IL NEMICO ALLO SPECCHIO, di Ferruccio De Bortoli

Pubblicato il 24 settembre, 2014 in Politica | Nessun commento »

Devo essere sincero: Renzi non mi convince. Non tanto per le idee e il coraggio: apprezzabili, specie in materia di lavoro. Quanto per come gestisce il potere. Se vorrà veramente cambiare verso a questo Paese dovrà guardarsi dal più temibile dei suoi nemici: se stesso. Una personalità egocentrica è irrinunciabile per un leader. Quella del presidente del Consiglio è ipertrofica. Ora, avendo un uomo solo al comando del Paese (e del principale partito), senza veri rivali, la cosa non è irrilevante.

Renzi ha energia leonina, tuttavia non può pensare di far tutto da solo. La sua squadra di governo è in qualche caso di una debolezza disarmante. Si faranno, si dice. Il sospetto diffuso è che alcuni ministri siano stati scelti per non far ombra al premier. La competenza appare un criterio secondario. L’esperienza un intralcio, non una necessità. Persino il ruolo del ministro dell’Economia, l’ottimo Padoan, è svilito dai troppi consulenti di Palazzo Chigi. Il dissenso (Delrio?) è guardato con sospetto. L’irruenza può essere una virtù, scuote la palude, ma non sempre è preferibile alla saggezza negoziale. La muscolarità tradisce a volte la debolezza delle idee, la superficialità degli slogan. Un profluvio di tweet non annulla la fatica di scrivere un buon decreto. Circondarsi di forze giovanili è un grande merito. Lo è meno se la fedeltà (diversa dalla lealtà) fa premio sulla preparazione, sulla conoscenza dei dossier. E se addirittura a prevalere è la toscanità, il dubbio è fondato.

L’oratoria del premier è straordinaria, nondimeno il fascino che emana stinge facilmente nel fastidio se la comunicazione, pur brillante, è fine a se stessa. Il marketing della politica se è sostanza è utile, se è solo cosmesi è dannoso. In Europa, meno inclini di noi a scambiare la simpatia e la parlantina per strumenti di governo, se ne sono già accorti. Le controfigure renziane abbondano anche nella nuova segreteria del Pd, quasi un partito personale, simile a quello del suo antico rivale, l’ex Cavaliere. E qui sorge l’interrogativo più spinoso. Il patto del Nazareno finirà per eleggere anche il nuovo presidente della Repubblica, forse a inizio 2015. Sarebbe opportuno conoscerne tutti i reali contenuti. Liberandolo da vari sospetti (riguarda anche la Rai?) e, non ultimo, dallo stantio odore di massoneria. Auguriamo a Renzi di farcela e di correggere in corsa i propri errori. Non può fallire perché falliremmo anche noi. Un consiglio: quando si specchia al mattino, indossando una camicia bianca, pensi che dietro di lui c’è un Paese che non vuol rischiare di alzare nessuna bandiera straniera (leggi troika). E tantomeno quella bianca. Buon lavoro, di squadra. Ferruccio De Bortoli, Direttore del Corriere della Sera, 24 settembre 2014

……Se il direttore del Corriere della Sera spara a zero alto contro Renzi, tra l’altro  dopo l’incontro “epocale” con la coppia Clinton e moglie, può voler dire solo una cosa: che per Renzi è già incominciato il conto alla rovescia.g.

I SOTTERRANEI DELLA DEMOCRAZIA, di Antonio Polito

Pubblicato il 22 settembre, 2014 in Politica | Nessun commento »

Sta per chiudersi nel nostro Paese una lunga era cominciata negli Anni 70 e segnata dall’espansione della democrazia elettiva, intesa come forma di partecipazione popolare alla gestione della cosa pubblica. Su impulso specialmente del Pci, che vi vedeva un inveramento della Costituzione (il Centro per la riforma dello Stato di Ingrao ne fu il laboratorio teorico), dalle Regioni fino ai Consigli di Istituto, passando per i Consigli circoscrizionali nelle città, abbiamo da allora eletto una pletora di livelli di autogoverno, producendo forse più democrazia di quanta fossimo in grado di consumare. La sbornia è stata tale che prima o poi il pendolo della storia doveva cambiare verso. E infatti dal 28 settembre al 12 ottobre si terrà in tutt’Italia la prima tornata di elezioni indirette per 64 assemblee provinciali e 8 città metropolitane. Sarà dunque l’esordio di una democrazia di secondo grado (sperando che non sia tale anche per qualità) che dovrebbe culminare con l’elezione indiretta dello stesso Senato, e cioè di un’assemblea legislativa.
Quale sia l’obiettivo di questo cambiamento e perché sia popolare, è facile da capire: si tratta di spoliticizzare istituzioni finora dominate dai partiti e di sfrondarle (da 2.500 consiglieri si passerà a meno di mille, e senza indennità). Invece che dai cittadini, i membri delle nuove assemblee e i loro presidenti saranno scelti dai consiglieri comunali e dai sindaci, con un voto ponderato in base alla popolazione che rappresentano. Però, come tutte le volte che si cerca di cacciare la politica dalla democrazia, c’è il rischio che quella si vendichi rientrando dalla finestra.
È ciò che sta accadendo in queste ore. È tutto un fiorire di trattative, spesso segrete, alcune già chiuse, altre riaperte, per dar vita ad alleanze contro natura tra partiti che di solito si combattono, o fingono di farlo, pur di assicurare un posto a tutti. La più scabrosa è saltata proprio ieri, quando Pizzarotti ha dovuto rinunciare a guidare un listone unico tra Pd e M5S a Parma, a causa dell’opposizione di Grillo. Ma in altri territori il dialogo prosegue e non mancano, soprattutto al Sud, scambi di effusioni tra Pd e Forza Italia (anche se questi, dopo il patto del Nazareno, sono ormai meno innaturali). Spesso queste alleanze scatenano lotte interne ai partiti, come è accaduto in Puglia, dove Emiliano ha dovuto sconfessare l’intesa raggiunta dal Pd con i berlusconiani a Taranto e Brindisi, per non compromettere le sue primarie alla Regione.
Il rischio vero, insomma, è che una riforma che punta a cacciare i partiti dal tempio della cosa pubblica si trasformi in una fase più proterva della lottizzazione partitica (alle Province restano per ora rilevanti poteri e capacità di spesa), con spartizioni di nomi e di cariche decise in stanze chiuse al pubblico, e senza neanche avere più sul collo la spada di Damocle del giudizio popolare. Non sarebbe la prima beffa del genere, ma questa getterebbe una luce sinistra sulla ben più delicata elezione di secondo grado prospettata per il Senato, che giochetti locali di piccolo calibro potrebbero trasformare in un pied-à-terre romano per la nomenklatura regionale dei partiti. Anche se stavolta non votiamo, sarà dunque bene che vigiliamo: della democrazia di secondo grado siamo pur sempre il pubblico pagante.
Il Corriere della Sera, 22 settembre 2014

DUELLO GIANNINI-FLORIS, CHE NOIA…. di Aldo Grasso

Pubblicato il 17 settembre, 2014 in Cronaca, Politica | Nessun commento »

Martedì di coppe. Il clima era da derby – Giannini contro Floris -, cosa rara per uno scontro tra due programmi tv. Ancora più rara se si pensa che a duellare erano due talk, due programmi basso costo che vivono di chiacchiere. Un derby dei poveri, verrebbe da dire. «Tanta roba», dice Mentana. Uno zapping furioso per lo spettatore. Inizia per primo «Ballarò» (Floris perde lo sprint per una misteriosa replica della Gruber) e Massimo Giannini esordisce con toni un po’ tromboneschi: «il senso della nostra missione», «la Rai, troppo spesso screditata, è la più grande azienda culturale del Paese», «i nostri azionisti di riferimento saranno i cittadini», «vogliamo raccontare l’Italia migliore».

Sarà per un comprensibile nervosismo, ma non basta essere una firma per condurre un programma, ci vorrà tempo per conquistare la scena. Iniziare poi con un faccia a faccia con Romano Prodi non aiuta certo a dare ritmo alla serata: il vero «Ballarò» parte solo alle 22. Giovanni Floris presenta subito i suoi ospiti (la solita compagnia di giro più il fighetto dei gelati Grom) ma colpisce non poco la scenografia: il vecchio impianto delle poltrone contornato da una balconata tipo «Macao». Per fortuna c’è la copertina di Maurizio Crozza che fa il verso a Renzi, Marchionne, Landini, persino allo stesso Floris. Crozza fa un umorismo funzionale al programma, non così Roberto Benigni, un «regalo» secondo Giannini. Sarà, ma il comico toscano ormai non stupisce più, sembra ripetere sempre lo stesso copione, tromboneggia anche lui in nome di un’Italia migliore. Il nuovo «Ballarò» sceglie la strada «seriosa»: le operette morali di Benigni mascherate da battute, la lunga intervista a Prodi, tempi distesi e mancanza di ritmo. «DiMartedì» è più scandito, anche per la maggiore presenza di pubblicità, e prova a essere pop, ma la distinzione rispetto agli altri talk della rete sfuma.

Floris va con il pilota automatico e non rischia nulla. La prima impressione è quella di una dissonanza cognitiva. Come dopo una separazione, i brandelli di una famiglia comune sono divisi in due nuove case. Da una parte il marchio, la collocazione, lo studio. Dall’altra le poltrone, il conduttore, il comico. Tutto il resto è poco più di un rimpiazzo, per quanto blasonato. Tutto il resto è semplice accumulo, di nomi cariche e temi, per mostrarsi al vecchio partner indifferenti al divorzio, e persino più forti. Ma il doppione rimane. I programmi sono appena cominciati e già sono spompi, sentono entrambi il peso degli anni di «Ballarò». I reportage filmati, il dibattito tra politici di opposte (più o meno) fazioni, gli innesti «speculari» dalla carta stampata o dalla fantomatica società civile: nulla di inatteso, nessun scarto rispetto al già noto. Aldo Grasso, Il Corriere della Sera, 17 settembre 2014

……E’ vero, che noia ieri sera tra Giannini, ex  giornalista d’assalto  trasformato in titubante quanto improvvido conduttore, e Floris che stancamente ripeteva il copione di sempre. Ha ragione Grasso, che noia…g.

LA SOLITUDINE AL POTERE, di Michele Ainis

Pubblicato il 11 settembre, 2014 in Politica | Nessun commento »

La democrazia è un cantiere sempre aperto. Ogni giorno si forma e si trasforma, anche se per lo più non ci facciamo caso. La folla dei muratori nasconde l’opificio, la polvere di calcinacci ci impedisce di vedere. Eppure sta cambiando, qui, adesso. E la cifra della sua metamorfosi si riassume in una parola: solitudine. Dei leader, dei cittadini, delle istituzioni. Ne è prova il confronto tra l’uomo che ha segnato gli ultimi vent’anni e quello che forse dominerà il prossimo ventennio. Berlusconi inventò il partito personale, schiacciato e soggiogato dal suo capo. Ma un partito c’era, con i suoi gonfaloni, con i suoi colonnelli. Invece Renzi è un leader apartitico, senza partito. Ha successo nonostante il Pd, talvolta contro il Pd. Il suo colore è il bianco, come la camicia sfoggiata a Bologna insieme agli altri leader della sinistra europea. E il bianco è un non colore, non esprime alcuna appartenenza.

D’altronde tutti i soggetti associativi sono in crisi, perciò sarebbe folle legarsi mani e piedi alle loro sventure. La fiducia nei partiti vola rasoterra dagli anni Novanta; adesso è sottoterra, al 6,5%. Nelle associazioni degli imprenditori credono ancora 3 italiani su 10, e appena 2 nei sindacati. È in difficoltà pure la Chiesa, ma papa Francesco riscuote il 91% delle simpatie popolari. Come peraltro Renzi, che surclassa la popolarità del suo governo (64%). Perché contano i singoli, non gli organismi collettivi. Contano i sindaci, non i consigli comunali. Conta il governatore, non l’assemblea della Regione: se il primo inciampa, cadono tutti i consiglieri. Mentre il Parlamento nazionale è già caduto, è un fantasma senza linfa: per Eurispes, se ne fida il 16% degli italiani. Invece il presidente della Repubblica, sia pure in calo, rispetto al Parlamento triplica i consensi.

E allora viva le istituzioni monocratiche, abbasso la democrazia rappresentativa. Come sostituirla? Con un tweet , nuova fonte oracolare del diritto. O con una fonte orale: ne ha appena fatto uso il ministro Orlando, annunziando un emendamento al decreto sulla giustizia. Anche se quel testo nessuno lo conosce, anche se Napolitano non l’ha ancora timbrato, anche se la competenza ad emendarlo spetterebbe semmai all’intero Consiglio dei ministri. Ma quest’ultimo è l’ennesimo organismo collegiale caduto ormai in disgrazia, sicché ciascun ministro fa come gli pare. Sempre che sia d’accordo poi il primo ministro, dinanzi al quale tutti gli altri non sono che sottoministri.

E lui, l’uomo solo al comando, come comanda? Berlusconi seguiva l’onda dei sondaggi, a costo di cambiare idea tre volte al giorno, se gli piovevano sul tavolo tre rilevazioni differenti; Renzi non sonda, consulta. Il 15 settembre s’aprirà la grande consultazione sulla scuola, dopo quella sullo sblocca Italia, sulla giustizia, sulla burocrazia, sul Terzo settore. Anche la riforma costituzionale (art. 71) fa spazio a nuove «forme di consultazione».

Nel 1992 fu l’utopia di Ross Perot, outsider alle presidenziali americane: una società atomistica, in cui ciascuno potesse promuovere o bocciare qualunque decisione di governo, schiacciando un tasto sul computer mentre fa colazione. Non è l’utopia di Renzi, anche perché in Italia i consultati non decidono alcunché. Ma la consultazione è diventata lo strumento per stabilire un rapporto verticale con il leader, nel vuoto di rapporti che segue l’eclissi di ogni aggregazione collettiva. Il risultato? Parafrasando Gaber: l’incontro di due solitudini, in un Paese solo. Michele Ainis, Il Corriere della Sera, 11 settembre 2014

UN CENTOMETRO E MILLE GIORNI, di Antonio Polito

Pubblicato il 8 settembre, 2014 in Politica | Nessun commento »

Pochi primi ministri italiani hanno goduto delle eccezionali circostanze di cui si avvale Matteo Renzi. Più si addensano nubi minacciose sul nostro Paese, sulla sua economia, sulla sua solvibilità, e più la mongolfiera del consenso personale del leader vola in alto. Più gli economisti fanno fosche previsioni, dividendosi tra pessimisti e catastrofisti, e più gli italiani si affidano all’uomo che li chiama gufi, e che ai loro convegni preferisce i rubinettifici. La nostra situazione, un debito così alto con un’inflazione quasi a zero, è pesante e alla lunga insostenibile, ma Renzi rivendica la sostenibile leggerezza dell’essere e del mangiare gelati. In patria non ha alternative né oppositori; in Europa è pieno di imitatori, come la scena dei blues brothers socialisti, tutti in camicia bianca ieri sul palco di Bologna, ha plasticamente dimostrato; e l’apoteosi della Festa dell’Unità (pur senza Unità), derubrica a broncio i mugugni tardivi di un D’Alema. Ma gli stessi italiani che nei sondaggi premiano Renzi perché gli riconoscono il piglio del vendicatore anti-establishment, del fustigatore dei privilegi e dei vecchi assetti di potere, si dichiarano scettici sulle misure che sta prendendo per l’economia, non ritenendole le mosse giuste. Matteo Renzi è insomma entrato a buon diritto nel cerchio magico dei leader al Teflon, quei politici fatti del materiale delle padelle cui non si attacca lo sporco: ciò non vuol dire che lo sporco non ci sia.
E in effetti finora, nei duecento giorni già passati, l’azione di governo non ha dato i frutti sperati, come lo stesso ministro Padoan ha di recente riconosciuto. Le due misure prescelte, il bonus di 80 euro e la riforma del Senato, comunque le si giudichi, di sicuro non hanno provocato lo choc di cui l’economia ha bisogno. Anzi, l’indice di fiducia delle famiglie, dopo una prima impennata, è da tre mesi in calo.
L’orizzonte è diventato quello dei mille giorni ma la sensazione è di incertezza sulla direzione di marcia. Per quanto il premier annunci che non cederà di un centimetro, non è chiaro da dove. C’è al Senato la madre di tutte le riforme, quella del mercato del lavoro, annunciata ormai da gennaio, che da sola potrebbe cambiare l’appetibilità del nostro Paese per gli investitori. Ma i segnali sono contraddittori, il linguaggio è prudente, non si vede la determinazione necessaria per liberarsi della giungla di rigidità del nostro Statuto dei lavoratori, e rendere finalmente più facile assumere, prima ancora che licenziare. Sulle privatizzazioni c’è stato un alt. Sulle municipalizzate c’è stato un vedremo. Sulla ristrutturazione della spesa c’è stato un faremo. Sulla pubblica amministrazione si alternano messaggi contrastanti, prima si promettono 150 mila precari assunti nella scuola, poi il blocco degli stipendi per tutti gli statali, poi lo sblocco per i soli statali in divisa. E anche quando si fa, come nel caso dello sblocca Italia, si fa così poco da rischiare un effetto boomerang sulle aspettative.
Questa sorta di limbo autorizza, soprattutto all’estero, il sospetto che in Italia ci sia ancora chi prende tempo, nella convinzione che prima o poi ci penserà la Banca centrale europea con un acquisto massiccio di titoli del debito pubblico, nella speranza di risparmiarsi così scelte troppo difficili e impopolari. Ma il guaio è che, come in un circolo vizioso, più questo sospetto si diffonde e meno Draghi avrà le mani libere, e più Renzi le mani legate. Antonio Polito, Il Corriere della Sera, 8 settembre 2014

MAI PRIMA D’ORA UMILIATE LE DIVISE, di Gian Marco Chiocci

Pubblicato il 6 settembre, 2014 in Politica | Nessun commento »

Mai prima d’ora. In 200 anni di storia dei carabinieri mai un capo del governo era riuscito a farsi odiare così dal Corpo più amato dagli italiani che ha pagato prezzi altissimi per assicurare a tutti ordine e sicurezza. Mai un premier s’era fatto detestare così da poliziotti e finanzieri, da pompieri e guardie forestali, da agenti penitenziari e pure dai soldati, tutti compatti nel preannunciare il primo sciopero generale delle divise della storia della Repubblica italiana. Mai gente tranquilla e perbene, che per 1.500 euro rischia la vita facendosi scivolare addosso umiliazioni e insulti, aveva chiesto le dimissioni di ministri e generali. Mai i difensori dello Stato s’erano rivolti ai soggetti istituzionali chiamandoli «buffoni», «cialtroni», «bugiardi». Mai, ufficiali, sottufficiali, truppa inclusa, avevano pensato di annunciare l’ammutinamento nei servizi. Mai, prima d’ora, avevano avuto il coraggio di minacciare la pubblicazione dei dati segreti sulle scorte ai politici serviti e riveriti anche d’estate. Ecco. Se Renzi è riuscito in questo miracolo lo deve all’iniziale sciatteria del «taglia-tutto» Cottarelli (inflessibile sui tagli a caso ai corpi di polizia) e alla goffaggine del ministro Madia nel comunicare il blocco degli stipendi fino al 2015: entrambi hanno smentito, coi fatti, le promesse del premier di inizio mandato. Le famiglie dei servitori dello Stato sono allo stremo. Anziché il gelato Renzi si lecchi in fretta le ferite e ponga rimedio. Perché un carabiniere che incrocia le braccia è la peggiore sconfitta per una democrazia.  Gian Marco Chiocci, Il Tempo, 6 settembre 2014

LA SCUOLA ITALIANA BOCCIATA DALL’OCSE: E’ POCO EFFICIENTE.

Pubblicato il 5 settembre, 2014 in Cultura, Politica | Nessun commento »

Al 23/mo posto della classifica di 30 Paesi. In vetta c’è la Finlandia (87,81% di efficienza)

Italia “tra gli ultimi della classe” per efficienza scolastica. Se si rapportano i risultati ottenuti dagli studenti nei test Pisa con la spesa per l’istruzione, il nostro paese si colloca appena al 23/mo posto della classifica di 30 paesi Ocse. In vetta c’è la Finlandia (87,81% di efficienza). In fondo, invece, dopo l’Italia (69,81%), si piazzano Portogallo, Spagna, Grecia, Indonesia, Brasile, ma anche Germania (25/mo) e Svizzera (28/mo), “le cui politiche di efficienza potrebbero non essere tra le priorità“. Per guadagnare qualche posto in classifica l’Italia potrebbe dunque avere due alternative: o aumentare gli stipendi degli insegnanti o ridurre il rapporto prof-studenti. E’ quanto emerge dal primo rapporto internazionale sull’Efficienza della spesa per l’educazione, condotto da Peter Dolton, esperto mondiale di economia dell’educazione della London School of Economics, insieme a Oscar Marcenaro Gutiérrez dell’Università di Malaga e ad Adam Still di Gems Education Solutions.

Il rapporto – commissionato da Gems e presentato a Londra – analizza “l’efficienza con cui vengono allocati i budget per l’istruzione in ciascun paese” per misurare “qual è il sistema che produce un ritorno più elevato dal punto di vista educativo per ogni dollaro investito”. Secondo il modello econometrico applicato, dunque, “che calcola il legame statistico provato tra stipendi degli insegnanti o dimensione delle classi (le due varianti che più incidono sul bilancio) e i punteggi Pisa, l’Italia potrebbe ottenere risultati Pisa ai livelli della Finlandia, se riducesse il rapporto insegnante-allievo da 10,8 a 8,2 alunni per ogni insegnante (-24,4%). O, in alternativa, se aumentasse lo stipendio degli insegnanti dalla media attuale di 31.460 dollari a 34.760 dollari, cioè un aumento del 10,5%.
Stando a questi calcoli – secondo il rapporto – l’Italia, per avere un migliore rapporto qualità-prezzo dovrebbe spendere di più e ridurre il numero di allievi per insegnante o aumentarne lo stipendio”. Obiettivo della ricerca è però solo l’analisi dei dati, sottolineano gli autori, “non si intende fornire raccomandazioni sulle scelte politiche degli Stati”.

“Questo rapporto – osserva Andreas Schleicher dell’Ocse – getta uno sguardo rinfrescante sui dati comparativi a livello internazionale per esaminare le scelte di spesa fatte da quei paesi che stanno ottenendo i migliori risultati con meno risorse. Rompe il silenzio sull’efficienza dei servizi educativi. Mentre la spesa per ogni studente del mondo industrializzato è aumentata di oltre il 30% nell’ultimo decennio, il livello di apprendimento nella maggior parte dei paesi è rimasto piatto. Chi considera i servizi del settore educativo troppo importanti per essere misurati per la loro efficienza priverà molti giovani di un’istruzione migliore e una vita migliore”.

Complessivamente i 30 paesi Ocse dello studio hanno speso ogni anno 2.200 miliardi di dollari per la scuola e la quota del Pil riservata all’istruzione è in aumento da decenni. In generale, secondo il rapporto, i Paesi che mostrano un’elevata efficienza riescono anche a raggiungere risultati educativi elevati. L’Italia rientra nel gruppo dei paesi “più efficaci che efficienti: raggiunge risultati migliori in termini di qualità piuttosto che di efficienza. Ciò potrebbe dipendere anche dal fatto che i suoi sistemi generano altri risultati che non vengono acquisiti dalle statistiche Pisa”. Fonte: ANSA, 5 settembre 2014

….Ma adesso ci penseranno Renzi e la Giannini (quest’ultima poppe al vento) a rimettere in sesto la scuola italiana e portarla al primo posto della  scala europea. Lo ha detto Renzi e se non lo ha detto di certo lo dirà,  quindi è come se lo avesse detto.

LA RIFORMA DELLA SCUOLA SECONDO RENZI: NON E’ UTILE AL PAESE

Pubblicato il 4 settembre, 2014 in Il territorio, Politica | Nessun commento »

Il governo Renzi sta varando le linee guida della riforma della scuola. Propone di assumere dal prossimo anno a tempo indeterminato 150 mila docenti precari e tra due anni 40 mila nuovi docenti tramite concorso con un investimento a regime di 4 miliardi all’anno. L’obiettivo dichiarato è quello di dotare le scuole di tutti gli insegnanti di cui hanno bisogno ed eliminare la «supplentite». Non convince. L’obiettivo di stabilizzare i precari può avere senso. Non è colpa loro se per anni lo Stato italiano ha fatto mezze promesse facendogli frequentare scuole di specializzazione, senza mai stabilizzarli.

Il numero abnorme e crescente dei precari pende come una spada di Damocle sulla speranza di concorsi futuri perché la «stabilizzazione» è sempre in agguato (come dimostrato da questa riforma).

È sbagliato poi procedere a una regolarizzazione totale in un colpo solo. Intanto perché un numero di supplenze brevi sarà sempre necessario visto che gli insegnanti di ruolo non si possono spostare a metà anno e, in particolare alle medie e alle superiori, ci sono sempre buchi da riempire. Ma, soprattutto, viene meno l’obiettivo di incidere drasticamente sulla qualità dei professori creando un cammino prevedibile, affidabile e meritocratico per l’accesso all’insegnamento che attragga i migliori.

Questo sarebbe anche possibile seguendo come pare la strada dei concorsi annuali. Peccato che essi siano poco credibili dal fatto che di colpo si stabilizzano 150 mila precari. Una cifra che equivale a 6 anni di turn over visto che ogni anno vanno in pensione tra i 20 e i 30 mila insegnanti.

E non è questione di risorse. Contrariamente a quanto sostengono le «linee guida», la scuola italiana non ha bisogno di molti fondi aggiuntivi, perché, anche dopo i «tagli», il rapporto insegnanti-studenti è più alto della media Ocse (l’Organizzazione cooperazione e sviluppo economico). Tanto più che Matteo Renzi ha promesso di tenere i conti della spesa pubblica sotto controllo.

Quanto alla meritocrazia, la riforma lascia molto a desiderare. Sulla selezione, perché appunto i concorsi sono incerti e quindi si riduce la possibilità di attrarre i migliori. Va un pochino meglio sui 150 mila da stabilizzare. Un po’ di meritocrazia ci sarebbe perché dovranno essere scelti dalle scuole: i più bravi riceveranno offerte da più istituti e gli altri marginalizzati in incarichi secondari.

Per ciò che riguarda il resto degli oltre 600 mila insegnanti, per i presidi e per le scuole, l’obiettivo di raggiungere una maggiore meritocrazia si perde. Secondo le linee guida della riforma, i professori dovrebbero avere stipendi differenziati. Ma in base a cosa? L’unico criterio concreto appare essere quello dell’aver frequentato dei corsi di specializzazione, che in Italia si sono sempre rivelati di scarsa utilità formativa. Le scuole verranno invece misurate in base a una non meglio precisata «autovalutazione». Cosa se ne faccia il ministero di queste «autovalutazioni» non è chiaro.

Esistono Paesi, come la Finlandia, che hanno ottimi sistemi educativi. Eppure non valutano le scuole e non differenziano gli stipendi degli insegnanti per merito. Come ci riescono? Puntando moltissimo sulla selezione all’ingresso degli insegnanti (una professione che attira i migliori laureati) e su una vera formazione, fatta in classe da professori esperti e non attraverso corsi di aggiornamento. Proprio le due leve che questo decreto sembra ignorare o addirittura penalizzare, come avviene per la selezione attraverso concorsi.

Se si vogliono ottenere risultati in poco tempo, come ha fatto la Polonia, bisogna allora valutare scuole e insegnanti. E si deve farlo sulla qualità dei risultati, misurati in modo oggettivo, non su parametri burocratici o potenzialmente fasulli.

Dovremmo rilanciare gli odiati test Invalsi e dotarci di un ispettorato serio. Si dovrebbero usare i risultati di quei test almeno per dare trasparenza alle famiglie su come sono valutate le scuole. E andrebbe fatto prima ancora di pensare a differenziare gli stipendi degli insegnanti e i fondi alle scuole. Ma di tutto questo, nonostante l’obiettivo della trasparenza sia citato, le linee guida non parlano affatto.

Il dubbio che emerge è che l’obiettivo politico sia il vero leit motiv di questa riforma. Che verrà applaudita dagli insegnanti e dai sindacati che si sono opposti ai «tagli», ma purtroppo anche da milioni di famiglie che non amano i test e non capiscono che essi sono una garanzia per la qualità dell’insegnamento e quindi di un minore rischio di disoccupazione per i propri figli. Il «patto tra insegnanti, scuole e famiglie» di cui parla la riforma rischia quindi di peggiorare ulteriormente la quota di senza lavoro tra i giovani del nostro Paese. Il Corriere della Sera, 4 settembre 2014

L’ITALIA SORPASSATA IN RETE, di Gianantonio Stella

Pubblicato il 2 settembre, 2014 in Economia, Politica | Nessun commento »

Un computer in Rete  (Ap/Sakuma)

Ci ha spezzato le reni, per dirla ironicamente col Duce, anche la Grecia. Da ieri, sentenzia il sito netindex.com che misura la velocità di download domestica sulla base di cinque milioni di test al giorno, siamo novantottesimi al mondo. Dopo l’amata e malmessa Ellade e davanti al Kenya. Nel dicembre 2010 eravamo al 70º posto. Nel dicembre 2012 all’84º. Sempre più giù, giù, giù…

Coi nostri mediocri 8,51 megabyte mediamente scaricabili al secondo siamo ultimi tra i Paesi del G8 (penultimo è il Canada che svetta dal 23,09: il triplo), penultimi tra quelli europei davanti alla Croazia e ultimissimi tra i 34 dell’Ocse. Abissalmente lontani dalla velocità con cui scaricano dal Web i cinesi di Hong Kong, quasi undici volte la nostra, ma anche i sudcoreani, gli svedesi, gli svizzeri. C’è chi dirà: si tratta di realtà disomogenee e in qualche modo eccentriche rispetto alle realtà economiche, tanto da vedere ai primi posti per eccellenza della Rete la Romania, dove però i cittadini dialogano ancor peggio di noi con gli sportelli informatici pubblici.

Vero. Resta il fatto che in classifica siamo staccati di 58 gradini dalla Cina, 65 dalla Spagna, 69 dalla Germania, 71 dalla Gran Bretagna, 76 dalla Francia con la quale fino a una dozzina di anni fa eravamo sostanzialmente alla pari. Per non dire della velocità di upload, cioè del tempo che si impiega per caricare un documento in Rete: quattro anni fa eravamo ottantaseiesimi. Oggi siamo al 157º posto. Molto ma molto più distanti dalla Francia che dal Congo o dal Burkina Faso.

Ora, se il Web servisse solo ai ragazzini per dibattere dei tatuaggi preferiti o alle amanti della tisana per consigliare la menta piperita, poco male. Il nodo, come dimostra un’analisi di MM-One Group su dati Eurostat, è che la Rete è sempre più un volano per l’economia. Il fatturato delle imprese europee ricavato dal Web nel 2013 è stato in media del 14%. Ma la Gran Bretagna e la Slovacchia sono già al 18, la Repubblica ceca al 26, l’Irlanda al 31%: quasi un euro su tre, a Dublino e dintorni, arriva via Internet. Noi siamo al 7%: la metà o meno delle altre europotenze. Per non dire del turismo, che vive un boom spropositato a livello planetario ma che solo parzialmente ci sfiora nonostante il nostro immenso patrimonio culturale, paesaggistico ed enogastronomico.

Il business vacanziero europeo dipende per un quarto dal Web ma la quota si impenna fino al 39% nel Regno Unito. Noi siamo al 17%: nettamente sotto la Francia e la Spagna, le concorrenti dirette. Quanto al rapporto fra cittadini e pubblici sportelli, un’altra ricerca MM-One sui Paesi che sfruttano meglio le potenzialità della Rete dice che, se la Danimarca sta a 100, noi siamo a 9. Umiliante. Come se mancasse la consapevolezza, al centro e in periferia, di quanto il settore sia centrale. Come se nessuno si fosse accorto che perfino qui da noi, negli ultimi anni, come spiega l’Agenda digitale italiana, il Web ha creato 700 mila posti di lavoro: sei volte più degli addetti di un settore storico quale la chimica.

Eppure, davanti a un quadro così, lo stesso governo del primo premier incessantemente affaccendato tra Facebook e Twitter, WhatsApp ed Instagram pare aver deciso, stando alle bozze dello Sblocca Italia, di limitare gli aiuti per l’estensione della banda larga, sulla quale siamo in angoscioso ritardo sulla tabella di marcia europea, agli sgravi fiscali (sostanziosi o meno non si sa) per chi investirà sulle «aree a fallimento di mercato», quelle dove gli operatori non mettono soldi per paura di perderci. Che dire?

…….Lo chiede ai lettori Stella? Lo chieda al raccontatore di chiachciere, alias il premier Renzi.

LA RIFORMA DELLA GIUSTIZIA: UN FIUME DI PAROLE VANE E POCHE COSE VALIDA, di Luigi Ferrarella

Pubblicato il 30 agosto, 2014 in Giustizia, Politica | Nessun commento »

A pensare di disboscare così l’arretrato della giustizia civile son buoni tutti, verrebbe da dire sesi cedesse alla tentazione di imitare il premier Renzi in talune sue sprezzature: con un decreto leggesi va dai cittadini impantanati in 5,2 milioni di cause pendenti e li si invita caldamente a portarle fuori dal circuito giudiziario Tribunale / Appello, ad affidarle (salvo che per i diritti indisponibili) ad arbitri privati presi da un elenco dell’Ordine degli Avvocati, e a pagarli per ottenere quella decisione che lo Stato tardava a dare. Un’idea di dubbia attrattiva e neppure tanto originale, marcata com’è dagli stessi virus che scorazzano già da tempo nell’organismo malato della giustizia: il subappalto ai privati come stabile puntello all’emergenza; la progressiva svalutazione delle garanzie di indipendenza e imparzialità connesse alla giurisdizione; il messaggio che, fuori dalle corsie preferenziali aperte per sorridere ai mercati internazionali (tipo il «Tribunale delle imprese»), giustizia ordinaria resti solo per chi se la può pagare; e l’equivoco di forme di risoluzione alternativa delle controversie non come opzione culturale per ridurre la propensione alla litigiosità, ma come espediente imposto per legge per dirottare su laghetti privati i fiumi di contenzioso civile che tracimino dagli acquedotti tribunalizi.

Eppure il resto della riforma contiene anche misure promettenti, altre che meritano di essere sperimentate, e altre ancora il cui successo o insuccesso dipenderà dalla capacità di abbandonare l’illusorio pensiero unico delle riforme «a costo zero» (e qui già depone male l’impegno di appena 150 assunzioni a fronte della carenza in organico di quasi 8.000 cancellieri).

Certo, per coglierle bisogna andare oltre i tweet con i quali Renzi si è già portato parecchio avanti: «Garantire un processo civile di primo grado in un anno invece di tre come oggi» è infatti un cinguettìo curioso, se a scriverlo è il capo di un governo sul cui sito online i dati Ue mostrano che in materia commerciale una causa civile di primo grado dura in media oggi poco meno di 600 giorni, dunque circa un anno e otto mesi, non tre.

Ma al netto del marketing politico, e della rivendita di misure già avviate da altri (il «Tribunale delle imprese» è stato introdotto nel 2012 per la nicchia di cause di proprietà intellettuale-conflitti societari-antitrust, e il Processo Civile Telematico sta entrando ora a regime ma è frutto di 15 anni di travagliata marcia), fa benissimo la riforma ad alzare il tasso di mora dall’attuale 1% all’8,15%, in modo da disincentivare la beffa di chi oggi, avendo torto marcio in una causa, usa i tempi lunghi del tribunale come scudo per resistere contro chi ha ragione, contando sul fatto che nel peggiore dei casi a distanza di anni gli tocchi pagare solo il dovuto più un interesse infinitamente meno caro di quello per prendere soldi in prestito.

Opportuno – a condizione che non si creda che il rito da solo sia tutto – asciugare i tempi morti dell’attuale procedura civile, spingendo le parti ad anticipare e concentrare il «botta e risposta» che oggi arriva a consumare anche 8/12 mesi prima di approdare alla trattazione vera e propria della causa, Anche la «negoziazione assistita» dagli avvocati dei litiganti, prima che le nuove cause arrivino in tribunale e anzi nel tentativo di non farcele proprio arrivare grazie alla condivisione di una «convenzione» con valore di sentenza, è un esperimento francese da provare. Di buonsenso é l’idea che marito e moglie per divorziare, se non hanno figli piccoli e sono d’accordo sulle condizioni economiche, possano non intasare i tribunali. E una gran cosa, se ben coordinata, sarebbe la fusione in un unico «Tribunale della famiglia e per i diritti della persona» delle oggi frammentate competenze di giudici ordinari, minorili e tutelari (più le richieste di asilo politico).

È invece nel penale che il baldanzoso piglio del premier è evaporato nella stretta tra il quasi alleato di governo – Berlusconi – protagonista per anni di incostituzionali leggi ad personam , e l’alleato vero di governo – il ministro dell’Interno Alfano – che molte di quelle leggi incostituzionali fabbricò da Guardasigilli di Berlusconi. Il risultato del sandwich é un ripiegamento tattico su 5 titoli da «vorrei ma non posso», utili a far dire a tutti che tutti hanno vinto: chi sulla formulazione di falso in bilancio e autoriciclaggio, chi sull’ossessione di limiti alla pubblicabilità delle intercettazioni demandati a una legge delega «dopo confronto con i direttori dei giornali». In definitiva si compra tempo in attesa di tempi migliori, per contenuti sui quali il governo somiglia a un capofamiglia che, frastornato da commensali reclamanti ciascuno una pietanza diversa, affastella nel carrello della spesa ingredienti contraddittori, presi al supermarket delle tante commissioni ministeriali autrici di progetti che però almeno erano organici e coerenti. Tipica la scelta di non cancellare la berlusconiana legge ex Cirielli, ma di bloccare i termini di prescrizione dopo la condanna di primo grado, facendoli rivivere e ripartire dopo 2 anni se per allora non si sia celebrato l’appello (non è chiaro se anche nei processi già iniziati come per Berlusconi a Napoli o Formigoni a Milano, o solo per i nuovi rinvii a giudizio come sarebbe più logico). Ma così da un lato si ignora che di questi 2 anni già 8/10 mesi nella realtà si consumano prima che il processo arrivi fisicamente in appello, tra impugnazioni da attendere e formazione del fascicolo in cancellerie sotto organico. E dall’altro lato si lascia l’imputato esposto all’eventuale inerzia giudiziaria: sia perché lo scoccare del supplemento di tempo non determina l’estinzione dell’accusa (come invece suggeriva la commissione Canzio), sia perché il blocco della prescrizione non viene bilanciato da un meccanismo di controllo da parte del giudice sul trattamento tempistico da parte del pm della notizia di reato nelle indagini preliminari, fase dove le statistiche mostrano che ad esempio nel 2011 si sono concentrate 86.000 delle 120.000 prescrizioni dell’anno. Luigi Ferrarella, Il Corriere della Sera, 30 agosto 2014