. Nuova obiezione: ma è aperta al pubblico! Sì, alcune stanze di rappresentanza e, precisa il sito, «quasi ogni domenica». Dalle 8.30 alle 12. Tranne l’estate: chiuso. Più le visite delle scuole: un’ora a settimana. Su appuntamento. Più i concerti nella cappella Paolina, tre o quattro al mese da ottobre a giugno. Più le mostre temporanee nelle Scuderie. Come quella del 2013 su Tiziano che richiamò 245.979 turisti. Un piccolo trionfo, con 2.365 visitatori al giorno. Ma comunque all’80° posto nella classifica mondiale. Dopo «La poetica della carta» al Getty Center di Los Angeles.

La Hofburg di Vienna, per secoli cuore del potere degli Asburgo, ospita oggi solo un ufficio di rappresentanza della presidenza più la sede dell’Osce e soprattutto una straordinaria rete di istituzioni culturali. Dal museo di Storia naturale alla Biblioteca Nazionale, dall’Albertina alla Scuola d’Equitazione Spagnola fino al celebre Kunsthistorisches che fa da solo un milione e 300 mila ingressi l’anno.

Lo stesso re di Spagna vive alla Zarzuela e utilizza il Palazzo Reale (formalmente ancora sede della casa regnante) solo per certe cerimonie ufficiali ma il Palacio Real madrileno è aperto al punto di avere accolto nel 2013 oltre un milione di turisti. E lo stesso doppio uso è in vigore da altre parti, come in Svezia, dove la reggia di Stoccolma è aperta tre ore al giorno dal martedì alla domenica nei mesi invernali e tutti i giorni per sei o sette ore in quelli estivi.

Per non dire dei casi storicamente più eclatanti. Il Louvre che da moltissimo tempo non ospita il re di Francia (o il presidente della Repubblica, che sta all’Eliseo, un palazzo minore donato da Luigi XIV a madame de Pompadour) attira ogni anno nove milioni di turisti, la Città Proibita di Pechino dodici.

Diciamolo: è un peccato che tanta apertura non sia possibile al Colle. Certo, è curioso entrarci con la «visita virtuale» offerta dal sito web e «ammirare la ricchezza artistica del Palazzo» grazie alle «immagini “immersive” (come se il visitatore fosse nelle sale o nei corridoi) ad alta definizione». E fa venire l’acquolina in bocca spostarsi dal Cortile d’onore al salone dei Corazzieri, dalla Cappella Paolina dove si svolsero quattro conclavi (ultimo quello che elesse Pio IX) alla Sala delle Virtù e via così. E come dice il cicerone web «tra le tante tappe ci si può soffermare su affreschi di Guido Reni, Pietro da Cortona e altri…». Ma sempre virtuale è.

Lo diciamo oggi perché Napolitano ha già annunciato le dimissioni e ancora non si sa chi avrà l’onore e l’onere di prendere il suo posto. Sarebbe sgarbato chiedere «dopo» al nuovo capo dello Stato di lasciare quel palazzo già occupato da vari Papi, quattro re d’Italia e dieci (non undici: Enrico De Nicola da «provvisorio» preferì palazzo Giustiniani) presidenti. Ma in questi giorni «neutri», a cavallo fra il prima e il dopo, vale la pena di riproporre quanto già altri avevano suggerito. Nella sua autonomia, il nuovo capo dello Stato potrebbe «dare aria» alle Istituzioni trasferendosi in un altro palazzo, bellissimo ed elegantissimo, come dicevamo, per spalancare il Quirinale agli italiani e agli stranieri che accorrerebbero entusiasti alla scoperta di quelle stanze finora in gran parte chiuse. E fare di quel Palazzo di 1200 stanze un grande museo in grado di sbaragliare, con la sua storia, i suoi capolavori, le sue collezioni di arazzi o orologi, le sue mostre temporanee in spazi meravigliosi, ogni concorrenza mondiale.

Certo, molti funzionari, burocrati, dirigenti che si erano abituati a vivere in quella bambagia, storcerebbero il naso: ma come! la tradizione! il decoro! Gli italiani però, ci scommettiamo, vedrebbero la svolta con simpatia. E la leggerebbero, di questi tempi, come un gesto di sobrietà, di riconciliazione, di amicizia. Gian Antonio Stella, Il Correre della Sera, 30 dicembre 2014

….Ebbene sia. Ha ragioe Stella, non ha senso che il Qurinale con tutto ciò che contiene, i suoi tesori ma anche la sua storia resti recluso agli italiani che possono visitare all’estero tutti i tesri che ha elencato Stealla e tanti altri ancora ma noln possono godere di ciò che apartiene alla storia del nostro Paese. La figura e la funzione del Capo dello Stato di certo non avrebbe nocumento alcuno se invece di alloggiare al Quirinale (dove, poi, pochi presidenti hanno vissuto davvero) alloggiassero altrove, trasfromando il Palazzo che fu dei Papi e dei Re e infine  dei Presidenti della Repubblica come suggerisce Stealla in un Museo, forse il più bello e il più importante d’Italia. g.

LA COERENZA IN ITALIA E’ MERCE RARA, di Eugenio Scalfari

Pubblicato il 28 dicembre, 2014 in Il territorio | Nessun commento »

QUALCHE tempo fa, prendendo spunto dalle parole pronunciate da papa Francesco che giudicava la povertà come il più grave male che affligge il mondo degli umani, dedicai il mio articolo a quel tema il quale non si limita a dividere gli abitanti del nostro pianeta in ricchi e poveri. Da questa (crescente) diseguaglianza nascono una serie di altri malanni: la sopraffazione, le più varie forme di schiavitù sia pure chiamate in modi diversi, l’invidia, la gelosia, la corruzione, il malgoverno, le rendite parassitarie e perfino guerre e sanguinose rivoluzioni.

Anche oggi utilizzerò parole recentissime di Francesco che hanno come tema la coerenza. “Gli uomini e le donne  -  ha detto  -  dovrebbero comportarsi in modo coerente con il loro pensiero e la loro visione della vita, ma purtroppo molto spesso le cose non vanno così. Accade che coloro che si dichiarano cristiani e pensano di esserlo, nella realtà vivono da pagani mettendosi sotto i piedi ogni straccio di coerenza. Questo è un peccato gravissimo e non deve più accadere. La Chiesa sarà molto vigile su questo peccato di incoerenza che ne provoca molti altri, fuori dalla Chiesa ma anche dentro la Chiesa”. Francesco ha detto queste parole dal balcone del Palazzo Apostolico ad una piazza gremita e quando ha pronunciato la frase sulla gravità del peccato di incoerenza ha gridato quelle parole a voce altissima con quanto fiato aveva in corpo.

Questo è dunque il tema sul quale oggi vi intratterrò: la coerenza, la sua frequentissima violazione e i danni gravi che ne derivano.

Prima di affrontare il tema mi corre tuttavia l’obbligo di dire alcune verità (così almeno credo che siano) su tre questioni di bruciante attualità: il Jobs Act, la legge delega approvata dal Parlamento ha dato luogo ai primi due decreti attuativi; la legge elettorale che sarà tra breve trasmessa in Parlamento e la riforma della legge di Bilancio che il governo proporrà alle Camere il prossimo autunno.
Tre temi della massima importanza, i primi due hanno già suscitato profonde divisioni e aperto un confronto molto serrato con le organizzazioni sindacali dei lavoratori, mentre il terzo è finora ignorato da giornali e pubblica opinione, ma il governo ci sta lavorando e susciterà anch’esso nel momento in cui sarà presentato in Parlamento, proteste altissime e profonde divisioni.

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Ho già scritto domenica scorsa che il Jobs Act non crea alcun nuovo posto di lavoro, semmai può distruggerne alcuni. Saranno infatti assunti altri precari per un periodo massimo di tre anni, con salari inizialmente assai bassi ma lentamente crescenti. Dopo tre anni gli imprenditori decideranno se assumerli con un contratto a tempo indeterminato ma fermo restando che non godranno  -  come invece ancora accade per i vecchi assunti  -  dell’articolo 18. Per i nuovi assunti il 18 non esiste più; ci sarà dunque una diversa contrattualità per lavoratori che fanno il medesimo lavoro nella medesima azienda. La questione potrebbe creare imbarazzi con la Corte costituzionale.
Il Jobs Act non crea dunque alcun posto di lavoro. Potrà forse promuovere i precari in dipendenti regolari di quell’azienda (ma senza articolo 18) concedendo contemporaneamente un forte risparmio agli imprenditori che saranno premiati con l’esenzione dai contributi e con la piena libertà di licenziare i neoassunti durante i primi tre anni ma anche dopo, contro pagamento di un indennizzo da trattare tra le parti.

Il Jobs Act ha avuto nel corso del suo iter parlamentare sotto forma di legge delega molteplici mutamenti, quasi tutti in maggior favore degli imprenditori. In questi ultimi giorni sono usciti i due primi decreti attuativi che saranno presentati alla commissione parlamentare incaricata di fornire al governo un parere puramente consultivo, ma già si sa che in quei decreti c’è anche un trattamento per i licenziati collettivamente (in numero da cinque in su): anche in questo caso indennizzi ma non reintegro deciso  -  come era un tempo  -  dal giudice del lavoro.

Grande soddisfazione degli imprenditori ma altrettanto grande opposizione dei sindacati che protestano, invieranno ricorsi alla Corte di Bruxelles contestando i licenziamenti collettivi e forse indiranno nuovi scioperi di categoria o generali. Si può ovviamente dissentire in merito ma sta di fatto che il governo ha scelto da che parte stare e non è una scelta accettabile quella dei forti mettendosi sotto i piedi i deboli.

Si dice che leggi di questo tipo sono gradite dalla Commissione europea, dalla Bce e dal Fmi. A me non pare. Quei tre enti desiderano che l’Italia, come tutti i governi dell’Eurozona, rispetti gli impegni presi: il “fiscal compact”, una politica tendente a ridurre il debito pubblico sia pure con qualche concessione nei tempi e nella quantità, l’aumento della produttività e della competitività. Con quali strumenti questi due ultimi obiettivi debbano essere realizzati non c’è scritto da nessuna parte. Secondo me dovrebbero essere realizzati dagli imprenditori attraverso la creazione di nuovi prodotti e nuovi metodi di produzione e distribuzione. Dell’articolo 18 all’Europa non interessa nulla, riguarda il governo italiano. Produttività e competitività riguardano le aziende e chi le guida, il costo del lavoro, i licenziamenti eventuali e quanto ne deriva pesano esclusivamente sui lavoratori. Per un partito che si definisce di sinistra democratica questa scelta non mi sembra molto coerente.

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La legge elettorale approderà in Parlamento la prossima settimana e il primo voto dovrebbe avvenire prima del 14 gennaio, giorno in cui sembra che Napolitano lascerà il Quirinale. A me quella legge complessivamente sembra una buona legge che contiene nell’ultimo articolo la clausola di garanzia secondo la quale non potrà essere applicata prima dell’autunno 2016.

La chiamano l’Italicum e  -  lo ripeto  -  mi sembra efficace ma è aggrappata all’abolizione del Senato, riforma che mi sembra invece pessima. Ne ho spiegato più volte i motivi e non starò dunque a ripetermi, ma è evidente che la legge elettorale della Camera senza più un Senato crea un regime monocamerale che rafforza moltissimo il potere esecutivo e attenua i poteri di controllo del potere legislativo.
Questo è l’aspetto estremamente negativo: non l’Italicum ma il Senato relegato ad occuparsi delle attività delle Regioni essendo i suoi membri eletti dai rispettivi Consigli regionali. Per un governo che vuole rafforzare i propri poteri questa riforma è l’ideale.

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Terzo argomento la legge di Bilancio. Attualmente ce ne sono tre: quello che fu un consuntivo del bilancio alla fine dell’anno; quella che un tempo si chiamò legge finanziaria e indica la politica economica e i suoi obiettivi per l’anno futuro; la terza è il trattato europeo dal quale deriva il “fiscal compact” applicato all’Italia da una deliberazione di Bruxelles che ha valore costituzionale per tutti i Paesi dell’Unione. Ricordo tra parentesi che nella Costituzione italiana esiste l’articolo 81 (che fu ispirato da Luigi Einaudi, a quell’epoca ministro del Bilancio e ancora governatore della Banca d’Italia).

Era molto semplice l’articolo 81: tre commi in cui la frase decisiva diceva: “Non può esser fatta alcuna spesa senza che ne sia indicata l’entrata corrispondente “. Ricordo che negli anni Sessanta esisteva alla Camera un comitato di Bilancio (del quale io feci parte nella legislatura 1968′72) al quale andavano tutte le leggi di spesa per un controllo preliminare. Il comitato aveva a disposizione tutti i dati necessari per valutare se il dettato dell’articolo 81 fosse stato rispettato. Se il parere era negativo il governo ritirava il disegno di legge per rifarlo su basi completamente diverse.

Credo che quel comitato sia stato sciolto e forse ricostituito con nuove e più elastiche mansioni. Ma la legge di Bilancio, sia pure attenuata, esiste tuttora e discute, approva o respinge il bilancio sempre sulla base dell’articolo 81 che però è stato alleggerito con l’abolizione del terzo comma dal governo Monti nel 2012.

Nel prossimo autunno quella legge sarà fusa con l’attuale legge di stabilizzazione. Nel frattempo la parola pareggio è stata sostituita (negli studi preparatori in corso) dalla parola equilibrio. La legge deve cioè dimostrare per il passato e promuovere per il futuro l’equilibrio tra le entrate e le spese. All’articolo 81 dunque diamo addio. È chiaro che l’equilibrio sarà anche valutato dal Parlamento cioè dalla Camera ed è chiaro altrettanto che la Camera è un’assemblea in gran parte di “nominati” dalle segreterie del partito che vincerà le elezioni. E poiché siamo un Paese di spendaccioni, è legittimo pensare che il debito continuerà ad aumentare come del resto sta già avvenendo sia pure in regime di “fiscal compact”. Avveniva perfino con l’81 vigente, aggirato in vari modi; figurarci ora che sarà completamente abolito che cosa farà la “Compagnia dei magnaccioni”. Dio ci scampi, ma temo che il Padreterno sia in tutt’altre faccende affaccendato. *** Ed ora la coerenza. Mi è rimasto meno spazio di quanto pensassi ma qualcosa dirò.

Noi non siamo un Paese abitato da persone coerenti. Parlo naturalmente di coerenza nei rapporti con la società e quindi con la vita pubblica e le istituzioni che la rappresentano.

Noi non amiamo lo Stato, non amiamo le Regioni (che del resto fanno poco o nulla per meritarselo). Non amiamo i giudici e i loro tribunali. Insomma non amiamo chi emette regole alle quali dovremmo attenerci. Detestiamo le tasse e cerchiamo di evaderle. Noi amiamo il “fai da te”. È una libertà? Certo è una grande e importante libertà, ma con un limite: la puoi applicare in pieno purché non danneggi gli altri e la società che tutti ci contiene.

Le mafie prosperano in Italia perché i capi ottengono completa obbedienza e rispetto dello statuto dell’organizzazione e ai riti di iniziazione. Se li tradiscono li aspetta il giudizio del capo e la punizione da lui decretata. Perciò, salvo rare eccezioni, i mafiosi sono coerenti. I non mafiosi no. L’esercito ausiliario della mafia è fatto da non mafiosi il cui “fai da te” ha scelto quella zona grigia che tiene un piede dentro la scarpa mafiosa ed uno fuori. Senza di loro la mafia conterebbe assai poco ma con loro conta moltissimo. Le mafie sono Stati nello Stato perché lo combattono ma ci vivono dentro.

Le persone coerenti della nostra vita pubblica sono molto poche. Li chiamiamo “padri della Patria”, una buona definizione, ma quanti sono da quando nacque lo Stato unitario? Certamente Mazzini, Garibaldi, Cavour lo furono. In modi diversi e spesso conflittuali ma l’obiettivo era unico.

Gran parte della Destra storica che andò al governo dopo la morte di Cavour, e lo tenne per sedici anni costruendo lo Stato unitario nel bene e nel male, merita quel titolo: Ricasoli, Sella, Minghetti, Fortunato, Silvio Spaventa, Nitti e in tempi più recenti Einaudi, De Gasperi, Parri, La Malfa, Di Vittorio, Trentin, Lama, Adriano Olivetti, Calamandrei, Berlinguer, Raffaele Mattioli, Menichella, Pertini, Ciampi, Napolitano.

Ma poi ci furono scrittori e personaggi da loro creati, in Italia e in Europa, che sono esempi di coerenza. Pensate a padre Cristoforo dei “Promessi Sposi” e pensate a Jean Valjean dei “Miserabili” di Victor Hugo. Ed alcuni santi, specialmente monaci, a cominciare da Francesco d’Assisi e Benedetto.

Sembrano tanti questi nomi e molti altri me ne scordo. Ma gli incoerenti sono una massa, senza nome e senza volto ma una quantità che esiste in ogni Paese del mondo. Qui da noi è una moltitudine, una popolazione che vuole ignorare la sua storia e vivere il presente ignorando passato e non riuscendo ad immaginare futuro. Se i docenti delle nostre scuole partissero dal concetto della coerenza e lo applicassero nel bene e nel male ai fatti accaduti, credo farebbero un’opera santa e fornirebbero un’educazione che costituisce la base di un Paese civile. Eugenio Scalfari, 28 dicembre 2014

……Per una volta siamo perfettamente d’accordo con Scalfari quando sostiene che in Italia la coerenza è merce rara. Lui, del resto,  ne è un  mirabile esempio. E gli siamo grati per aver reso omaggio alla Destra storica e ai suoi rappresentanti,  che forse non furono campioni di coerenza ma certamente lo furono di buon governo.

IL MIRACOLO DEL 25 DICEMBRE 1914:CENTO ANNI FA LA TREGUA DI NATALE.

Pubblicato il 26 dicembre, 2014 in Il territorio | Nessun commento »

UN RICORDO LONTANO CENTO ANNI  PER  UN CONTRIBUTO ALLA PACE.

Tedeschi e inglesi fotografati insieme durante la «tregua di Natale» del 1914 (Getty Images) Tedeschi e inglesi fotografati insieme durante la «tregua di Natale» del 1914 (Getty Images)

Il video è bello e ben girato. Due gruppi di giovani uomini vestiti con uniformi diverse, in un campo innevato devastato dalla battaglia, che si scambiano fotografie, liquori, cioccolata in un’atmosfera di pace e fratellanza resa con colori tenui. Ma lo spot di Sainsbury è stato vissuto come un oltraggio da almeno una parte del pubblico britannico: la catena di supermercati ha deciso di sfruttare a fini commerciali (appena mascherati dal sostegno dato alla Royal British Legion, l’equivalente della nostra Associazione Combattenti e Reduci) una delle memorie più sacre della Prima Guerra Mondiale, la cosiddetta «tregua di Natale» del 1914 tra tedeschi e inglesi.

Fu un’iniziativa presa dal basso, dai soldati in trincea, che il 25 dicembre di cento anni fa uscirono spontaneamente allo scoperto in alcune zone del fronte occidentale per andare a salutare e a fare gli auguri ai «nemici» senza che ci fosse, da parte dei comandi, alcun via libera. Anzi, proprio il contrario. Quando la notizia si diffuse grazie alle lettere dei soldati alle famiglie, i vertici militari di entrambi i contendenti si affrettarono a proibire altre iniziative simili: il generale Horace Smith Dorrien, comandante del secondo corpo d’armata della Bef, la forza di spedizione britannica in Francia, arrivò a minacciare la corte marziale per chi si fosse reso colpevole di fraternizzazione.

Un’illustrazione che ricorda la tregua: incontro di auguri nella terra di nessuno

Il «miracolo» del Natale 1914, di due avversari che dimenticano l’odio per unirsi in un abbraccio fraterno, rimase un fatto quasi isolato (ci sono poi stati altri episodi di «vivi e lascia vivere» ma mai più così eclatanti) e ben presto trascolorò nel mito, tanto più quando il sentimento popolare degli europei nei confronti della Grande Guerra cambiò di segno: non più glorioso fatto d’arme ma massacro insensato, che aveva spazzato via una generazione. La tregua di Natale venne quindi vista come la dimostrazione che gli uomini sono fondamentalmente buoni e che erano stati spinti alla guerra da governi stupidi e irresponsabili, tanto che appena liberi di farlo avevano scelto la pace e la fratellanza.

Ma come andarono realmente le cose? Facciamolo raccontare a chi ne fu testimone diretto, il caporale Leon Harris del 13esimo battaglione del London Regiment in una lettera scritta ai genitori che stavano a Exeter : «È stato il Natale più meraviglioso che io abbia mai passato. Eravamo in trincea la vigilia di Natale e verso le otto e mezzo di sera il fuoco era quasi cessato. Poi i tedeschi hanno cominciato a urlarci gli auguri di Buon Natale e a mettere sui parapetti delle trincee un sacco di alberi di Natale con centinaia di candele. Alcuni dei nostri si sono incontrati con loro a metà strada e gli ufficiali hanno concordato una tregua fino alla mezzanotte di Natale. Invece poi la tregua è andata avanti fino alla mezzanotte del 26, siamo tutti usciti dai ricoveri, ci siamo incontrati con i tedeschi nella terra di nessuno e ci siamo scambiati souvenir, bottoni, tabacco e sigarette. Parecchi di loro parlavano inglese. Grandi falò sono rimasti accesi tutta la notte e abbiamo cantato le carole. È stato un momento meraviglioso e il tempo era splendido, sia la vigilia che il giorno di Natale, freddo e con le notti brillanti per la luna e le stelle». Il riferimento al tempo non è di poco conto: «La vigilia — scrive Alan Cleaver nella prefazione al libro La tregua di Natale (Lindau edizioni) che raccoglie molte lettere dei soldati dell’epoca — segnò la fine di settimane di pioggia battente, e una gelata rigida e tagliente avvolse il paesaggio. Gli uomini al loro risveglio si trovarono immersi in un Bianco Natale».

Non si sa dove fosse schierata l’unità del caporale Harris ma gli eventi da lui descritti con tanta vivacità si ripeterono più o meno identici in molti punti del fronte. In una lettera alla famiglia del 28 dicembre, il bavarese Josef Wenzl racconta di essere rimasto incredulo quando uno dei soldati cui la sua unità stava dando il cambio gli disse di aver passato il giorno di Natale scambiando souvenir con gli inglesi. Ma quando spuntò l’alba del 26 dicembre vide con i suoi occhi i soldati britannici uscire dalle trincee e cominciare a parlare e scambiarsi oggetti ricordo con lui e con i suoi compagni. Poi ci furono canti, balli e bevute. «Era commovente — si legge nella lettera — tra le trincee uomini fino a quel momento nemici feroci stavano insieme intorno a un albero in fiamme a cantare le canzoni di Natale. Non dimenticherò mai questa scena. Si vede che i sentimenti umani sopravvivono persino in questi tempi di uccisioni e morte».

Scene simili si verificarono anche tra tedeschi e francesi e tra tedeschi e belgi, pur se in misura molto minore: dopo cinque mesi di guerra sanguinosissima (era iniziata il primo agosto)con circa un milione di vittime, con molte zone del Belgio e della Francia orientale occupate e dopo i massacri di civili compiuti dai soldati tedeschi, i sentimenti di fraternità erano parecchio meno diffusi. E comunque anche nelle zone inglesi ci furono morti e feriti per il fuoco nemico perfino nel giorno di Natale: alcuni soldati che avevano cercato di prendere contatto con il nemico sporgendosi dai parapetti delle trincee furono fulminati dai cecchini avversari. «A Natale — racconta lo storico Max Hastings in Catastrofe 1914 (Neri Pozza) — il Secondo granatieri inglese ebbe tre uomini uccisi, due dispersi e 19 feriti; un altro soldato fu ricoverato in ospedale con sintomi di congelamento, come altri 22 la mattina dopo».

Ovviamente queste storie finirono rapidamente sui giornali dell’epoca, con titoli abbastanza sensazionali. Il Manchester Guardian del 31 dicembre 1914 titolava: «Tregua di Natale al fronte — I nemici giocano a calcio — I tedeschi ricevono un amichevole taglio di capelli». E il 6 gennaio lo stesso quotidiano strillava: «Nuove notizie sullo straordinario armistizio ufficioso — I Cheshires (un’unità inglese, ndr) cantano Tipperary a un pubblico di tedeschi». Fu sui quotidiani britannici che fu raccontata la vicenda della partita di calcio giocata nella terra di nessuno da inglesi e tedeschi in una zona imprecisata del fronte, che sarebbe finita 3-2 per i tedeschi. Per molto tempo fu una storia considerata non sufficientemente provata dagli storici (tutte le fonti erano indirette, qualcuno che raccontava che qualcun altro gli aveva detto che c’era stata una partita…), ma che entrò prepotentemente nel mito: la si ritrova nello spot della Sainsbury, nel film ferocemente antimilitaristaOh che bella guerradi Richard Attenborough (1969) e anche nel videoclip di Pipes of Peace di Paul Mc Cartney del 1983. E pochi giorni fa, l’11 dicembre, nella cittadina belga di Ploegsteert, il presidente dell’Uefa Michel Platini ha inaugurato un monumento a ricordo del giorno in cui il calciò unì i giovani di due nazioni nemiche.

Alla fin fine, comunque, pare che il mito avesse ragione e gli storici scettici torto: è stata scoperta una lettera del generale Walter Congreve (decorato con la Victoria cross, la più alta decorazione britannica al valor militare) che racconta alla moglie della tregua e della partita di calcio anche se ammette di non averla vista con i propri occhi ma di averlo saputo da testimoni oculari. Ma poiché era un generale, non si faceva illusioni e sapeva i bei momenti sarebbero finiti. Ne dà conto, con una battuta piuttosto macabra, nella stessa lettera: «Uno dei miei ha fumato un sigaro con il miglior cecchino dell’esercito tedesco, non più che diciottenne. Dicono che ha ucciso più uomini di tutti ma ora sappiamo da dove spara e spero di abbatterlo domani». Sì, la guerra sarebbe continuata. Paolo Rastelli, Il Corriere della Sera, 25 dicembre 2014

NATALE, ELOGIO DI QUELLO VERO, di Ernesto Galli della Loggia

Pubblicato il 24 dicembre, 2014 in Costume, Il territorio | Nessun commento »

Fino a quando le società europee oseranno ancora chiamare Natale il Natale, e non lo trasformeranno in qualcosa come « Season’s holiday » (Vacanza di stagione), sul modello ormai invalso nei politicamente correttissimi Stati Uniti, dove per l’appunto non si mandano più auguri di Buon Natale ma « Season’s greetings »?
Anche da noi, infatti, sta succedendo precisamente questo: sta ormai prevalendo – o ormai è già prevalsa – un’interpretazione nuova della libertà religiosa. Secondo la quale questa non consisterebbe più solo in una libertà – quella per l’appunto riconosciuta a chiunque di osservare la religione che preferisce, nei modi che preferisce, cercando altresì di divulgarla o di rinnegarla come preferisce – bensì, altrettanto essenzialmente, anche in un divieto . Essa comporterebbe cioè anche la proibizione per qualunque religione di trovare posto in qualsivoglia ambito pubblico, per paura che ciò possa offendere chi non fosse un suo seguace. Fede e culto, insomma, sono ammissibili ma solo a un patto: di restare un fatto privato. La società, lo spazio sociale, invece, devono restare nel modo più rigoroso liberi da ogni presenza o richiamo di tipo religioso. E proprio per questo – come è accaduto – un crocefisso in un’aula, o un presepe in una scuola, possono divenire oggetto di un esplicito divieto.

Tutto bene se non ci fosse un trascurabile particolare. E cioè che la religione – e poiché parliamo dell’Europa diciamo pure il Cristianesimo – ha occupato un posto enorme in quel decisivo ambito pubblico che fino a prova contraria è rappresentato dalla storia del continente. La storia: vale a dire tutto il vastissimo insieme dai profondissimi echi emotivi e psicologici, rappresentato dal folklore, dalle tradizioni, dalle feste, dalle abitudini quotidiane di ogni tipo di questa come di ogni altra parte del mondo. Vorrà pure dire qualcosa o no – tanto per fare un esempio – che almeno alcune decine di migliaia di località italiane e la maggior parte degli italiani portano il nome di un santo? E non vale, mi sembra, obiettare che ormai non sono in molti a dirsi esplicitamente cristiani. È vero. Ma con le sue mille propaggini l’universo storico-religioso resta ancora oggi un cruciale deposito d’identità collettiva profondamente introiettata, che si è trasfusa in una miriade d’identità individuali.

È per l’appunto in relazione a questo universo storico-identitario – di cui il fatto religioso costituisce un sostrato decisivo – che nelle società europee si sta delineando l’ennesima spaccatura tra masse ed élite . Tra una maggioranza della popolazione che, seppure in gran parte non condivida più lo sfondo trascendente di quell’universo, tuttavia ancora sente con esso un rapporto tenace, ancora lo percepisce come vitalmente proprio, e dall’altra parte la maggioranza delle élite . Le quali, viceversa, sono rispetto ad esso indifferenti quando non insofferenti. Si tratta di una frattura che riguarda tutto l’universo identitario nel suo complesso (e dunque anche i temi decisivi della nazione, della sovranità nazionale e insieme della lingua). Cioè il vasto insieme del passato che, aggredito oggi capillarmente dalla globalizzazione, vede i «felici pochi» benevolmente disposti a prenderne le distanze, a lasciarne andare via interi pezzi, mentre gli « have not » non ci stanno e fanno resistenza. Sicché in tal modo le élite – come da tempo si nota specialmente nei Paesi deboli come il nostro – divengono tendenzialmente «progressiste», spregiudicatamente «moderne», mentre le masse sempre di più tendono oggettivamente ad apparire «reazionarie». Quelle masse che però quando festeggiano il Natale chiamandolo ancora Natale, festeggiano in qualche modo, pure se non lo sanno, una storia che finora era di tutti. Ernesto Galli dellaLoggia, Il Corriere della Sera, 24 dicembre 2014

……Come non essere d’accordo con Galli della Loggia?  E come non sentirci parte della “massa” piuttosto che della “elite”? Dove massa non vuol dire reazionario ma conservatore nel senso prezzoliniano del termine. g.

L’ECLISSI DELLA REGOLA, di Michele Ainis

Pubblicato il 23 dicembre, 2014 in Politica | Nessun commento »

L’ eccezione è sempre eccezionale, direbbe monsieur de La Palice. Invece alle nostre latitudini è normale. Nel senso che la misura straordinaria costituisce ormai la norma, la regola, la prassi. Il caso più eloquente investe l’abuso dei decreti: 20 in 10 mesi, per il governo Renzi. Una media in linea con quella dei suoi predecessori, dato che Letta ne aveva sparati 22, Monti 25. Sicché questo strumento normativo, che i costituenti brevettarono per fronteggiare i terremoti, è diventato il veicolo ordinario della legislazione. Significa che in Italia i terremoti sono quotidiani, peggio che in Giappone. Come d’altronde i voti di fiducia, che hanno l’effetto di terremotare il Parlamento. Quello ottenuto dal governo sulla legge di Stabilità era il trentesimo della serie: dunque una fiducia ogni 10 giorni, record planetario. E oltre la metà delle leggi approvate sotto il ricatto del voto di fiducia.

C’è sempre un argomento che giustifica la misura eccezionale: forza maggiore. Se non intervengo per decreto, chissà quando si decideranno a intervenire le due Camere. Se non pongo la fiducia, magari mi voteranno contro. E così via, fra un maxi emendamento e una seduta notturna sulla manovra finanziaria, per scongiurare l’esercizio provvisorio. Del resto la XVII legislatura s’aprì con la rielezione del presidente uscente. Non era mai avvenuto, ma quella scelta fu possibile – come disse lo stesso Napolitano – perché la Costituzione aveva lasciato «schiusa una finestra per tempi eccezionali». Dalla forza maggiore deriva l’eccezione, dall’eccezione l’eclissi della regola. Dovrebbe trattarsi di un’eclissi temporanea; invece è divenuta permanente. Così, in ogni democrazia i governati conferiscono un mandato ai loro governanti; ma gli ultimi tre esecutivi (Monti, Letta, Renzi) non hanno ricevuto alcun mandato. La loro investitura deriva dalla necessità, dallo stato d’eccezione.

L’urgenza permanente inocula un elemento ansiogeno nella nostra vita pubblica. E anche in quella privata, come no. Tu scopri che l’ultimo Consiglio dei ministri si è tenuto alle 4.40 del mattino, t’accorgi che il prossimo è stato convocato alla vigilia del Natale, e allora ti ficchi un elmetto sulla testa: dev’esserci una guerra, benché nessuno l’abbia dichiarata. In secondo luogo, l’urgenza impedisce programmi a lungo termine, però in compenso alleva misure frettolose, strafalcioni, commi invisibili come quelli votati (si fa per dire) dai senatori sulla legge di Stabilità. In terzo luogo e infine, chi decide sull’urgenza? Per dirne una, quest’autunno il Parlamento si è riunito a raffica per eleggere due giudici costituzionali. Ne ha eletto uno, dell’altro non si sa più nulla. Il primo era urgente, il secondo no.

Da qui il frutto avvelenato che ci reca in dono il nostro tempo. Perché la dottrina del male minore – cara a Spinoza come a Sant’Agostino – ci abitua a stare in confidenza con il male, sia pure allo scopo d’evitarne uno peggiore. E perché, laddove sussista una causa di forza maggiore, dovrà pur esserci una forza minore, una vittima sacrificale. Ma quella vittima è la legalità. Michele Ainis, Il Corriere della Sera, 23 dicembre 2014

…….Chiunque legge questo piccolo saggio di Ainis, si domanda in che regime viviamo in Italia. In un regime democratico-parlamentare? Assolutamente no. Viviamo in un sistema paratotalitario che ha solo la veste della democrazia e la sostanza della dittatura…certo non quella classica ma nei fatti pegguiore di quella classica, perchè i dittatori non erano dei parolai equivalenti agli strilloni dei giornalima ma talvolta caopaci di scelte coraggiose e lontane dalla spettacolarizzazione che oggi è assai di moda, favorita dai tecnologismi del nostro tempo. Dobbiamo perco die che si stava meglio quando si stava peggio? Perchè no, se questa è la verità, così come emerge dalla analisi di un sicuro democratico come Ainis, che, non va dimenticato, fu chiamato da Napolitano (c’è qualcuno che può merttere in dubbio la democraticità di Napolitano?!) a far parte dei qualific ati tecnici che dovevano scrivere le regole del futuro. Perdute nel grande mare del parlismo assordante di Renzi, che pià che annuncuiare strilla provvedimenti  che restano lettera morta. Come buona parte dell’italiaca penisola. g.

LA FRETTA E I DUBBI, di Michele Ainis

Pubblicato il 13 dicembre, 2014 in Cronaca, Giustizia, Politica | Nessun commento »

A ogni azione corrisponde una reazione. È la terza legge della dinamica, ma è anche la prima legge della politica. Che infatti s’emoziona solo quando un’onda emotiva turba l’opinione pubblica. Troppi detenuti nelle carceri? Depenalizziamo. Troppi corrotti nella municipalità capitolina? Penalizziamo. Sicché in Italia siamo giustizialisti o garantisti a giorni alterni. Basta consultare Google: 141 mila risultati per «aggravamento delle pene», 143 mila per «diminuzione delle pene».

Ma oggi è il giorno dell’inasprimento, del giro di vite e di manette. Il Consiglio dei ministri ha appena licenziato un testo urgente, benché non tanto urgente da confezionarlo in un decreto. E quel testo stabilisce la confisca dei beni del corrotto (meglio tardi che mai). Innalza i termini di prescrizione che altre leggi avevano abbassato. E per l’appunto aggrava la pena detentiva di due anni. Succede sempre, quando c’è un allarme sociale da placare. È già successo con le norme approvate dopo l’ultimo caso di pedofilia (settembre 2012) o dopo il penultimo disastro ambientale (febbraio 2014).

Funzionerà? Come dice il poeta, «un dubbio il cor m’assale». Perché chi ruba e chi intrallazza non pensa al codice penale, pensa di farla franca. E se ci pensa, non saranno dieci anni di galera anziché otto ad arrestare i suoi progetti. Perché inoltre il deterrente non risiede nella durezza della pena bensì nella sua certezza; ma alle nostre latitudini è sempre incerta la condanna non meno della pena. Perché l’ordinamento giuridico italiano ospita già 35 mila fattispecie di reato, che chiunque può commettere senza nemmeno sospettarne l’esistenza. Rendendo così insicuro il cammino degli onesti, mentre rimane lesto il passo dei disonesti. E perché infine quell’ordinamento è volubile e sbilenco come i politici che l’hanno generato. Per dirne una, la legge di depenalizzazione del 1981 inasprisce le sanzioni per chi divulghi le delibere segrete delle Camere.

Eppure una via d’uscita ci sarebbe: passare dalla (finta) repressione alla (vera) prevenzione. Come? Per esempio sforbiciando le 8 mila società partecipate dagli enti locali. O con misure efficaci contro il conflitto d’interessi, che tuttavia alla Camera rimbalzano dalla commissione all’Aula senza che i nostri deputati cavino mai un ragno dal buco. Con una legge sulle lobby: gli americani se ne dotarono nel 1946, gli italiani hanno visto 55 progetti di legge andare in fumo l’uno dopo l’altro. Con l’anagrafe pubblica degli eletti, che i Radicali propongono (invano) dal 2008. O quantomeno potremmo uscirne fuori rendendo obbligatorio per legge il provvedimento deciso dal sindaco Marino dopo la scoperta dei misfatti: rotazione dei dirigenti, degli incarichi, dei ruoli di comando. Una misura anticorruzione già emulata in lungo e in largo, dal Comune di Canicattì al Policlinico di Bologna. E già benedetta da Cantone il mese scorso, quando sempre Marino avviò la rotazione territoriale dei vigili urbani, dopo l’arresto per tangenti del loro comandante.

Dopotutto, è l’uovo di Colombo. Se non resti per secoli inchiodato alla poltrona, ti sarà più difficile poltrire, ti sarà impossibile ordire. E il corruttore avrà i suoi grattacapi, se il corruttibile cambierà faccia a ogni stagione come una maschera di Fregoli. Dice: ma così diminuirà la competenza, che cresce in virtù dell’esperienza. Vallo a raccontare agli italiani, alle vittime di un’amministrazione incompetente e per giunta inamovibile. Vallo a raccontare a chi ha dovuto specchiarsi per vent’anni nelle facce immarcescibili degli stessi politici, degli stessi alti burocrati. Qui e oggi, una ministra fresca di stampa come Boschi sta facendo meglio di tanti suoi stagionati predecessori. E comunque l’uovo non lo inventò Colombo: fu deposto nell’antica Grecia. In democrazia si governa e si viene governati a turno, diceva Aristotele. Sarebbe bello se l’Italia sapesse riparare la sua democrazia. Di più: sarebbe onesto. Michele Ainis, Il Corriere della Sra, 13 dicembre 2014

……Il prof. Ainis è entrato nel cuore del problema. Il fenomeno  della corruzione, che, va detto, è vecchio quanto il mondo,  non si combatte aumentando le pene ma scardiando all’origine tutto ciò che le fa da viatico, che la favorisce, la diffonde, cioè le occasioni che come si sa, o come dicevano saggiamente gli antichi, fa l’uomo ladro. Uno dei rimedi, oltre ad una legislazione estremamente garantista, è quello che suggerisce Ainis, cioè, nella pubblica amministraone, la rotazione negli incarichi.  E’ comprovato che quanto più si cancrenizzano le posizioni di comando, tanto più esse tendono a far da sè e qui il secondo rimedio,  cioè, nella pubblica amministrazione, evitare che uno solo abbia il potere di decidere perchè in questi casi la “solitudine2 è cattiva consigliera. E poi ciò che da sempre si auspica, cioè l’anagrafe degli eletti, e l’ablizione della cosiddetta privacy per quanti amministrano il pubblico danaro. Per loro non solo finestre aperte ma squarciate. g.


IL TESORO CHE L’ITALIA DISPREZZA, di Giuan Antonio Stella

Pubblicato il 10 dicembre, 2014 in Il territorio | Nessun commento »

Dallo scudetto alla zona retrocessione: come abbiamo potuto precipitare in soli dieci anni dal 1° al 18º posto come «marchio» turistico mondiale? L’ultima edizione del «Country Brand Index 2014-15», compilato in base ai giudizi di migliaia di opinion maker, la dice lunga sulla reputazione di cui godiamo. Restiamo primi per appeal : il sogno di un viaggio in Italia è ancora in cima ai pensieri di tutti. E primi per il fascino delle ricchezze culturali e paesaggistiche. E così per i nostri piatti e i nostri vini. Sul resto, però… Soprattutto sul rapporto prezzi/qualità. Eravamo al 28º posto: due anni e siamo precipitati al 57º. Un incubo.

«Nessun dorma», titola il capitolo dedicato al nostro Paese. Perché è da pazzi trascurare un settore come il turismo che sta vivendo il più grande boom mondiale di tutti i tempi e che potrebbe darci una formidabile spinta per cavarci dai guai. Invece, poco o niente. Rari accenni (10 citazioni su 46.059 parole) nello sblocca Italia, dove si parla dei «condhotel» o della necessità di «armonizzare» le offerte dei vari enti locali. Fine. Ma dov’è la piena consapevolezza di quanto il tema sia vitale per il nostro presente e il nostro futuro?

Dice il rapporto World Travel & Tourism Council che nel 2013 l’Italia ha ricavato dal turismo in senso stretto il 4,2% del Pil e compreso l’indotto il 10,3. La metà della promessa di troppi premier… Dice ancora che il turismo in senso stretto occupa 1.106.000 addetti (dieci volte più della chimica) e con l’indotto (compresi per capirci gli artigiani che fanno i gilè dei camerieri) 2.619.000, cioè un milione più degli addetti dell’industria metalmeccanica. Bene: dice l’archivio dell’ Ansa che su 1.521 titoli con Pier Carlo Padoan, ministro dell’Economia, non ce n’è uno associato alle parole turismo, turistico, turisti. Peggio ancora per Susanna Camusso: su 4.988 titoli, uno solo (uno!) associato al turismo. Per la Cgil ci sono solo i metalmeccanici, chimici, i pensionati… E il settore che impiega quasi il 14% degli occupati? Boh…

Una cecità insensata e collettiva che negli anni ha fatto disastri: dall’abolizione del ministero alle deleghe alle regioni chiamate ciascuna a giocar per conto proprio sul mercato mondiale, dai pasticci sull’Enit al sito italia.it per il quale furono stanziati 45 milioni di euro con risultati comici come le musiche dei filmati che raccontavano le regioni ai cinesi, in 19 casi su 20 di compositori stranieri. Soldi buttati. Col cesello finale di Matteo Renzi che due mesi fa ha chiesto ai ragazzi d’una startup palermitana: «Ce lo preparate voi un progetto gratuito sul turismo? Sarebbe una figata bestiale».Secondo il premier, «ci manca una adeguata strategia e non sappiamo raccontare nel modo giusto il nostro prodotto. C’è bisogno di una grande campagna di comunicazione web, un’operazione di marketing in Rete per rilanciare il nostro turismo…». Giusto. Le classifiche «Brand Index», però, dimostrano inequivocabilmente che possiamo pure «raccontare» l’Italia con le parole più immaginifiche possibili, ma ciò non scioglierebbe i nodi fondamentali. Che sono altri.Dicono quelle classifiche infatti che il «marchio» Italia è già conosciutissimo e primissimo per ciò di cui andiamo fieri: i tesori artistici, monumentali, paesaggistici. Ma, come spiega il dossier a noi dedicato, non possiamo più campare di rendita: tutte quelle cose «non sono più sufficienti a farci preferire ad altre destinazioni, specie perché il nostro rapporto qualità-prezzo è precipitato dal 28° al 57° posto, un tracollo!». Quasi trenta punti persi rispetto all’ultimo rapporto biennale.

Venezia resta Venezia, Roma resta a Roma e Capri resta Capri, ma i turisti stranieri non sono baccalà: non tornano, se si sentono bidonati. Peggio: scoraggiano gli amici e i parenti dal venire in un Paese stupendo ma che pretende di avere una sorta di diritto di imporre ai visitatori pedaggi ingiusti. Tanto più se, intorno, troppe cose sono insoddisfacenti.

«L’Italia perde posizioni proprio perché il suo percepito e anche il suo vissuto», spiega il rapporto Brand Index, «è quello di un Paese penalizzato da una cattiva gestione politica (24° posto), con un sistema valori che si va opacizzando sempre più (23° posto), poco attrattivo come destinazione per studi e investimenti (19° e 28°), con infrastrutture insoddisfacenti (23°), intolleranza (23°), scarsa tecnologia (29°) e una qualità della vita sempre più bassa (25°)».

L’ultimo dossier del World Economic Forum nel settore Travel & Tourism, come denuncia uno studio di Silvia Angeloni, ci rinfaccia per di più il modo in cui gestiamo le nostre ricchezze paesaggistiche: nella «sostenibilità ambientale» siamo cinquantatreesimi. Peggio ancora nell’indice «Applicazione delle norme ambientali», dove ci inabissiamo all’84º posto. Qualcuno pensa che sia furbo continuare ad aggiungere cemento e cemento da Taormina a Cortina, da Courmayeur a Santa Maria di Leuca? Ecco la risposta: i turisti internazionali ci dicono che quella roba lì non gli interessa. L’Italia che vogliono vedere è un’altra.

Fatto sta che, come dicevamo, nel primo Brand Index del 2005 il marchio Italia era primo assoluto. Nel 2007 quinto. Nel 2009 sesto. Nel 2011 decimo. Nel 2013 quindicesimo e nell’ultimo, 2014-2015, appunto, diciottesimo. Certo, rispetto al primo monitoraggio alcuni criteri sono stati cambiati. E l’insieme della «accoglienza» di un Paese, dall’igiene alla qualità dei prodotti locali, dalla sicurezza ai prezzi, è diventato più importante che non la ricchezza di tesori. Il tracollo segnala un problema: chiunque sia a Palazzo Chigi la nostra reputazione è a pezzi. Ma soprattutto il mondo del turismo ha preso atto che l’Italia non è impegnata, se non a chiacchiere, in un progetto di rilancio vero. Corposo. Decisivo. Capace di coinvolgere tutto il Paese.Vogliamo fare qualche confronto fastidioso? Proviamo con la Gran Bretagna, che oggi viaggia con un Pil che cresce del 3% l’anno e ha i nostri stessi abitanti. Noi siamo al quinto e loro all’ottavo posto, staccati, tra i Paesi più visitati dai turisti internazionali, ma ci hanno quasi raggiunti per i ricavi: 40,6 miliardi di dollari contro i nostri 43,9. Qualche anno e ci pigliano.

Loro hanno 17 siti Unesco, noi il triplo (50 più due del Vaticano più un paio di patrimoni immateriali) per non dire delle Dolomiti, della costa Smeralda o della Riviera sorrentina, del cibo e dei vini dove non c’è confronto. E ti chiedi: com’è possibile che loro siano sei posti davanti a noi nel «marchio» e addirittura 24 posti (loro al 4°, noi al 28°) nella competitività turistica? Com’è possibile che, stando al dossier Wttc, il turismo con l’indotto pesi sul loro Pil per il 10,5%, cioè più che sul nostro o che abbiano nel turismo (sempre incluso l’indotto) oltre 4 milioni di addetti e cioè quasi un milione e mezzo più di noi?

Un piccolo dettaglio dice tutto: il nostro sito web ufficiale italia.it è in cinque lingue (italiano, inglese, francese, spagnolo e tedesco) e il loro visitbritain.com in dieci, il doppio, compresi il russo e il cinese. E vi risparmiamo altri confronti. Umilianti.

Ecco: non sarebbe il caso che nel Paese di Pompei, degli Uffizi, di Venezia, della Valle dei Templi e del Cenacolo leonardiano il turismo diventasse, finalmente, una grande questione nazionale? Gian Antonio Stella, Il Corriere della Sera, 10 dicembre 2014

IL PRESIDENTE CHE VERRA’: AL QUIRINALE UNO CHE NON HA NULLA DA FARE?

Pubblicato il 9 dicembre, 2014 in Politica | Nessun commento »

Giorgio Napolitano

I l prossimo presidente della Repubblica non avrà molto da fare. Almeno a dar fede al programma di riforme del governo Renzi. Stando alle promesse, avremo una sola Camera che vota la fiducia. Dunque nessun rischio di maggioranze diverse o addirittura inesistenti in un ramo del Parlamento, come è avvenuto all’inizio di questa legislatura. Dunque nessun bisogno di un capo dello Stato che ne cerchi una alternativa o più ampia.
D’altra parte, grazie all’ Italicum 2.0 con premio al partito, non ci saranno più coalizioni, né dunque crisi di coalizione, e perciò tutto il lavoro per rimetterne insieme i cocci sarà fatica inutile che il presidente potrà risparmiarsi.

Una volta che il primo ministro sarà scelto direttamente dal popolo con il ballottaggio, e non più dal Parlamento, che bisogno rimarrà delle consultazioni nello Studio alla Vetrata? E di quell’articolo della Costituzione secondo il quale il presidente della Repubblica nomina i ministri? Il premier potrà presentarsi al Quirinale con una lista prendere o lasciare, e il presidente prenderà. E quando il premier deciderà che la legislatura è finita, il capo dello Stato scioglierà. Tolta qualche inaugurazione e i discorsi di fine d’anno, per il resto il nuovo presidente potrà riposarsi ben più di quanto sia stato concesso al suo predecessore.

Ma se le cose stanno davvero così, perché mai politici e partiti si stanno già dannando per vincere la partita del Quirinale? Tutto sommato, un candidato varrebbe l’altro. A meno che la fondamentale importanza che tutti annettono alla scelta del futuro presidente non nasconda in realtà tre sospetti. Il primo è che la legislatura finisca prima delle riforme, e allora tutto il lavoro dovrebbe ricominciare daccapo nella prossima.

Il secondo sospetto è che, pur con le tanto attese riforme, il garante dell’unità nazionale continuerà ad avere un ruolo cruciale, perché come si può rompere una coalizione si può rompere anche un partito, e una crisi può nascere anche in una Camera sola, e allora meglio avere al Quirinale uno che risponde al telefono piuttosto che uno che risponde al Paese. Il terzo dubbio è che, con un debito senza freni, nei prossimi sette anni torni utile un presidente autorevole per garantire l’Europa.

In fin dei conti, il rebus è tutto qui: portare al Quirinale una o uno che non avrà niente da fare, un signor Nessuno, magari a tempo, con la data di scadenza incorporata nella legge elettorale? O qualcuno/qualcuna cui toccherà far rispettare il molto che resta della Costituzione, e che ne abbia la competenza, l’indipendenza e l’intelligenza? Optiamo senza dubbi per la seconda soluzione. Antonio Polito, Il Corriere della Sera, 9 dicembre 2014

….Anche noi!