LO SCIOPERO ELETTORALE PUO’ ESSERE SOLO L’”ANTIPASTO”, di Giuseppe De Tomaso

Pubblicato il 25 novembre, 2014 in Economia, Politica | Nessun commento »

Si dice. È colpa degli scandali la fuga di massa degli elettori. Sarà. Ma gli scandali sono una cartolina del Belpaese. Da sempre. Come il Colosseo o la Torre di Pisa. Se questa volta, in due regioni, la disaffezione dei votanti (pur non essendo un’anomalia in molte democrazie occidentali) ha raggiunto proporzioni da sciopero generale, significa che il malessere collettivo è radicato a tal punto che le future proteste della popolazione potrebbero oltrepassare il recinto elettorale.

Gli emiliani, i romagnoli, i calabresi che domenica hanno disertato le urne non sono improvvisamente impazziti, né costituiscono un’eccezione rispetto al sentimento comune diffuso nella Penisola. Anche se si fosse votato nelle altre 18 regioni, l’astensionismo avrebbe toccato ugualmente cime da capogiro.

Matteo Renzi può consolarsi con la vittoria del Pd. Ma è la classica vittoria di Pirro, ottenuta mentre il grosso degli elettori ha optato per la ritirata. Di questo passo, dicevamo, saranno ancora più estreme le forme di insofferenza da parte dell’opinione pubblica.

Un tempo, quando la tassazione complessiva era lontana dagli attuali livelli di confisca, si votava col cuore e con la testa. Oggi si vota quasi esclusivamente con il portafogli. E siccome la classe politica, al centro e in periferia, non fa altro che prelevare danaro per sostenere non i servizi sociali, ma una struttura di potere degna di un Paese sovietico, ai poveri votanti non resta che decretare lo sciopero elettorale, nella speranza che le varie nomenklature invertano l’andazzo, non soltanto per dare un sollievo ai contribuenti, ma soprattutto per liberare risorse che le singole persone potrebbero destinare alle attività produttive. Checché ritenga il buon presidente del Consiglio, non sono i governi a creare ricchezza, bensì i produttori, cioè gli imprenditori e i lavoratori. I governi, quasi sempre, si distinguono nel dilapidare ricchezza, nel prelevare quel «plusvalore» al centro degli studi di Karl Marx (1818-1883). Forse non ha tutti i torti chi osserva che se, anziché con i capitalisti-imprenditori «sfruttatori», il filosofo di Treviri se la fosse presa con i governi «ingordi», la sua lezione avrebbe assunto una validità universale, fuori dai confini del tempo.

Sono in molti, dopo l’affluenza choc alle regionali in Emilia-Romagna e Calabria, a ritenere che se si fosse votato alle politiche, probabilmente il dato della (scarsa) partecipazione non sarebbe risultato così clamoroso. Forse. Più delle Province, da sempre, le Regioni rappresentano le istituzioni meno apprezzate dai cittadini. Del resto, i numeri non hanno bisogno di particolari esegeti: l’exploit del debito pubblico coincide con l’entrata a regime della riforma che, nel 1970, introdusse i venti staterelli. E il superdebito costituisce la causa primaria del prelievo fiscale record, un elemento che alleggerisce le tasche degli italiani più dell’infinito bollettino degli scandali. Di qui la reputazione, tutt’altro che esaltante, delle Regioni nelle case dei cittadini.

Ma lo sciopero del voto dell’altro ieri ha tutta l’aria di annunciare una sorta di preavviso alla classe dirigente: adesso si protesta non votando, in futuro si potrebbe protestare non pagando (le tasse). D’altronde, avvisaglie in tal senso già si avvertono in qualche Comune. E, si sa, che in questa materia basta poco per appiccare un incendio.

La classe politica tende a sottovalutare la questione fiscale nella speranza che la ripresa del Prodotto interno lordo possa ridare fiducia a tutti. Ma il Pil non dà segnali di rilancio, anzi viene da chiedersi qual è la condizione del Prodotto netto della nazione, visto che nel Prodotto lordo è compresa anche la spesa improduttiva.

Renzi ha trasferito buona parte dei compiti di riscossione impositiva dallo Stato agli enti locali, con la conseguenza che le addizionali locali sono salite alle stelle e le abitazioni delle famiglie costano meno di un viaggio di nozze. Indifferente all’incredulità generale, il governo intende fare cassa col canone televisivo, probabilmente l’imposta più avversata in circolazione. L’obiettivo dichiarato è combattere l’evasione, l’effetto pratico sarà raccattare quattrini con le bollette elettriche delle seconde e terze case, anche se quest’ultime fossero sprovviste di teleschermi.

Silvio Berlusconi era partito con l’idea di snellire lo Stato, ma strada facendo non solo se n’è dimenticato, ma ha dato il suo valido contributo all’aumento della spesa pubblica, tanto che negli ultimi anni il problema Fisco è pressoché sparito dalla sua agenda, per ricomparire a intermittenza e senza convinzione in situazioni particolari.

Beppe Grillo aveva esordito con unprogramma radicale di rinnovamento, lasciando in sospeso il tema delle tasse. Della serie: via chi comanda da 20 anni, ma i balzelli possono restare. Ma ai cittadini sta a cuore più il rinnovamento delle politiche che il ricambio dei politici. Di qui l’inizio della discesa anche per il movimento pentastellato.

Rimane Matteo Salvini, forse il vero vincitore del minitest emiliano. Salvini ha realizzato il miracolo, grazie alla memoria corta degli italiani. Non solo è riuscito a oscurare le bravate di Umberto Bossi e relativo cerchio magico di famigli, ma è riuscito innanzitutto a far dimenticare le responsabilità della Lega nella sbornia per il federalismo. Il che aveva portato alla Riforma (2001) del Titolo Quinto della Costituzione: una babele di competenze e di sovrapposizioni fra Stato e Regioni che ha innalzato vieppiù il vulcano del debito pubblico.

Qui la tragedia e la farsa si rincorrono senza fermarsi mai. Giuseppe De Tomaso, La Gazzetta del Mezzogiorno, 25 novembre 2014

……L’analisi di De Tomaso, direttore ed editorialisata della Gazzetta del Mezzogiorno, esposta in maniera sempilce, senza infingimenti sociologici, rispecchia la realtà. La gente che non è andata a votare e ancor meno lo farà nel futuro protesta non contro la politica ma contro gli sprechi e gli sperperi, contro l’affondo inaccettabile della tassazione ormai fuori misura che si abbatte sui cittadini con una violenza alla sceriffo di Nottingham e per di più, come è accaduto di recente nel nostro paesello, accompagnata da insofferenza e acredine da parte dei tassatori perchè ora “comandano loro”. Stupida affermazione, quanto chi la pronuncia che non si rende conto nella sua “piccolezza” di ancor più surriscaldare gli animi e provocare la reazione della gente stanca, sfiduciata e arrabbiata, sopratutto arrabbiata. g.

TANTE SPERANZE (QUASI) TRADITE, di Ernesto Galli della Loggia

Pubblicato il 20 novembre, 2014 in Costume, Politica | Nessun commento »

Jobs act, legge di Stabilità, Italicum, illazioni sul Quirinale, e poi tutto il resto che ogni giorno ammannisce la politica italiana, fatta di progetti di legge discussi per anni, di sentenze del Tar, di pronunce del Csm, di dibattiti tra i partiti più o meno sempre eguali. Ma non è solo la politica italiana. È questa in genere la politica democratica: fatta di riti un po’ stucchevoli, di discussioni pompose che preludono di regola a compromessi al ribasso realizzati da figure perlopiù mediocri. E infatti finora è stata più o meno quasi sempre questa la politica anche negli altri Paesi d’Europa: in quell’Europa dove, non a caso, siede oggi alla testa dell’Unione un grigio politicante lussemburghese come Jean-Claude Juncker, abile a restare per decenni al potere tra servizi segreti ed evasori fiscali.

Ma almeno nel nostro continente, e qui da noi in modo particolare, tutto l’universo storico in cui questa politica delle democrazie – grigia e costosa, ma per molto tempo efficace – è stata iscritta, scricchiola. Il mito della continua crescita economica non è più che un mito; il lavoro sta cessando di avere un valore coesivo tra individui e strati sociali: aumenta sempre più il divario tra chi ha e chi non ha, così come la differenza tra i destini dei singoli o tra ciò che significa vivere in un luogo o in un altro, mentre la secolarizzazione aggredisce alla radice l’intero mondo valoriale e simbolico dei tradizionali rapporti tra gli individui (dalla parentela alla genitorialità). In tutta Europa, insomma, si profila una crisi profonda dai contorni ancora imprecisi ma di sicuro inquietanti. Improvvisamente la democrazia si è trovata davanti un ospite inatteso: la povertà in crescita. Mentre masse sempre più ampie appaiono ideologicamente allo sbando, mentre si afferma dovunque e ad ogni occasione un rabbioso sentimento di rivolta contro le élites .

L’Italia vede tutti questi fenomeni aggravati dalla congenita inconsistenza, non solo organizzativa, del nostro Stato – mangiato dal partitismo, dalle corporazioni, dall’ordinamento regionale e dalla malavita, spesso uniti in un unico intreccio – corroso dalla sostanziale latitanza della legge. La disintegrazione ormai fisica della Penisola a cui assistiamo in queste ore appare quasi il segno di una metafora e insieme di un presagio. Naturalmente di fronte a tutto ciò c’è chi pensa che ogni cosa finirà comunque per aggiustarsi (anche se non si sa come). Ma forse è più ragionevole chiedersi se l’Europa che abbiamo conosciuto non sia ormai entrata nella prospettiva di una vera e propria nuova fase storica, segnata tra l’altro dai terremoti che dal Medio Oriente all’Europa sud orientale, all’Africa subsahariana, stanno sconvolgendo tutti gli scenari nelle nostre vicinanze. Una nuova fase storica che per la democrazia ha il valore di una sfida. Se non vorrà essere travolta, infatti, essa dovrà trovare la forza e la capacità di rinnovarsi profondamente. Di uscire dalla normale amministrazione, dalle pratiche e dalle procedure collaudate, da molte delle sue idee consuete; dovrà probabilmente mettere in discussione i preconcetti dei quali si è fin qui nutrita e sottrarsi alla deriva esasperatamente « discutidora » che l’insidia in permanenza; dovrà andare oltre l’orizzonte cautamente «mediano» che finora è stato perlopiù il suo. Sarà obbligata, in altre parole, a fare la cosa forse per lei più difficile: e cioè passare dalla «politica» al «politico». Vale a dire mettere da parte una prassi orientata alla «via di mezzo», al «c’è sempre qualcosa per tutti», e viceversa provare a pensare la realtà in modo inedito e radicale (che vada alla radice delle cose), organizzando in tal senso anche il meccanismo delle decisioni: senza vietarsi ad esempio di immaginare pure regole e istituti nuovi.

Alla fine, riscoprire il «politico» dovrebbe voler dire per la democrazia innanzi tutto questo: riscoprire e riformulare il concetto di sovranità, e con esso la necessità creativa imposta periodicamente dalla vicenda storica. La sfida che essa dovrà affrontare in futuro consisterà probabilmente nel restare se stessa, con i suoi principi costitutivi – il consenso, le libertà individuali e il «governo per il popolo» – ma avere il coraggio di osare, di uscire dalle forme del suo stesso passato, di trovarsi vesti nuove, un nuovo soffio ispiratore.

I leader democratici, quando sono veri leader, servono per l’appunto a una tale opera di rifondazione. E io credo che proprio in quest’ottica molti italiani, con maggiore o minore consapevolezza, hanno guardato a Matteo Renzi. L’impressione, però, è che il presidente del Consiglio non sia riuscito finora a compiere lo scatto necessario per andare nella direzione auspicata. Che egli, ad esempio, fatichi molto a mettersi al di sopra della baruffa quotidiana dei tweet, delle dichiarazioni, delle schermaglie; che neppure per un giorno riesca a sottrarsi all’attrazione fatale del triangolo romano delle Bermuda (Parlamento – Palazzo Chigi – largo del Nazareno) e al gorgo del chiacchiericcio politicistico che vi staziona. La sua eloquenza – scoppiettante quando si trattava di mettere nell’angolo gli avversari da «rottamare» – non si è mostrata finora capace di trovare i toni di drammatica verità e di serietà che sarebbero necessari a indicare davvero un nuovo cammino al Paese; e quindi di trasmettergli quella scossa anche emotiva senza la quale esso non potrà mai rimettersi in piedi. L’ispirazione che anima Renzi è volata finora troppo bassa, ha avuto una voce troppo tenue, per dare vita ad una visione del destino della nazione e della società italiana che preluda davvero alla loro rinascita entro una rinnovata forma democratica. Almeno finora è andata così. Intanto però il tempo passa. Pian piano le grandi speranze si consumano. E tra poco, inevitabilmente, esse si sentiranno tradite: per un uomo politico non c’è quasi nulla di peggio. Ernesto Galli della Loggia, Il Corriere della Sera, 20 novembre 2014

INONDAZIONI, FRANE, ALLUVIONI: UN PIANO SPECIALE PER RICOMINCIARE, di Gian Antonio Stella

Pubblicato il 16 novembre, 2014 in Cronaca, Politica | Nessun commento »

Il disastro dovuto al maltempo era già tutto scritto. Lo scrisse Indro Montanelli, raccontando la cecità con cui stavano seppellendo la Liguria sotto il calcestruzzo.di Gian Antonio Stella

Polizia, vigili del fuoco e volontari al lavoro nell’area dove, a causa degli allagamenti, si è verificato il parziale crollo di una casa, nel ponente di Genova, in via delle Fabbriche, a Voltri (Ansa/Zennaro)

«Meno sentimentalismo sterile e più cemento!». Così urlavano gli incoscienti che mezzo secolo fa accolsero un gruppo di studiosi scesi a Montemarcello per opporsi alla lottizzazione degli stupendi declivi. Lo scrisse Indro Montanelli, raccontando furente la cecità con cui stavano seppellendo la Liguria sotto il calcestruzzo. E condannandola ai rischi di oggi. Toglie il fiato rileggere, nel ribollio di notizie su nuove esondazioni e nuove frane e nuovi lutti e nuovi incubi, i reportage dei grandi cronisti che allora descrissero inorriditi lo scempio di quella terra flagellata oggi dal maltempo e dallo strascico di errori antichi. Stanno venendo al pettine nodi lasciati per decenni irrisolti. Sul fronte economico e sindacale. Sul fronte delle periferie, bruttissime e progettate, per dirla con Antonio Cederna, come «case-canili». Sul fronte dell’ambiente dato che, come scrisse il nobiluomo modenese Luigi F. Valdrighi, «la barbarie è sgoverno permanente e, fra le caratteristiche degli sgoverni sono anche le inondazioni».

Per troppo tempo il nostro Paese, nel rapporto con la natura, è stato «sgovernato». Ignorando quanto già avvertiva Leonardo da Vinci: «L’acqua disfa li monti e riempie le valli, e vorrebbe ridurre la terra in perfetta sfericità, s’ella potessi». Dando la colpa delle alluvioni alla malasorte o addirittura alle streghe, come nel 1493 quando i mantovani bruciarono viva una poveretta accusata di una piena del Po. Scacciando come mosche fastidiose i ricordi delle tragedie che dovevano essere di monito. Pretendendo di imprigionare le acque come a Messina dove i 52 torrenti del territorio comunale sono stati per la metà intubati. E tagliando via via i fondi per il rischio idrogeologico. Ridotti l’anno scorso a 30 milioni di miserabili euro. Briciole.

È da qui che bisogna ripartire. Dobbiamo tornare a governare la nostra terra. Proprio perché è bellissima e fragile. Perché è unica al mondo. Perché riparare i suoi guasti con un grande progetto e grandi investimenti potrebbe essere l’occasione per sfilarci dal collo il nodo scorsoio della crisi. Come potrebbe l’Europa sbatterci i suoi No in faccia su un tema come questo? Per essere credibili in questa svolta e in questa pretesa che anche i Paesi europei più diffidenti ci assecondino in uno sforzo che sarebbe immane, però, dobbiamo essere consapevoli fino in fondo delle responsabilità che abbiamo. E degli errori, qua e là irrimediabili, purtroppo, che abbiamo commesso ai danni di un patrimonio universale. Non basta vantarci di avere più siti Unesco di tutti: abbiamo l’obbligo di meritarceli. E se dal nostro passato migliore abbiamo l’opportunità di trarre la forza per ripartire, dal passato peggiore dobbiamo assolutamente ricavare la lezione per non ripetere sempre gli stessi, maledetti, criminali errori. Basti rileggere un passaggio del libro La colata di Sansa, Garibaldi, Massari, Preve e Salvaggiulo dove si racconta ad esempio di come una notte, a Sanremo, «una zona di 72 ettari che era stata classificata come “frana attiva” da Alfonso Bellini, uno dei geologi più noti d’Italia, con un tratto di colore diventa edificabile» con un voto quasi all’unanimità nonostante tutti avessero ancora «negli occhi le immagini di via Goethe, a due passi dal municipio, trasformata dalle piogge in un fiume di fango e pietre». Restò indimenticabile, allora, il commento dell’udc Luigi Patrone: «Io voto sì, ma da quelle parti i bambini non ce li porto a giocare».

Era già tutto scritto. Tutto. Fin dagli Anni 60, quando Giorgio Bocca coniò espressioni quali «Lambrate sul Tigullio» e Leonardo Vergani narrò di come «arrivati a Rapallo sull’onda di un nome una volta famoso, un nome quasi mitico negli inverni padani, i milanesi con un conticino in banca» avevano «dato la scalata al mutuo, fatto economie, firmato rogiti lasciandosi allegramente spolpare pur di diventare proprietari del loro fazzoletto piastrellato, scala B interno 14». Una corsa pazza. E «i pentimenti, al punto in cui siamo, sono liquidi come le lacrime dei coccodrilli». «Su oltre 8.000 chilometri di coste», denunciava nel ‘66 Antonio Cederna, «più della metà sono da considerarsi perduti in quanto ridotti ad agglomerati lineari semi urbani, squallidi e ininterrotti, che riproducono sulla riva del mare gli aspetti peggiori delle concentrazioni cittadine, stroncano ogni continuità fra mare e risorse naturali dell’entroterra, e distruggono praticamente la stessa potenzialità turistica delle zone investite».

Il caso limite, spiegava, era proprio la Riviera ligure, «dove località già famose per i loro parchi e giardini sono ridotte ad avere venti centimetri quadrati di verde per abitante “estivo”, e dove l’indice di affollamento supera d’estate quello del centro di Londra. Nella Riviera di Ponente, su 175 chilometri di costa restano soltanto 900 metri di spiaggia libera». Certo, la Liguria veniva soprattutto nell’entroterra da secoli di miseria, fame, emigrazione. Basti ricordare i «birbanti» che partivano dalle montagne alle spalle di Chiavari per guadagnarsi la «birba», cioè il tozzo di pane, quotidiana. Il turismo, lo sviluppo, il boom furono accolti come una manna sulla quale non bisognava fare gli schizzinosi.

Egisto Corradi, scandalizzato dalla costruzione a Rapallo di «diecimila vani all’anno» fino a farne in certe parti «una periferia di grande città» e dalle masse esagerate di turisti ingolfati sulla «spiaggia formato francobollo», raccolse l’ottuso entusiasmo di un rapallese: «Tutto vero, ma è anche vero che a 3.000 lire a testa fanno più di 10 milioni di lire lasciati a Rapallo. Siamo nell’era della produttività e dell’automazione? Se i tempi lo vogliono, Rapallo diventi pure una macchina per villeggiare!». Ma valeva davvero la pena di avventarsi in quel modo ad arraffare ogni occasione di business ? Lasciamo rispondere a Indro Montanelli, che in quel lontano ‘66, decenni prima che esplodessero insieme i torrenti intubati e le contraddizioni, scriveva: «Gli anni del boom passeranno alla storia come quelli della sistematica distruzione dell’ex giardino di Europa, perché i miliardi in mano agl’italiani sono più pericolosi delle bombe atomiche in mano ai bantu. E la prova la fornisce la Liguria dove i miliardi sono affluiti con più alluvionale intensità. Da Bocca di Magra al confine francese, per trecento chilometri, è un bagnasciuga di cemento». E concludeva amaro: «Evidentemente il buon Dio fece il «giardino d’Europa» in un momento d’indulgenza e di abbandono. Poi si accorse della propria parzialità e la corresse mettendoci come giardinieri gl’italiani». Gian Antonio Stella, Il Corriere della Sera, 16 novembre 2014.

…..Renzi, chiacchierone e imbonitore da strapazzo, non si è recato neppure una volta sui luoghi dei disastri nè ha dedicato un briciolo di attenzione alla brutalità degli eventi calamitosi  che stanno abbattendosi su tanta parte dell’Italia del Nord. Insomma non gliene può fregar di meno, solo preoccupato di mettere a punto strategie e strumenti che gli possano consentire di eternarsi un potere comunque sia. Povera Italia, “…..nave senza nocchiere in gran tempesta, non donna di province ma bordello”.  g.

ARGINI INFRANTI DI UNA COMUNITA’, di Ernesto Galli della Loggia

Pubblicato il 11 novembre, 2014 in Politica | Nessun commento »

L’Italia innanzitutto cade a pezzi. Il Paese fisico, il suo territorio, è perennemente sotto una spada di Damocle dall’Alpi alla Sicilia. In qualunque parte della Penisola bastano in pratica 24 ore di pioggia intensa per allagare interi quartieri di città, far chiudere le scuole, far franare tutto ciò che può franare, per interrompere ogni genere di comunicazioni. E regolarmente dopo che da anni ed anni tutti i rischi erano a tutti ben noti; e sempre, o quasi, dopo che i fondi per i lavori necessari erano stati stanziati, e sempre, o quasi, perfino dopo l’esecuzione dei lavori stessi. Ma non c’è niente da fare. Piove, e regolarmente i muraglioni costruiti si sbriciolano, gli argini alzati non tengono, i sistemi fognari saltano, i ponti crollano: il nostro destino è l’esondazione.

L’Italia poi è di chi se la vuol prendere. Chiunque, su un autobus o un treno di pendolari, solo che lo voglia (e lo vogliono in tanti) può non pagare il biglietto, può lordare, rompere, imbrattare con lo spray, intasare i gabinetti, minacciare i passeggeri, aggredire il personale. Per strada può fare dei cassonetti dell’immondizia e di qualunque altro arredo urbano ciò che più gli garba. In ogni caso l’impunità è garantita. E tanto più se si tratta dell’Italia dove vive la parte più debole della popolazione, quella che non prende l’Alta Velocità, che la notte non può permettersi un taxi: se si tratta cioè dell’Italia del Sud e delle periferie. Qui, poi, abitare una casa popolare – come questo giornale ha fatto sapere a tutti – può voler dire spesso essere costretti a stare perennemente barricati perché c’è sempre un prepotente pronto a impadronirsi con la violenza di ciò che non è suo, a intimidire, a minacciare. E quasi sempre senza che a contrastare la violenza ci sia l’intervento risoluto di chi pure avrebbe il dovere di farlo.

L’Italia infine non è più un solo Paese. Sgretolando lo Stato centrale e accaparrandosi le sue funzioni, un demenziale indirizzo politico federalista, al quale hanno aderito tutti i partiti, ha di fatto liquidato l’eguaglianza dei cittadini proclamata dalla Costituzione. Oggi ogni italiano paga tasse diverse, viene curato in modo diverso, gode di servizi pubblici, di mezzi di trasporto, di quantità e qualità diversa, studia in edifici scolastici degni o fatiscenti, a seconda che abiti a Sondrio o a Trapani, che sia un italiano del Sud o del Nord. I modi e i contenuti reali del suo rapporto concreto con la sfera pubblica dipendono in misura pressoché esclusiva solo da dove si è trovato a nascere e a vivere. Mentre di fatto le cricche politiche locali fanno ciò che vogliono, usando a loro piacere le enormi risorse a disposizione: salvo l’intervento necessariamente casuale di questa o quella Procura.
Questo (e molte altre cose, eguali o peggiori) è il Paese reale.

Ed è a partire da esso che va ripensata la crisi italiana. Il cui carattere più intimo e vero non sta nell’economia, che in certo senso ne è solo l’involucro. Sta nel fatto che una parte sempre maggiore di italiani – in modo specialissimo quelli che abitano il Paese reale, per l’appunto – non riesce più a credere di far parte di una comunità retta da regole certe fatte rispettare da un’autorità vera. Non riesce più a credere, cioè, che esista uno Stato.

Le condizioni dell’economia sono certo un fatto grave e importante. Ma molto più grave e importante è che troppi italiani si stanno convincendo dell’immodificabilità di tali condizioni perché le vedono saldarsi ai mille segni di un degrado, di uno sfilacciamento più generali al cui centro c’è un dato nuovo e inquietante: la latitanza dello Stato. Troppi italiani si stanno facendo l’idea che ormai quindi non possono più contare che su se stessi (che nessuno più cercherà il modo di far trovare loro un lavoro, penserà a dar loro una pensione, ad assicurargli con la sicurezza quotidiana, la certezza delle leggi e la sovranità politica). Che nessuno controlla e dirige realmente più niente, che nessuno è davvero al timone del Paese con in mente una rotta, e avendo non solo la visione e la determinazione, ma soprattutto gli strumenti e l’autorità necessari a farsi seguire.
È la sensazione di questo vuoto ciò che oggi nell’Italia delle periferie urbane e della piccola gente, del Mezzogiorno mortificato e incarognito, dei tanti microimprenditori che stentano la vita, nell’Italia del Paese reale, più contribuisce ad esasperare ogni egoismo ma anche a incrinare ogni fiducia. E quindi ad aggravare ulteriormente la stessa crisi economica.

È facile attribuire anche quanto ora ho detto all’universale «crisi della politica» di cui si parla tanto. In realtà c’è qualcosa di più, e di specificamente italiano. Se oggi il Paese reale sente come sente, se avverte sopra di sé una latitanza della sfera pubblica, un vuoto di leggi, di controllo, di Stato, non è perché abbia le traveggole. Ma forse perché esso percepisce che, a partire dagli anni Ottanta, vi è stata in effetti una progressiva secessione dall’Italia delle classi dirigenti un tempo italiane, e di conseguenza il relativo abbandono da parte loro del presidio della statualità. Un virtuale svuotamento di questa.

Vi è stata in quelle élites , una progressiva perdita di identificazione emotiva e culturale, rispetto a quella che fino ad allora era stata la loro patria. Con la conseguente, inevitabile rinuncia a guidarla e a portarne la responsabilità. È stato come un pervasivo moto di abdicazione dal proprio ruolo, le cui cause almeno a me appaiono oscure (percezione di una crescente insicurezza del contesto internazionale? Avidità di guadagni delocalizzando tutto all’estero?), ma del quale restano comunque ben impressi alcuni segnali altamente simbolici: l’europeismo elevato al rango di ideologia ufficiale obbligatoria, la fuga della Fiat dalla Penisola nell’indifferenza generale, l’abbandono a se stesso del sistema dell’istruzione e della comunicazione radio-televisiva.

È questo lo stato di cose di fronte a cui si trova oggi Matteo Renzi: dal quale anche chi non l’ha votato si aspetta comunque fatti e parole nuovi. Ma mi domando se il presidente del Consiglio sappia vedere quel Paese reale che si è detto sopra e se lo sappia vedere nei termini indicati. Se sappia vedere lo sfascio dei suoi territori e delle sue città, capire la sua sensazione di abbandono, la sua percezione di vuoto istituzionale, la sua richiesta di controlli, di autorità, di guida. Dubito che basti dare 80 euro ad una parte di quel Paese per ricostituire l’idea che esista un governo, che esista qualcosa che assomigli a una classe dirigente. Se vuole davvero essere l’uomo della rottura rispetto al passato che ha promesso di essere, Renzi deve andare in mezzo a quel Paese reale, casomai mettendosi le calosce o fermandosi ad aspettare alla fermata di un autobus. Deve parlare ai suoi abitanti faccia a faccia, non da qualche studio televisivo. Magari immaginando anche i gesti concreti con i quali accompagnare le parole.

Egli ha dimostrato finora di sapere interloquire molto bene con l’Italia dei piani alti, e di sapersene accattivare le simpatie. È un’ottima cosa. Non abbiamo certo bisogno di populismi d’accatto che magari si prefiggano di «far piangere i ricchi». Ma un’autentica comunità politico-statale si ricostruisce sempre dal basso, e nell’Italia attuale c’è bisogno precisamente di questo: di ricostruire una tale comunità. Di ridarle un senso di sé e uno scopo che vadano oltre l’oggi, di ridarle il coraggio che sta scemando, di garantirle che ancora esistono una legge e un’autorità. Di dire a noi tutti: «Siamo qui, e anche a costo di sacrifici vogliamo restarci, e restare in piedi!». Di dire le parole – e compiere i gesti – che nei grandi momenti di crisi decidono del futuro di una nazione. Ernesto Galli della Loggia, Il Corriere della Sera, 11 novembre 2014

“ITALIANI VOLTAGABBANA”, IL NUOVO LIBRO DI BRUNO VESPA

Pubblicato il 6 novembre, 2014 in Costume, Politica, Storia | Nessun commento »

ITALIANI VOLTA GABBANA LIBRO DI BRUNO VESPA IL LIBRO DI BRUNO VESPA

Il numero dei voltagabbana tra gli intellettuali alla caduta del regime fu clamoroso. Giuseppe Bottai era il politico più illuminato del fascismo sul piano culturale, ma anche il più feroce sostenitore delle leggi razziali. Ebbene, la sua rivista «Primato» fu pubblicata dal 1940 (quando le leggi razziali avevano già consumato i peggiori misfatti) e chiuse solo con la caduta del regime il 25 luglio 1943.

In quegli anni, Bottai poté contare sulla fervida collaborazione del meglio della cultura italiana: Giorgio Vecchietti (condirettore), Nicola Abbagnano, Mario Alicata, Corrado Alvaro, Cesare Angelini, Giulio Carlo Argan, Riccardo Bacchelli, Piero Bargellini, Arrigo Benedetti, Carlo Betocchi, Romano Bilenchi, Walter Binni, Alessandro Bonsanti, Vitaliano Brancati, Dino Buzzati, Enzo Carli, Emilio Cecchi, Luigi Chiarini, Giovanni Comisso,  Gianfranco Contini, Galvano Della Volpe, Giuseppe Dessì, Enrico Emanuelli, Enrico Falqui, Francesco Flora, Carlo Emilio Gadda, Alfonso Gatto, Mario Luzi, Bruno Migliorini, Paolo Monelli, Eugenio Montale, Carlo Muscetta, Piermaria Pasinetti, Cesare Pavese, Giaime Pintor, Vasco Pratolini, Salvatore Quasimodo, Vittorio G. Rossi, Luigi Russo, Luigi Salvatorelli, Sergio Solmi, Ugo Spirito, Bonaventura Tecchi, Giovanni Titta Rosa,Giuseppe Ungaretti, Nino Valeri, Manara Valgimigli, Giorgio Vigolo, Cesare Zavattini. Musicisti come Luigi Dallapiccola e Gianandrea Gavazzeni. Artisti come Amerigo Bartoli, Domenico Cantatore, Pericle Fazzini, Renato Guttuso, Mino Maccari, Mario Mafai, Camillo Pellizzi, Aligi Sassu, Orfeo Tamburi.

GIUSEPPE UNGARETTI

Una crisi di coscienza colse Giuseppe Ungaretti. Il poeta notò durante il regime che «tutti gli italiani amano e venerano il loro Duce come un fratello maggiore» e si definì «fascista in eterno», firmando documenti e appelli per sostenere il fascismo. Salvo firmarne di uguali e contrari alla fine della guerra come alfiere dell’antifascismo, tanto da meritare una grande accoglienza a Mosca da parte di Nikita Kruscev.

NORBERTO BOBBIO

Norberto Bobbio da studente si era iscritto al Guf, l’organismo universitario fascista, e poi aveva mantenuto la tessera del partito, indispensabile per insegnare. Colpito per frequentazioni non sempre ortodosse da una lieve sanzione che avrebbe potuto comprometterne la carriera, Bobbio cercò ovunque raccomandazioni per emendarsi. Suo padre Luigi si rivolse al Duce, lo zio al quadrumviro De Bono, lo stesso giovane docente a Bottai («con devota fascistica osservanza»). Fu interessato anche Giovanni Gentile, che intervenne con successo presso Mussolini.

Alla fine, Norberto ebbe la cattedra tanto desiderata. Nel dopoguerra, Bobbio diventò un maître à penser della sinistra riformista italiana. Ma il tarlo del passato lo consumò fino a una clamorosa intervista liberatoria rilasciata il 12 novembre 1999 a Pietrangelo Buttafuoco per Il Foglio: «Noi il fascismo l’abbiamo rimosso perché ce ne ver-go-gna-va-mo. Ce ne ver-go-gna-va-mo. Io che ho vissuto la “gioventù fascista” tra gli antifascisti mi vergognavo prima di tutto di fronte al me stesso di dopo, e poi davanti a chi faceva otto anni di prigione, mi vergognavo di fronte a quelli che diversamente da me non se l’erano cavata».

INDRO MONTANELLI

Montanelli non ha fatto mai mistero di essere stato fascista. (Fu, anzi, un fascista entusiasta). «Sono stato fascista, come tutte le persone della mia generazione», ammise nella sua “Stanza” sul Corriere della Sera nel 1996. «Non perdo occasione per ricordarlo, ma neanche di ripetere che non chiedo scusa a nessuno».

Anche nella più sfacciata adulazione del Duce, Montanelli scriveva pezzi di bravura come questo del 1936: «Quando Mussolini ti guarda, non puoi che essere nudo dinanzi a Lui. Ma anche Lui sta, nudo, dinanzi a noi. Il Suo volto e il Suo torso di bronzo sono ribelli ai panneggi e alle bardature. Ansiosi e sofferenti, noi stessi glieli strappiamo di dosso, mirando solo alla inimitabile essenzialità di questo Uomo, che è un vibrare e pulsare formidabilmente umani. Dobbiamo amarlo ma non desiderare di essere le favorite di un harem».

GIORGIO BOCCA

«Quando cominciò il nostro antifascismo? Difficile dirlo…». Dev’essere cominciato tardi, quello di Giorgio Bocca, se è vero quanto egli stesso scrive nel racconto «La sberla… e la bestia» pubblicato l’8 gennaio 1943 su La provincia granda, foglio d’ordini settimanale della federazione fascista di Cuneo. Il 5 gennaio Bocca aveva incontrato in treno sulla linea Cuneo-Torino l’industriale Paolo Berardi, il quale diceva ad alcuni reduci dalla Russia e dalla Francia che la guerra era ormai perduta. Bocca ascoltò, poi gli diede un ceffone e lo denunciò alla polizia per disfattismo.

Due anni prima, sullo stesso settimanale, il giovane giornalista aveva scritto un lungo articolo su I protocolli dei Savi di Sion, che si sarebbero rivelati poi (ma lui, ovviamente, non lo sapeva) il falso più clamoroso della propaganda antisemita. Le prime righe dell’articolo recitano: «Sono i Protocolli dei Savi di Sion un documento dell’Internazionale ebraica contenente i piani attraverso cui il popolo Ebreo intende giungere al dominio del mondo…». E le ultime: «Sarà chiara a tutti, anche se ormai i non convinti sono pochi, la necessità ineluttabile di questa guerra, intesa come una ribellione dell’Europa ariana al tentativo ebraico di porla in stato di schiavitù».

DARIO FO

Dario Fo si arruolò a 18 anni come volontario prima nel battaglione Azzurro di Tradate (contraerea) e poi tra i paracadutisti del battaglione Mazzarini della Repubblica sociale italiana. Il 9 giugno 1977, quando Fo era ormai da anni celebre per il suo lavoro teatrale Mistero buffo, un piccolo giornale di Borgomanero (Novara), Il Nord, pubblicò una lettera di Angelo Fornara che ne raccontava i trascorsi repubblichini. Fo sporse querela con ampia facoltà di prova, ma il processo non ebbe l’esito da lui sperato.

Secondo quanto riferì Il Giorno (8 febbraio 1978), l’attore disse in aula che il suo «arruolamento era una questione di metodi di lotta partigiana» per coprire l’azione antifascista della sua famiglia. Ma le testimonianze furono implacabili. Il suo istruttore tra i parà, Carlo Maria Milani, mise a verbale: «L’allievo paracadutista Dario Fo era con me durante un rastrellamento nella Val Cannobina per la conquista dell’Ossola, il suo compito era di armiere porta bombe».

E l’ex comandante partigiano Giacinto Lazzarini lo inchiodò: «Se Dario Fo si arruolò nei paracadutisti repubblichini per consiglio di un capo partigiano, perché non l’ha detto subito, all’indomani della Liberazione? Perché tenere celato per tanti anni un episodio che va a suo merito?».

Una testimone, Ercolina Milanesi, lo ricorda «tronfio come un gallo per la divisa che portava e ci tacciò di pavidi per non esserci arruolati come lui. L’avremmo fatto, ma avevamo quindici anni…». L’11 marzo 1978, mentre il processo contro gli accusatori di Fo era in pieno svolgimento, Luciano Garibaldi pubblicò sul settimanale Gente una foto dell’attore in divisa della Repubblica sociale (altissimo, magrissimo come è sempre stato) e un suo disegno dove appaiono alcuni camerati con le anime dei partigiani uccisi che escono dalle canne dei mitra («Sono apocrife e aggiunte da altri», si difenderà).

Il 7 marzo 1980 il tribunale di Varese stabilì che «è perfettamente legittimo definire Dario Fo repubblichino e rastrellatore di partigiani». Il futuro premio Nobel non ricorse in appello e la sentenza divenne definitiva.

VITTORIO GORESIO

Vittorio Gorresio, una delle firme più brillanti della sinistra riformista del dopoguerra, scriveva cose impegnative sulla gioventù hitleriana: «Così pregano gli ariani piccoli, ora che, dissipato il fumo del rogo ove furon arsi i venticinquemila volumi infetti di semitismo, l’atmosfera tedesca è più limpida e chiara». E nel 1936 sulla Stampa, il giornale di cui sarebbe diventato negli anni Sessanta la prima firma politica, confessava: «Ringrazio Dio perché ci ha fatto nascere italiani ed è con gli occhi lucidi che si sente nell’animo la gratitudine del Duce».

EUGENIO SCALFARI

Nonostante la giovane età, Scalfari era riuscito a far pubblicare alcuni scritti di Calvino su Roma fascista, era diventato amico di Bottai, che chiamava «il mio Peppino», e fino alla caduta del fascismo sostenne con convinzione l’economia corporativa. Ma va ascritto a suo merito di aver sempre parlato nel dopoguerra di «quaranta milioni di fascisti che scoprirono di essere antifascisti», non nascondendo mai le sue ferme convinzioni giovanili.

ENZO BIAGI

Montanelli collaborò a Primato come Enzo Biagi, che nel dopoguerra non ha negato i suoi trascorsi (scrisse anche per la rivista fascista bolognese Architrave) e la gratitudine per Bottai. Ma i suoi avversari, spulciando negli archivi, hanno scovato altri episodi. Secondo il racconto di Nazario Sauro Onofri in I giornali bolognesi nel ventennio fascista, nel 1941 Biagi, allora ventunenne, recensì il film Süss l’ebreo, formidabile strumento della propaganda antisemita di Himmler, sul foglio della federazione fascista bolognese L’assalto, scrivendo che il pubblico «era trascinato verso l’entusiasmo» e «molta gente apprende che cosa è l’ebraismo e ne capisce i moventi della battaglia che lo combatte».

(Biagi era in buona compagnia, perché sullo stesso giornale, fortemente antisemita, si scatenava anche il giovanissimo Giovanni Spadolini, mentre una lusinghiera recensione allo stesso film fu firmata dal regista Carlo Lizzani). Biagi restò al Resto del Carlino, controllato dai fascisti e ormai anche dai nazisti, fino alla tarda primavera del 1944, ricevendo – come tutta la redazione – generosi sussidi economici dal ministero della Cultura popolare (il Minculpop). Dieci mesi dopo entrava a Bologna con le truppe americane.” Brano tratto  dal libro “Italiani volgabbana” di Bruno Vespa, novembre 2014

………Italiani voltagabbana? Vespa arriva con un pò di ritardo a scoprirlo e documentarlo,  visto che un mezzo secolo addietro  un certo Ennio Flaiano scriveva che gli italiani sono sempre pronti a saltare sul carro dei vincitori e un certo Leo Longanesi scriveva che gli italiani sulla bandiera  sono soliti scrivere  sempre “ho famiglia”. Senza dimenticare Giovanni Guareschi e il suo “Candido” che ad ogni numero non tralasciava occasione per  ricordare i trascorsi “guerreschi” e non solo di tanti prodi voltagabbana; anzi in quegli anni fu edito e distribuito un tascabile che riportava sulla copertina un fez e il titolo”camerata dove sei?, con un lungo elenco di coraggiosi antifascisti che però erano stati altrettanto animosi fascisti durante il ventennio, salvo essere illuminati un minuto diopo la caduta del Duce e del fascismo. Ed anche in Parlamento rimbalzarono le denunce documentate sui salti della quaglia di tanti fascisti folgorati dall’antifascismo. Lo fece un simpatico deputato calabrese, si chiamava Nino Tripodi, che un pomeriggio, provocato dalle solite tiritiere antifasciste, si alzò nella solenne cornice della Camera e sciorinò nomi, cognomi ed imprese di tanti ex camerati divenuti feroci ed ardimentosi mangiafascisti. Tanti  di loro erano presenti in aula ma non fiatarono, così come non hanno fiatato in tempi più recenti i più bei nomi del giornalismo italiano elencati in un lungo elenco trascritto alla fine di un saggio il cui titolo era un programma: I Redenti, ed erano i nomi dei tanti giornalisti, alcuni di quelli appena citati anche da Vespa, che avedndo imparato il mestiere nelle redazioni dei giornali fascisti, da Primato a Il Tevere il cui caporedattore era un certo Giorgio Almirante, erano poi divenuti d’un sol colpo redattori ed inviati speciali dell’Unità.  Quindi  la vocazione trasformistica degli italiani è antica,   che si ripete  non solo ai cambi di regime, ma ora anche, in pieno sistema democratico-parlamentare,  ai cambi del capo del governo. g.

TASSE RETROATTIVA COSTANTE VIZIO DEI GOVERNI

Pubblicato il 23 ottobre, 2014 in Economia, Politica | Nessun commento »

di Massimo Fracaro e Nicola Saldutti

Il tempo, per il Fisco, assomiglia a una sorta di variabile indipendente. E il calendario, a pensarci bene, può persino girare al contrario. Dicembre, novembre, ottobre, settembre.

Accade spesso, anzi troppo spesso che, per esigenze di bilancio, si decida di spostare all’indietro le lancette dell’orologio. E introdurre così aumenti delle tasse con effetto retroattivo. Un vizio comune a tutti i governi degli ultimi anni e che ha contagiato lo stesso Parlamento. Un giochetto (di prestigio) che consente, in pratica, di concedere sgravi a qualche contribuente, penalizzandone, però, altri. O di tappare, per questa via, improvvise falle nei conti pubblici.

L’ultimo esempio è quello dell’Irap, l’imposta regionale sulle attività produttive. Nella legge di Stabilità è appena stato deciso di alleggerirla per chi farà nuove assunzioni, soprattutto con contratti a tempo indeterminato, con una riduzione dell’aliquota dal 3,9 al 3,5%. Peccato che ci sia l’altro lato della medaglia: per tutti gli altri imprenditori, che non assumeranno, non perché sono cattivi ma perché non possono, l’imposta torna al livello precedente, al 3,9%. Da quando? Non dall’entrata in vigore della legge di Stabilità fissata per gennaio 2015 — dopo, probabilmente un estenuante dibattito parlamentare e la stesura di un maxi emendamento —, ma da gennaio scorso. Sì, da gennaio 2014, con dodici mesi d’anticipo.

Si dirà che anche i vantaggi sono retroattivi, ma in questo caso, come accade con il Codice penale, la norma dovrebbe essere favorevole al reo (in questo caso il cittadino-imprenditore). Retroattivi, ad esempio, sono stati i tagli ad alcune detrazioni fiscali (polizze vita). Come gli aumenti delle addizionali locali del 2011. Retroattivo rischia di essere anche l’incremento dall’11,5% al 20% del prelievo annuo sui rendimenti dei fondi pensione. E, quando non si aumentano le tasse, si cambiano le regole del gioco. A vantaggio dell’Erario, ovviamente. Si calcola che, solo nel biennio 2011 e 2013 siano state approvate imposte retroattive per un valore di circa 5,5 miliardi.

Viene quindi da chiedersi quale validità abbia ancora lo Statuto del contribuente, varato nel 2000 e presentato come il provvedimento che avrebbe reso più equilibrato e corretto il rapporto tra il Fisco (lo Stato) e i cittadini.

Lo Statuto, articolo 3, stabilisce che «le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo. Relativamente ai tributi periodici le modifiche introdotte si applicano solo a partire dal periodo d’imposta successivo». Ma questa norma viene spesso bypassata spiegando che si tratta di un’eccezione.

Secondo lo Statuto, le leggi che trattano un argomento diverso da quello tributario non possono intervenire in materia fiscale, se non per la parte di stretta pertinenza. E invece le tasse si moltiplicano proprio là dove non dovrebbero esserci e dove nessuno se le aspetta. Un esempio? Il taglio alla deducibilità dei costi delle auto aziendali introdotto per finanziare la legge Fornero sulla riforma del mercato del lavoro.

All’articolo 4 si stabilisce che non si può disporre con decreto-legge l’istituzione di nuovi tributi né prevedere l’applicazione di tributi esistenti ad altre categorie di soggetti. Mentre molte imposte sono state introdotte proprio con decreto legge. Perché? Siamo in emergenza.

E così, di eccezione in eccezione, lo Statuto del contribuente è stato violato innumerevoli volte dal legislatore. Almeno qualche centinaio di volte. E non solo sulla retroattività. Uno statuto con i buchi, insomma. Un provvedimento che fa ancora la sua bella figura nella vetrina del Fisco made in Italy. Ma dagli effetti pratici quasi nulli. La trasformazione da sudditi a cittadini, che doveva avvenire proprio grazie allo Statuto, non è stata ancora completata. E sono già passati 14 anni. Il Corriere della Sera, 23 ottobre 2014

……e il governo Renzi, al di là degli annunci roboanti sul taglio delle tasse, è in perfetta continuità con i precedenti in materia di imbrogli fiscali.

IL MAL DI TESTA DEI PARTITI, di Michele Ainis

Pubblicato il 9 ottobre, 2014 in Politica | Nessun commento »

I partiti agonizzano, i sindacati rantolano e neanche gli italiani stanno troppo bene. Ci attende un futuro orfano di queste grandi organizzazioni? A leggere i numeri, il futuro è già iniziato. Il Pd in un anno ha perso l’80% dei suoi iscritti: ora sono 100 mila, quando il partito di Alfano ne dichiara 120 mila. Ammesso che sia vero, dato che alle Europee l’Ncd in Campania ha ottenuto meno voti che iscritti. Ma pure la metà basterebbe a rendere felice Forza Italia, che fin qui ha racimolato la miseria di 8 mila iscrizioni.

Sulla carta, va meglio ai sindacati: 12 milioni e 300 mila tessere. Non senza dubbi, anche in questo caso: nel 2012 la Confsal ha denunziato almeno 3 milioni d’iscritti fantasma. E in ogni caso con un’emorragia nel settore privato (un milione d’associati in meno fra il 1986 e il 2008) e una flessione anche fra i dipendenti pubblici (dal 10% al 16% nella sanità, nelle Regioni, nei ministeri). A turare la falla, soccorrono immigrati e pensionati. Non i giovani, che se ne tengono a distanza. Sicché pure in Italia sta per risuonare l’annuncio della Thatcher: nel 1987 disse che il numero degli azionisti aveva superato quello degli iscritti al sindacato. Del resto è un’onda che viene da lontano. Nel 1990 la Dc sommava 2.109.670 iscritti; otto anni dopo il Ppi ne aveva 197 mila. E l’onda bagna tutto il globo. Dagli anni Ottanta la militanza nei partiti è calata del 64% in Francia, del 50% negli Usa, del 47% in Norvegia. Insomma il problema non è Renzi, non è lui che ha ucciso il Novecento. Il problema è che in Italia mancano soluzioni di ricambio, rispetto alla crisi dei Parlamenti che s’accompagna alla crisi dei partiti. Obama non ha dietro di sé un partito strutturato; però gli americani hanno a disposizione i referendum (174 durante le ultime presidenziali), le esperienze di democrazia deliberativa, il recall (che consente la revoca degli eletti). E noi, come ci attrezziamo per questa nuova democrazia senza sindacati né partiti?

Quanto ai sindacati, difettano di strumenti alternativi. Lo Statuto dei lavoratori sarà vecchio, ma si discute dell’articolo 18, non di coinvolgere i lavoratori nella gestione delle imprese. Quanto alle segreterie politiche, fanno un po’ come gli pare, dato che manca una legge sui partiti. Come manca sulle consultazioni pubbliche, di cui gli ultimi governi abusano fingendo d’ascoltare i cittadini. In compenso la riforma costituzionale menziona il referendum propositivo, accanto a quello abrogativo. Quest’ultimo fu attuato con 22 anni di ritardo; speriamo di non rinnovare l’esperienza. Perché una cosa è certa, nel nostro incerto quotidiano: la crisi dei partiti ha aperto un vuoto. Per non farci risucchiare, dobbiamo restituire lo scettro ai cittadini. Michele Ainis, Il Corriere della Sera, 9 ottobre 2014

LE DANNOSE PIGRIZIE DEL CENTRODESTRA, di Giovanni Belardelli

Pubblicato il 6 ottobre, 2014 in Il territorio, Politica | Nessun commento »

Le polemiche costanti entro Forza Italia e tra questa e l’Ncd sono solo l’aspetto più appariscente e superficiale della grave crisi in cui si trova ormai il centrodestra di matrice berlusconiana: una crisi testimoniata sia dalla crescita dei consensi che i sondaggi attribuiscono alla Lega e a Fratelli d’Italia, sia – e soprattutto – dal fatto che l’intero centrodestra non pare in grado di andare oltre Berlusconi. Il leader di FI resta infatti una «risorsa» irrinunciabile dal punto di vista dei consensi elettorali (benché regolarmente calanti) e al contempo un ostacolo insormontabile per qualunque rinnovamento della leadership.

Ma dietro le polemiche contingenti – che si tratti dello scontro tra Fitto e Berlusconi o dell’attacco di Alfano a chi vorrebbe sottrargli senatori – sta soprattutto l’esaurirsi della ragione principale e sistemica che per vent’anni aveva reso possibile a Berlusconi e al centrodestra di collocarsi al centro della politica italiana. Dopo aver proposto nel ‘94, e poi nella pratica rapidamente archiviato, la «rivoluzione liberale» a base di meno tasse e minor presenza dello Stato nella vita dei cittadini, Berlusconi doveva approdare a un partito e a una coalizione di tipo moderato, in cui confluiva anche una parte del personale politico della Prima Repubblica. Si trattava di un moderatismo mai ben definito, che sul piano culturale e ideale non andava molto oltre il richiamo alle posizioni della Chiesa su temi cosiddetti «eticamente sensibili». Peraltro il carattere intrinsecamente individualistico-acquisitivo del messaggio berlusconiano (nonché lo stesso stile di vita del fondatore di Forza Italia) rendevano mai del tutto credibile quel richiamo.

Ma l’indeterminatezza e la contraddittorietà della fisionomia e dei contenuti politici di un centrodestra sempre oscillante tra appello ai moderati e riproposizione della «rivoluzione liberale» delle origini non hanno per nulla ostacolato i ripetuti successi elettorali che tutti ricordano. Il fatto è che quei successi si fondavano su due fattori che prescindevano dagli effettivi programmi politici delle coalizioni di centrodestra. Il primo aveva a che fare con la figura stessa di Berlusconi, che si era presentato nel ‘94 come «uomo nuovo» per antonomasia, imprenditore di successo estraneo ai limiti della vecchia classe politica, capace proprio per questo di una proposta, del tutto nuova per l’Italia, fondata sul rapporto diretto tra il leader e gli elettori.

Come è evidente, l’immagine del ‘94 del dinamico leader «antipolitico» è da tempo diventata improponibile: perché, al di là delle vicende giudiziarie che lo hanno colpito, Berlusconi ha ben vent’anni di attività politica alle spalle e perché, come leader «anticasta», Renzi e Grillo sono più credibili di lui (che oltretutto – anche questo inevitabilmente conta – è vicino agli ottant’anni). S oprattutto, però, è venuto meno l’altro decisivo fattore che stava dietro i successi del centrodestra: il fatto di rappresentare in primo luogo l’antisinistra. Nonostante le molte e ripetute delusioni, prima fra tutte la mancata riduzione del peso delle imposte, milioni di italiani hanno continuato per anni a votare FI o PdL soprattutto per evitare una vittoria della sinistra. Per vent’anni, insomma, il centrodestra ha pigramente goduto di una rendita di posizione e ha potuto limitarsi a sfruttare il carisma di Berlusconi, senza curarsi di definire una fisionomia e una proposta politica per quando il fondatore di FI fosse uscito di scena.

Con la comparsa di Renzi, leader del principale partito della sinistra che però attacca frontalmente la Cgil e dichiara che gli imprenditori debbono poter licenziare, la rendita di cui il centrodestra berlusconiano ha vissuto per tanti anni è scomparsa e con essa qualunque prospettiva politica che non sia di sostanziale subalternità al Pd, stando dentro oppure fuori dell’esecutivo. E certo non sarà con trouvailles come la prossima presentazione, da parte di FI, di cento giovani sotto i 35 anni che le cose potranno cambiare. Giovanni Belardelli, Il Corriere della Sera, 6 ottobre 2014

…..Sul tema, per chi voglia approfondirlo, si consiglia di leggere il saggio di Stenio Solinas, Gli ultimi Mohicani, pubblicato  un anno fa ma assolutamente attuale.  Solinas, intellettuale di destra a tutto tondo, uno dei pochi e sempre fortunatamente fuori dai partiti, nel saggio che emblematicamente  ha come sottotitolo   “Quel che resta della politica” traccia una analisi sullo stato della politica in Italia, dei partiti e in particolare,   a proposito del centrodestra,  l’analisi della crisi che l’investe ormai da anni e che ne sta decretando un ruolo sempre più marginale in un Paese che di centrodestra è sempre stato, spazia a 360 gradi, non limitandosi però a prenderne  solo atto ma indicando anche i possibii correttivi. Ma alla luce degli ultimi avvenimenti che come spesso accade nella politica trasformano le tragedie in farse,  non sembra che l’analisi e sopratutto la terapia di Solinas abbiano trovato cittadinanza lì dove si pretende di rappresentare in maniera totalitaria le ragioni e sopratutto gli interessi del centro destra. Buona lettura. g.

STATO-MAFIA: UN RETROGUSTO AMARO, di Michele Ainis

Pubblicato il 26 settembre, 2014 in Giustizia, Politica | Nessun commento »

C i hanno messo un anno (meglio tardi che mai),però alla fine i giudici di Palermo hanno sciolto la riserva: Napolitano sarà testimone coatto al processo sulla trattativa Stato-mafia. Anzi non coatto, volontario; e non è un dettaglio da poco. Perché il Codice di procedura penale (articolo 205) distingue la posizione del capo dello Stato da quella degli altri vertici delle nostre istituzioni.

Il presidente della Consulta o il premier, come d’altronde i due presidenti delle Camere, se rifiutano di deporre in un processo subiscono l’accompagnamento coattivo; lui no, il codice di rito lo esclude espressamente. Dunque la sua testimonianza è sempre spontanea, non obbligatoria. Ma evidentemente la Corte d’assise di Palermo non si cura dei dettagli. Non se ne cura nemmeno il presidente, dal momento che si è subito dichiarato disponibile. Potremmo rallegrarcene: dopotutto stiamo celebrando il trionfo del principio d’eguaglianza, con il primo cittadino trattato come tutti gli altri cittadini.

Ma invece no, c’è un retrogusto amaro in quest’ultima vicenda. C’è il sospetto che la ricerca della verità sia diventata ormai un pretesto, peraltro espresso nel peggior giuridichese. Nella sua lettera del 31 ottobre scorso, Napolitano aveva già messo nero su bianco ciò che aveva da dire; ma adesso i giudici vogliono ascoltarlo per acquisire quel «contenuto dichiarativo negativo», magari con l’aiuto d’un interprete. Come a dire che la sua testimonianza scritta ai loro occhi suona reticente, sicché vogliono sottoporla alla prova dell’orecchio. Non che la verità non ci stia a cuore.

Ne avremmo fame e sete, sulla strage di piazza Fontana, su quella di Bologna, su Ustica, sul delitto Moro, sulle troppe pagine stracciate della nostra storia nazionale. La magistratura italiana fin qui non ci ha saziato, però meglio il digiuno che un’abbuffata di bugie. E meglio l’apatia che una guerra permanente fra poteri pubblici e privati, se ciascuno usa la propria competenza per affermare la propria potenza. Succede spesso, ora impiegando lo schermo dell’art. 18 per regolare i conti con i sindacati, ora sventolando la privacy per ridurre al silenzio i giornalisti, ora con l’abuso dei decreti e dei voti di fiducia per addomesticare il Parlamento. Ma in Italia la vera rivoluzione sarebbe questa: che ciascuno torni a fare il suo mestiere, senza impadronirsi di quello altrui . Michele Ainis, Il Corriere della Sera, 26 settembre 2014

……..Retrogusto amaro condiviso, non tanto per la persona quanto per la figura del Capo dello Stato della cui parola scritta si dubita, quasi fosse un qualsiasi “azzeccagarbugli”.

ART.18: IL LUOGO DEL DELITTO, di Antonio Polito

Pubblicato il 25 settembre, 2014 in Politica | Nessun commento »

Da molto tempo la sinistra italiana non contava così tanto. Dipende infatti dallo scontro che si sta consumando al suo interno, a metà tra uno psicodramma e un regolamento di conti, la credibilità del percorso di riforme promesso dall’Italia all’Europa. In una tragica coazione a ripetersi, è dunque tornata sul luogo del delitto: metaforicamente, perché l’articolo 18 la dilania da più di un decennio; ma anche letteralmente perché, è meglio non dimenticarlo, le ultime vittime delle Brigate Rosse sono stati due giuslavoristi di sinistra, ammazzati per aver osato discutere lo Statuto dei lavoratori.

Di questa lotta il Pd è l’arena. Forse anche perché ormai è l’unico partito, o il partito unico, rimasto sulla scena (gli altri fanno la figura delle correnti interne, con Berlusconi che si offre a Renzi e Grillo a Bersani). Come accadde nel New Labour di Blair, quando l’anacronistica «clausola 4» dello Statuto fu il pretesto per la resa dei conti tra il nuovo leader e la vecchia guardia; così ora un residuo del passato come l’«articolo 18» è diventato la prova del fuoco per Renzi.

In realtà il nostro mercato del lavoro è ingiusto, inefficiente, balcanizzato. È da quel dì che va riformato. Forse è perfino troppo tardi. Ha dunque ragione il premier a volerlo fare. Ed è davvero inimmaginabile che lo si possa fare lasciando in piedi l’articolo 18. Purtroppo però la discussione non è stata messa sui binari giusti, in ossequio alla moda del momento che preferisce l’annuncio all’esito. Intanto si litiga intorno a una delega di cui non si conosce ancora il contenuto. Non lo conosce neanche il ministro del Lavoro Poletti: interrogato in materia, ha risposto di chiedere a Renzi. Lo scambio diritti-ammortizzatori che dovrebbe risarcire i futuri occupati viene presentato con troppa superficialità: il ministro Madia assicurava ieri che «tutti avranno quello che avevano o di più». Siccome si tratta di molti soldi, è lecito sospettare che finisca come con il contratto degli statali, prima promesso e poi sparito. Né aiuta il fatto che lo stesso Renzi appena qualche mese fa, nella campagna per le primarie, abbia più volte affermato che dell’«articolo 18 non frega niente a nessuno», illudendo gli iscritti al Pd di poter evitare anche stavolta il problema, e privandosi così di un mandato chiaro.

Di doppiezze è piena la storia della sinistra italiana. Basti pensare a quegli esponenti della minoranza del Pd che nemmeno due anni fa hanno votato il pareggio di bilancio in Costituzione e ora si mobilitano per abrogarlo. Ma stavolta a Renzi non basta la prova di forza come ha fatto col Senato, magari con un voto di fiducia o addirittura con un soccorso azzurro. Stavolta deve vincere e convincere la sua parte, per non uscirne azzoppato. Come avrebbe detto Togliatti, uno che di doppiezza se ne intendeva, «hic Rhodus hic salta». Antonio Polito, Il Corriere della Sera, 25 settembre 2014