Neanche quindici mesi e il primo governo Berlusconi, ministro il «Reviglio boy» Giulio Tremonti, faceva trapelare un progetto superavveniristico. Titolo dell’Ansa del 5 agosto 1994: «Fisco, verso pagamento tasse con bancomat». Rincarava la dose il ministro Augusto Fantozzi, il 24 maggio 1995: «Grosse novità dal ddl semplificazione fiscale». E nel 2001, mentre gli sportelli automatici delle banche erano in attesa di avvistare il primo contribuente e delle «grosse novità» non c’erano ancora tracce, Tremonti dichiarava: «Grazie al regolamento sulla semplificazione del Fisco in Italia si avranno 190 milioni di atti amministrativi in meno». Da allora non c’è stato governo che non abbia garantito un Fisco più facile e amico dei cittadini e delle imprese. L’ha promesso il centrodestra e l’ha promesso il centrosinistra. L’ha promesso il governo tecnico e l’ha promesso quello delle larghe intese. Ma ondeggiando arditamente fra bancomat, sms e dichiarazioni precompilate alla francese, siamo sempre lì. Sempre più sommersi da commi, circolari e regolamenti. Inchiodati a quel 1987, quando la semplificazione era considerata urgentissima. Quando Reagan e Gorbaciov firmavano il trattato sugli euromissili, la Cbs trasmetteva in America la prima puntata di Beautiful, al maxiprocesso di Palermo la cupola di Cosa nostra veniva condannata all’ergastolo… Sergio Rizzo, Il Corriere della Sera, 29 agosto 2014
DUE REGOLE NON SCRITTE, di Antonio Polito
Pubblicato il 26 agosto, 2014 in Economia, Politica | Nessun commento »
Appena sabato scorso Arnaud Montebourg aveva detto a Le Monde che «l’Europa deve fare come Matteo Renzi» e liberarsi dell’«ossessione tedesca per l’austerità». Non gli ha portato bene. Tre giorni dopo è stato licenziato da François Hollande, aprendo a Parigi una crisi di governo di inusitata gravità, solo cinque mesi dopo la nascita dell’esecutivo guidato da Manuel Valls (un altro che è stato spesso paragonato a Renzi).
Naturalmente il ministro dell’Economia francese non è stato punito perché troppo renziano. Anzi, se si vuol stare al paragone con l’Italia, il Don Chisciotte della sinistra d’Oltralpe assomiglia più a un Fassina o a un Bertinotti vecchia maniera. Ma la sua cacciata conferma due leggi della politica europea da cui neanche la Francia si è mai allontanata, e che faremmo bene a tenere sempre a mente anche noi italiani.
La prima è che delle «due sinistre» quella che non fa i conti con la realtà, che si illude e illude gli elettori di poter tornare all’età dell’oro socialdemocratica facendo deficit e mettendo tasse, è destinata a perdere. Seppure su scala minore, la crisi di Parigi ricorda lo scontro con cui alla fine degli anni Novanta il Cancelliere Schröder si liberò del ministro Lafontaine a Berlino. La rottura della Spd con la sinistra interna diede il via alla stagione di riforme che salvarono la Germania dal declino economico, e aprirono la strada all’era Merkel. Hollande, allo stesso modo, vuole riaffermare la sua autorità sul partito e sul governo proprio mentre è impegnato in un programma di riforme liberali della stagnante economia francese.
La seconda legge che esce confermata dalla punizione di Montebourg è che Parigi, chiunque sia al governo, non guiderà mai un fronte di opposizione alla Germania. La Francia non ha alcun interesse a diventare il capofila dei deboli. Sia perché la sua missione politica è quella di stare nel cuore dell’Europa, sia perché i mercati la premiano finché resta attaccata a Berlino, con tassi di interesse bassi quando non addirittura negativi, nonostante deficit alti e crescita zero. Perché mai Hollande dovrebbe dunque trasformare la sua retorica anti-austerità in un vero e proprio scontro con la Merkel, come il ministro ribelle lo invitava a fare?
È bene dunque non farsi troppe illusioni su presunti assi mediterranei tra Parigi e Roma per piegare Berlino. Ogni Paese deve contare sulla sua credibilità prima di ogni altra cosa. La Spagna, per esempio, ha fatto riforme efficaci dell’economia che le hanno consentito a giugno, insieme al Portogallo, di dire di no alla richiesta italiana di maggiore flessibilità nei conti, e che probabilmente le varranno la nomina di Luis de Guindos alla presidenza dell’Eurogruppo (con il francese Moscovici che conquista l’Economia e la nostra Mogherini piazzata alla Politica estera).
Non abbiamo dunque altra strada che trasformare le promesse e gli annunci della stagione Renzi in realtà. Il nostro governo ha ancora un grande capitale di fiducia da spendere in Europa. Ma deve agire. Riforme radicali della giustizia e del mercato del lavoro sono, nelle prossime settimane, l’unica vera arma di cui dispone. E, come i fatti francesi hanno dimostrato, valgono molto più degli applausi di un Montebourg. Antonio Polito, Il Corriere della Sera, 26 agosto 2014
IL PERIMETRO DELLA SOVRANITA’ (italiana), di Antonio Polito
Pubblicato il 13 agosto, 2014 in Economia, Politica | Nessun commento »
Questa è la quarta estate d’ansia per la nostra sovranità. Ed è la quarta di seguito in cui ci accorgiamo che il governo ha sbagliato i conti, che la ripresa era un miraggio, e che non cresceremo affatto. Nella prima estate c’era Berlusconi, nella seconda Monti, poi Letta, ora Renzi. Cambiano vorticosamente i premier ma i problemi restano uguali, come la crisi in cui è piombato il nostro Paese. E alla fine del tunnel c’è sempre l’identica alternativa: o ce la facciamo da soli, o qualcuno lo farà al posto nostro. Perché l’Italia è troppo grande, e troppo intrecciata è la sua sorte con quella dell’intera Europa, per poter fallire.
Il tema della sovranità è tutto qui: meglio farlo noi o lasciarcelo imporre da altri? E la risposta sembra scontata: meglio farlo noi. È per questo che abbiamo cambiato quattro governi in quattro anni. Ma arrivati al punto in cui siamo, al debito in cui siamo, alla recessione in cui siamo, il dubbio che serpeggia in Europa è: ce la faranno mai, da soli?
Per far da soli ci siamo sottoposti a grandi sacrifici, che hanno reso ben presto impopolare chiunque abbia governato. Ma se avessimo chiesto aiuto avremmo pagato un prezzo molto più alto: in tutti i Paesi che l’hanno fatto, perfino gli stipendi degli statali sono stati tagliati. Spagna e Portogallo si stanno sì riprendendo, ma a costo di uno choc sociale che chi governa l’Italia ha il dovere di evitare.
Perciò ha ragione Renzi, come altri premier prima di lui, quando dice con orgoglio che ciò che c’è da fare lo decidiamo noi. È esattamente questo il perimetro della nostra sovranità. Essa infatti ci conserva la libertà di decidere su tasse, spese, pensioni, mercato del lavoro. Ma è limitata da due colonne d’Ercole oltre le quali non possiamo più andare: da un lato ci sono i Trattati, da noi liberamente firmati, che ci dicono di quanto possiamo indebitarci ogni anno; dall’altro ci sono i mercati, che ci dicono quanto costa indebitarci ogni anno.
Dunque la nostra sovranità non è limitata da Bruxelles, ma dal nostro debito. Anzi, per essere più precisi, dal credito che ci danno i risparmiatori di tutto il mondo e chi ne gestisce i capitali. Siccome il nostro debito è immane, la nostra sovranità è già molto limitata. Ogni volta che ci servono soldi, ne perdiamo un pezzo. Meno ne chiediamo e più liberi siamo. Ma se non ricominciamo a produrre ricchezza, ne dovremo chiedere sempre di più.
Per nostra fortuna stiamo vivendo un momento magico dei mercati. Nonostante le nubi nere che si aggirano per l’Europa, si mantengono calmi. Ma non c’è bisogno di essere un gufo per capire che questa bonaccia può finire da un momento all’altro.
Ecco dunque un’ottima ragione per correre, e sbrigarsi a fare ciò che va fatto. Questo non è un braccio di ferro con Juncker per avere uno sconticino, non è questione che si possa risolvere all’italiana, con un po’ di furbizia e qualche rodomontata. Se continuiamo ad aspettare passivamente una ripresa che poi resta zero, o sotto zero; se continuiamo ad eludere scelte difficili definendole inutili totem, non c’è alcuna speranza di reggere il nostro deficit sopra la linea di galleggiamento. In un mondo nel quale merci e capitali circolano liberamente e globalmente, è sovrano solo chi è forte. E noi stiamo diventando troppo deboli per vivere un’altra estate così. Antonio Polito, Il Corriere della Sera, 13 agosto 2014
LA DISCIPLINA DELLA VERITA’, di Michele Salvati
Pubblicato il 17 luglio, 2014 in Costume, Politica | Nessun commento »
«B isogna dire la verità agli italiani». Non so quanti siano gli articoli che ho scritto su questo giornale e che si concludevano con quel ritornello: forse troppi. Li ho scritti quando al governo era Berlusconi e imperava una filosofia alla Mike Bongiorno («allegria!»); e quando al governo era la sinistra, un po’ più sobria ma che, con la verità, non aveva un rapporto molto diverso. «La verità mi fa male», cantava Caterina Caselli alla fine degli anni 60. Fa male a un politico dire agli italiani che per troppo tempo hanno vissuto al di sopra dei propri mezzi – il debito ne è la conseguenza – e che, per rientrare e tornare a crescere, sarà necessario un lungo periodo di sofferenze, durante il quale molte istituzioni e rapporti cui si sono assuefatti dovranno essere radicalmente riformati. Nella politica, nella pubblica amministrazione, nell’istruzione, nella giustizia, nel Mezzogiorno, nella legislazione del lavoro, nell’impresa, e si può continuare. Le sofferenze, in realtà, sono iniziate da molto tempo: è almeno dall’inizio del secolo che il Paese ristagna e la prospettiva di un declino secolare si avvicina. Ma la ragione per cui gli italiani devono subirle – la verità, appunto – non è per loro ancora chiara. E ancor meno chiaro è se le riforme promesse saranno giuste e radicali quanto è necessario ad evitare che debbano subirle anche i loro figli. A partire da queste convinzioni – che mi sono formato attraverso lo studio delle origini del declino italiano – ho provato una forte sintonia con l’editoriale che Galli della Loggia ha scritto sul Corriere di lunedì scorso: «Dirsi in faccia un po’ di verità». Due domande, però, che rivolgo anche a me stesso.
La prima è ovvia: qual è la verità? In altre parole, qual è l’analisi più affidabile dei guasti che corrodono il nostro Paese e, di conseguenza, quali sono le aree nelle quali si dovrebbe intervenire con le riforme? E come? Un giudice, ma anche uno storico, sanno benissimo com’è difficile ricostruire la verità: nel film Rashomon , Akira Kurosawa ne ha dato una rappresentazione indimenticabile per la sua forza. Dagli esempi che Galli della Loggia riporta mi sembra di capire che la sua verità assomiglia abbastanza alla mia. E poi i guasti nelle istituzioni, nell’economia, nella società, nella cultura e nelle mentalità del nostro Paese sono così evidenti e macroscopici che dovrebbero bastare criteri elementari di efficienza e di giustizia – condivisi dalla gran parte dei nostri concittadini, quali che siano le loro convinzioni politiche – per farne una narrazione capace di ottenere un largo consenso. Temo che le cose siano un po’ più complicate di così, dato che in Italia circolano oggi tante «verità» partigiane, un quasi ossimoro. Ma ammettiamo, senza concederlo, che le cose siano abbastanza semplici da poter passare alla seconda domanda.
Basterà questa verità, questa narrazione, per «mobilitare le menti e i cuori degli italiani e in questo modo spingerli al rinnovamento e all’azione»? In altre parole – perché di questo si tratta – che cosa deve fare un politico dotato del carisma di Matteo Renzi? Se dire la «verità», e quanta verità dire, sia sufficiente a «mobilitare le menti e i cuori» in un Paese così frammentato culturalmente e politicamente diviso com’è l’Italia – è un giudizio che conviene lasciare al politico, perché questo – l’intuito per il consenso – è una parte essenziale del suo mestiere e di esso Renzi ha dimostrato sinora di essere ben provvisto. A noi come cittadini interessano altre parti del suo mestiere, anzi della sua vocazione: quelle che Max Weber descrive con la tripletta passione, responsabilità, lungimiranza. Passione vuol dire dedizione ad una causa esterna da sé (la vanità e la ricerca del potere di per se stesso è uno dei crimini del politico) e questa passione spero che Renzi ce l’abbia: la sobrietà con cui ha reagito alla grande vittoria elettorale delle Europee promette bene.
Responsabilità vuol dire che la causa che il politico si prefigge – nel caso nostro sollevare il Paese dall’infelice condizione in cui è caduto, e così facendo migliorare anche la situazione dei nostri concittadini più disagiati – dev’essere la stella polare del suo agire, l’unico metro con cui misura il suo personale successo. E lungimiranza vuol dire – la faccio breve – freddezza, realismo, capacità di valutazione distaccata. Le cose che Galli della Loggia vorrebbe che Renzi dicesse agli italiani – la «verità» – io vorrei che le pensasse lui e agisse in conseguenza, con la massima lungimiranza, astuzia e freddezza di cui è capace. Se non ne fosse intimamente convinto la tripletta weberiana lo porterebbe in direzione sbagliata: resterebbe un politico per vocazione, ma non il politico di cui oggi il Paese ha bisogno. Perplessità e preoccupazioni gli osservatori esterni – Galli della Loggia, chi scrive e tanti altri – è comprensibile che le abbiano e la mia maggiore è se Renzi, e il gruppo dirigente che ha portato al governo, abbiano le risorse tecniche e culturali adeguate al compito, alle fatiche di Ercole, che si sono addossati. Ma consigli non ne ho, se non quello di tenersi sul comodino il profondo e commovente saggio di Max Weber cui ho fatto riferimento: La politica come vocazione . Michele Salvati, Il Corriere della Sera, 17 luglio 2014
LA COMPAGNA DI ENZO TORTORA AL SINDACO DI POMPEI: REVOCHI L’INCARICO DI ASSESSORE AL PM CHE ACCUSO’ TORTORA
Pubblicato il 3 luglio, 2014 in Giustizia | Nessun commento »
Il neo sindaco di Pompei ha nominato assessore alla legalità l’ex PM che accusò Tortora nel processo di primo grado che condannò il noto presentatore a dieci anni di carcere, per essere assolto in appello e in cassazione con formula piena. La compagna di Tortora, Francesca Scopellit, con una lettera aperta pubblicata dal Mattino di Napoli ha chiesto al sindaco di revocare l’incarico. Pubblichiamo la lettera per esprimere tutta la nostra solidarietà alla richiesta della signora Scopelliti e per rendere omaggio alla memoria di Enzo Tortora e di tutti colloro che sono vittime della malagiustizia. g.
Signor Sindaco di Pompei Nando Uliano, il 17 giugno segna l’anniversario dell’arresto di Enzo Tortora e l’inizio adel calvario che lo portò al linciaggio mediatico, al carcere, alla malattia e alla morte. Ma anche a farsi protagonista di una sacrosanta battaglia per la giustizia giusta. Di tutti, per tutti. Per il nostro Paese.
Poi è accaduto che quello stesso giorno, trentuno anni dopo (a volte la realtà è più fantasiosa dell’immaginazione), lei abbia pensato di nominare assessore alla legalità del comune di Pompei proprio quel Diego Marmo che, nei panni di pubblico ministero nel processo contro Tortora, ne fu l’accanito accusatore, con toni che non appartenevano al suo ruolo.
Quasi che, come scrisse Gian Domenico Pisapia, «il pm non fosse il rappresentante sereno e imparziale dello Stato che fa valere nel processo la sua pretesa punitiva, ma considerasse l’imputato come un nemico personale da combattere e da abbattere». Definì Tortora «cinico mercante di morte», sostenne in dibattimento che era stato eletto con i voti della camorra, magnifico l’istruttoria «divina» firmata da Di Persia e Di Pietro, come un «lavoro perfetto, inattaccabile e svolto in tempi molto brevi».
La Corte di primo grado lo seguì, forse perché, come ammoniva Marmo, «se cade la posizione di Enzo Tortora si scredita tutta l’istruttoria». Non era possibile dimostrare la colpevolezza dell’imputato più eccellente del maxiprocesso, ma era necessario sentenziarne la condanna. L’indagine e il verdetto di primo grado furono sgretolati da altri magistrati, in appello prima e m Cassazione dopo, fino all’assoluzione di Enzo con formula piena.
Non semplicemente un errore, come se ne fanno ovunque e quindi anche nei tribunali; o come la definì Giorgio Bocca una pagina vergognosa di «macelleria giudiziaria». Nondimeno Marmo, insieme ai suoi colleghi, ha fatto una bella carriera alla faccia di quel referendum sulla responsabilità dei magistrati del 1987, vinto con 1′85% di sì e tradito da una legge tanto inadeguata, quanto inapplicata.
Abbiamo visto e subito anche questo. Ma che adesso, dopo la carriera professionale, gli si dia anche un riconoscimento politico-istituzionale e lo si renda simbolo di legalità è davvero inaccettabile. Anzi, è offensivo. Sono certa che questo sia anche il pensiero di quei tanti magistrati seri, onesti e perbene. Perché premiare un magistrato che non ha semplicemente «sbagliato», ma che ha dimostrato un superficiale disprezzo dei propri doveri e degli altrui diritti, offende la buona reputazione della giustizia e dei giudici.
Una semplice domanda, sindaco Uliano: avrebbe mai dato la delega ai lavori pubblici ad un ingegnere che ha costruito un ponte crollato il giorno dopo dell’inaugurazione? Diego Marmo è un magistrato che – perseguendo un innocente e dando mostra di colpevole negligenza e di spaventosa protervia – ha fatto crollare la credibilità della giustizia, ha offeso il diritto, ha umiliato quella toga che invece dovrebbe, secondo il dettato costituzionale, essere una garanzia per i cittadini. Diego Marmo dovrebbe, per dignità, dimettersi, ma so che non lo farà. E allora chiedo a lei un atto di coraggio: ritiri quella delega. Dia a Pompei quella dignità che la storia le ha assegnato, quella sicurezza che il presente richiede con forza. Francesca Scopelliti
RIFORMA DELLA GIUSTIZIA: BUONE DOMANDE, CATTIVI PENSIERI, di Michele Ainis
Pubblicato il 2 luglio, 2014 in Politica | Nessun commento »
Diceva Craxi: quando non è possibile risolvere un problema, si nomina una bella commissione. Oggi invece s’indice una consultazione. È più trendy , e almeno in apparenza trasforma ogni elettore in un legislatore. Sarà per questo che gli ultimi tre governi ne hanno profittato a mani basse. Con la consultazione di Monti, nel 2012, sul valore legale della laurea. Con quella battezzata nel 2013 da Letta su «Destinazione Italia», per attrarre investimenti dall’estero. O dal suo ministro Quagliariello sulle riforme costituzionali (131 mila risposte online). Infine con le consultazioni promosse da Renzi sul Terzo settore (che ha incassato meno di 800 email), nonché sulla riforma della pubblica amministrazione.
Adesso tocca alla giustizia: 12 punti sottoposti al verdetto telematico, che spaziano dal divorzio breve al processo lungo, dalla carriera dei giudici a quella dei cancellieri, e via via intercettazioni, prescrizioni, informatizzazioni, buone intenzioni. E allora, dove sta il problema? Non nel metodo, ci mancherebbe: è sempre cosa santa e giusta testare gli umori del popolo votante. Dopotutto, in Francia la legge Barnier del 1995 stimola il giudizio dei cittadini sulle grandi opere pubbliche, e così succede in varie altre contrade, su varie altre materie. In Italia però non c’è nessuna legge che regoli queste forme di consultazione, sicché ciascun governo fa un po’ come gli pare. E questo sì, è un guaio. Specie se c’è di mezzo la giustizia, che è forse la più grave emergenza nazionale.
Da qui un problema di merito sul metodo, mettiamola così. Perché in primo luogo, se ci chiedete un’opinione, dovete poi tenerne conto. Per esempio: a Bologna, nel maggio 2013, si è celebrato un referendum consultivo sui fondi alle scuole private. Hanno vinto i no, ma il Consiglio comunale ha detto sì. Ovvio che poi ti senti buggerato. Ma in secondo luogo un’opinione pesa quando è libera, ed è libera quando ha di fronte alternative chiare, specifiche, puntuali. Meglio ancora se poste in successione progressiva, come hanno fatto i grillini con il loro progetto di legge elettorale. Lì, semmai, il limite era nel limite d’accesso, consentito a pochi congiurati.
Le domande, quindi. In ogni referendum (elettronico o cartaceo) contano più delle risposte, come osservò a suo tempo Bobbio. Perché le orientano, e spesso le prefigurano. Ma in questo caso, quali domande ci domanda il domandante? Per esempio, se intendiamo premiare i meriti nel cursus honorum dei magistrati. Certo che sì, ma come? Silenzio tombale: più che una domanda, è un quiz. Oppure se siamo o no d’accordo sulla riforma delle intercettazioni; tuttavia l’esecutivo confessa di non avere alcuna idea circa il da farsi. Ancora: le correnti giudiziarie, chi le compra? Probabilmente nessuno; ma il problema, di nuovo, è come venderle, come liberare il Csm dalle loro unghie rapaci. E la separazione delle carriere? Qui manca del tutto il quesito, magari per un eccesso di discrezione, di bon ton.
Diceva Oscar Wilde che le domande non sono mai indiscrete; però lo sono, talvolta, le risposte. Ecco perciò la nostra domanda: qual è la linea del governo in materia di giustizia? Perché il silenzio, si sa, alimenta i cattivi pensieri. Come il sospetto d’una trattativa sottobanco con l’Anm; e sarebbe imbarazzante la concertazione con il sindacato giudiziario, dopo averla bandita con gli altri sindacati sul lavoro. Ma si fa presto a sbarazzarsi dei sospetti. Basta che la prima consultazione il governo la faccia con se stesso. Michele Ainis, Il Corriere della Sera, 2 luglio 2014
…….Questo piccolo “saggio” del prof. Michele Ainis, costituzionalista assai accorsato (è stato anche uno dei saggi nominati da Napolitano nell’era Monti) la dice lunga sulle promesse di Renzi e sulla vacuità di molte di esse, compresa quella sulla riforma del pianeta Giustizia, forse la più vacua e la più inconsistente tra quelle messe in campo nel corso di questi mesi dall’ex sindaco di Firenze. Riforma che farà la fine delle altre, sarà oggetto da una parte delle ormai quotidiane tiritiere di Renzi e dall’altra del lungo elenco delle “incompiute”. g.
CIO’ CHE RENZI ANCORA NON HA, di Ernesto Galli della Loggia
Pubblicato il 29 giugno, 2014 in Costume, Cultura, Politica | Nessun commento »
Non una battaglia contro agguerriti schieramenti politici ma lo scontro con pezzi importanti di società autonomamente in campo: ecco che cosa annuncia l’avvenire a Matteo Renzi. La sua azione di governo, infatti, se appare destinata in caso di successo a conquistare sempre più quote significative di elettorato moderato di tradizione anticomunista e al tempo stesso di elettori della sinistra radicale e di 5 Stelle – e dunque a garantirgli una relativa tranquillità nell’ambito del Parlamento e dei partiti – invece incontrerà presumibilmente un’opposizione sempre più forte a livello della società. Qui, infatti, tutto ciò che si sente minacciato di «rottamazione» – dalla burocrazia alle magistrature, dalle corporazioni professionali e sindacali alle vecchie oligarchie bancario-imprenditoriali, dai vari interessi protetti alle «cricche» che da decenni paralizzano e dissanguano il Paese – tutti questi pezzi di società costituiranno il vero, futuro nemico di Renzi.
La sua sarà più o meno la stessa situazione, sia pure con contenuti diversissimi, in cui venne a trovarsi vent’anni fa Silvio Berlusconi. Non a caso: dal momento che tanto quella di Berlusconi che quella di Renzi sono state nella sostanza due grandi operazioni di ridefinizione profonda della geografia politica del Paese, potenzialmente ostili verso i poteri tradizionali e in vista di una radicale frattura rispetto al passato. Entrambe capaci di ottenere un immediato consenso elettorale, ma entrambe bisognose, per mettere radici e dare i loro frutti, di tradurre tale consenso – con ciò che di caduco ha sempre il consenso elettorale – in qualcosa di più solido e più ampio: cioè in un consenso ideologico-culturale, in un’idea-forza: la sola cosa capace d’indurre una società a cambiare davvero. Da sola capace di avere ragione degli interessi ostili.
Berlusconi non ha mai neppure intuito una tale necessità. Ha sempre pensato che per governare a lungo un Paese, addirittura per cambiarlo (come forse in qualche suo trasalimento iniziale pure si proponeva), bastasse vincere le elezioni. Si è visto il risultato.
Come invece in questo campo si muoverà il nuovo presidente del Consiglio nessuno può dirlo. Ciò che si può dire è che ancor più di quando dopo il terremoto di Tangentopoli la destra arrivò per la prima volta al potere, oggi l’Italia, proprio l’Italia che si è riconosciuta in Renzi, sente il bisogno di una svolta profonda, di cambiare regole e mentalità. Essa sente soprattutto il bisogno di ritrovarsi. Sfibrata dalla crisi economica e avvilita dai continui scandali, nel suo intimo anela a un soffio potente di aria nuova. Ma per far ciò questa Italia ha bisogno di riacquistare fiducia nel suo genio, di ricostruire un’idea del proprio significato e del proprio ruolo nel mondo, di alimentare la propria volontà e il proprio spirito cominciando con il riacquistare un rapporto con il proprio passato, e con ciò la consapevolezza delle proprie potenzialità. Anche per questo – sia detto incidentalmente – ha bisogno di più scuola, di diventare più istruita. C’è una relazione profonda, infatti, tra il nostro declino degli ultimi venti anni e la circostanza che sì e no un italiano su due legga nell’arco di dodici mesi almeno un libro (un solo libro!), o che nella Penisola si registri ancora oggi un tasso elevatissimo di abbandono scolastico.
Ma la politica lo capirà? Capirà che perché muti il futuro deve mutare il passato? Che ad esempio ciò che oggi serve per cambiare la coscienza del Paese è innanzitutto una nuova narrazione dell’Italia? E capirà che essa non può sottrarsi al compito di impegnarsi in un’opera di direzione culturale in tal senso?
Certo, non bisogna scherzare con le parole; ma neppure averne paura. E dunque sì: una direzione culturale che veda la politica protagonista. Per carità: non si tratta di auspicare che questa detti la linea alla cultura stabilendo i contenuti delle sue produzioni, bensì che si muova con decisione lungo due direttrici. Per prima cosa approntando gli strumenti nuovi e insieme rinvigorendo tutte le occasioni, le istituzioni, le sedi, nelle quali possano crescere gli studi, prendere forma o diffondersi i nuovi saperi del mondo e sul mondo; moltiplicando i luoghi in cui il maggior numero di cittadini possa fare esperienza delle immagini, delle idee, delle emozioni utili a far loro conoscere qualità e peculiarità del nostro passato come del nostro presente. Dall’altro lato chi governa non deve aver paura di manifestare gli obiettivi ideali e culturali, i valori – sì, i valori – cui legare direttamente il proprio impegno politico – oggi penso specialmente al merito, all’eguaglianza delle opportunità, all’identità nazionale, all’amore per la conoscenza – e impegnarsi a perseguirli adoperando in modo incisivo tutti i mezzi di governo che ha lecitamente nelle mani.
L’esecutivo dispone – direttamente o indirettamente, attraverso il finanziamento – di un imponente apparato di strumenti nel campo dell’azione culturale: dall’istruzione alla comunicazione, dall’editoria allo spettacolo. Strumenti che languono ingabbiati da leggi paralizzanti, oppressi da pratiche consociative e spartitorie ad uso di chi ci lavora o li usa per il proprio tornaconto, in mano spesso a cricche sindacali o a reti di veri e propri manutengoli. Gestiti il più delle volte da personale demotivato, affidati alla guida di esponenti politici o personalità intellettuali e professionali di serie B.
Da anni il ministro dell’Istruzione non s’interessa affatto di che cosa s’insegni ma al massimo di come. Si occupa in pratica di due cose sole: di come immettere nei ruoli decine di migliaia di precari, e d’introdurre lavagne luminose e aggeggi simili nelle scuole. In placida contemplazione della rovina del sistema dell’istruzione superiore, provocata dall’autonomia degli atenei e dalla mancanza di soldi, non rivendica neppure il potere, chessò, di chiudere qualcuna delle svariate decine di università in eccesso, di livello mediocrissimo, disseminate nella Penisola, le quali assorbono risorse molto meglio utilizzabili altrove. Il ministero dei Beni culturali, dal canto suo, è stato fino ad oggi gestito burocraticamente (per la verità da un solo alto burocrate in veste di mammasantissima permanente); bene che vada riesce a mantenere in piedi alla meglio il nostro patrimonio, ma nulla di più. Da decenni in Italia non viene inaugurato un grande museo, una grande biblioteca, una grande istituzione di cultura di respiro nazionale, e a Roma, per esempio, si sono aperti ben due ridicoli musei di arte contemporanea (il Maxxi e il Macro) mentre con minore spesa poteva essere messo in sicurezza per sempre un tesoro inestimabile come la Domus Aurea. La Rai, dal canto suo, è da tempo immemorabile l’ombra di ciò che fu; mentre il cinema italiano, escluso qualche raro bagliore, è sempre più una commediaccia senz’anima che non sa più raccontare il Paese profondo. E mi fermo qui per non farla ancora più lunga.
Questo insieme d’organismi, tutti all’incirca alimentati in un modo o nell’altro dalla sfera pubblica e ad essa collegati, oggi vive solo per sopravvivere. Esso opera in maniera totalmente scoordinata, non obbedisce ad alcuna idea ispiratrice, non ha alcun progetto, non trasmette alcuna visione generale. Politicamente non serve a nulla. Si badi: politicamente non significa il governo in carica, significa la polis , la comunità dei cittadini. Significa che tutto questo insieme di organismi non serve al Paese, non lo aiuta a riprendere in mano il filo della propria storia, a ritrovarne il senso, e tanto meno a tracciarne le possibili proiezioni nell’oggi e nel domani. Le cose stanno così perché la democrazia è convinta che intervenire nel campo della cultura non possa che equivalere a un intervento comunque condizionante se non coercitivo. Pensa che se s’inoltra sul sentiero della cultura essa è condannata a seguire le orme dei totalitarismi. Ma ha dimenticato che nella sua stessa storia, nella storia della democrazia – per non dire di quanto fu capace l’Italia liberale nei primi decenni dopo l’Unità – c’è anche l’America di Roosevelt, con il suo straordinario fervore d’iniziative culturali pensate e volute da Washington, che furono tra i segni più significativi della rinascita degli Stati Uniti.
Pure in politica nulla si costruisce e nulla dura senza le idee, senza un’idea-forza. E le idee nascono dall’impulso a conoscere, a studiare, a pensare. Matteo Renzi è giovane d’anni ma appare un politico già sagace abbastanza per non capirlo.
Ernesto Galli della Loggia, Il Corriere della Sera, 29 giugno 2014
Certo, non bisogna scherzare con le parole; ma neppure averne paura. E dunque sì: una direzione culturale che veda la politica protagonista. Per carità: non si tratta di auspicare che questa detti la linea alla cultura stabilendo i contenuti delle sue produzioni, bensì che si muova con decisione lungo due direttrici. Per prima cosa approntando gli strumenti nuovi e insieme rinvigorendo tutte le occasioni, le istituzioni, le sedi, nelle quali possano crescere gli studi, prendere forma o diffondersi i nuovi saperi del mondo e sul mondo; moltiplicando i luoghi in cui il maggior numero di cittadini possa fare esperienza delle immagini, delle idee, delle emozioni utili a far loro conoscere qualità e peculiarità del nostro passato come del nostro presente. Dall’altro lato chi governa non deve aver paura di manifestare gli obiettivi ideali e culturali, i valori – sì, i valori – cui legare direttamente il proprio impegno politico – oggi penso specialmente al merito, all’eguaglianza delle opportunità, all’identità nazionale, all’amore per la conoscenza – e impegnarsi a perseguirli adoperando in modo incisivo tutti i mezzi di governo che ha lecitamente nelle mani.
Da anni il ministro dell’Istruzione non s’interessa affatto di che cosa s’insegni ma al massimo di come. Si occupa in pratica di due cose sole: di come immettere nei ruoli decine di migliaia di precari, e d’introdurre lavagne luminose e aggeggi simili nelle scuole. In placida contemplazione della rovina del sistema dell’istruzione superiore, provocata dall’autonomia degli atenei e dalla mancanza di soldi, non rivendica neppure il potere, chessò, di chiudere qualcuna delle svariate decine di università in eccesso, di livello mediocrissimo, disseminate nella Penisola, le quali assorbono risorse molto meglio utilizzabili altrove. Il ministero dei Beni culturali, dal canto suo, è stato fino ad oggi gestito burocraticamente (per la verità da un solo alto burocrate in veste di mammasantissima permanente); bene che vada riesce a mantenere in piedi alla meglio il nostro patrimonio, ma nulla di più. Da decenni in Italia non viene inaugurato un grande museo, una grande biblioteca, una grande istituzione di cultura di respiro nazionale, e a Roma, per esempio, si sono aperti ben due ridicoli musei di arte contemporanea (il Maxxi e il Macro) mentre con minore spesa poteva essere messo in sicurezza per sempre un tesoro inestimabile come la Domus Aurea. La Rai, dal canto suo, è da tempo immemorabile l’ombra di ciò che fu; mentre il cinema italiano, escluso qualche raro bagliore, è sempre più una commediaccia senz’anima che non sa più raccontare il Paese profondo. E mi fermo qui per non farla ancora più lunga.
………………..Analisi spietatatamente esatta quella di Galli della Loggia, specie per quanto riguarda il mondo delle idee e quello della cultura. Purtroppo, sino a prova contraria, Renzi, sul quale Galli della Loggia pogge molte speranze, non sembra possedere lo spirito roosveltiano, piuttosto sembra animato solo da una voglia matta di potere e del suo mero esercizio, proprio a scapito delle idee a lungo tempo, capaci di consentire alla nostra società di tornare a crescere. g.