LA RAGNATELA DEGLI AFFARISTI, di Antonio Polito

Pubblicato il 10 maggio, 2014 in Giustizia, Politica | Nessun commento »

Puoi sciogliere il Pci, il Pds, i Ds, ma non puoi sciogliere Primo Greganti. Puoi sciogliere la Dc, ma non Gianstefano Frigerio. La lezione dell’inchiesta di Milano, anche se finisse con una raffica di assoluzioni, è che non basta abbattere i partiti o cambiargli nome per risanare la politica. Anzi: la malapolitica senza partiti può essere perfino peggio. I faccendieri, gli intrallazzatori e i tangentari esisteranno finché ce ne sarà richiesta sul mercato, cioè finché saranno necessari per fare incontrare «imprenditori a caccia di appalti e manager pubblici a caccia di carriere», come ha scritto ieri Luigi Ferrarella sul Corriere . E questo accadrà fin quando sarà la politica a distribuire appalti e carriere, gare e presidenze di enti.


Per moralismo, per non imitare gli americani, non abbiamo portato alla luce del sole il lavoro di lobbying , inevitabile quando più privati competono per ottenere commesse pubbliche. E dunque ci teniamo l’immoralità di scambi che avvengono al buio tra chi può e chi paga, intermediati da chi conosce. Non è cambiato infatti l’essenziale. Nascosta sotto una foresta di norme astruse e inefficaci che dovrebbero garantire la trasparenza, è rimasta intatta la discrezionalità del potere politico; il prezzo con cui ci si aggiudica una gara non conta niente perché tanto poi lo si può rialzare; imprese finte e imprese vere sono messe sullo stesso piano in un’economia di relazione dove conta non quello che sai fare, ma a chi sai arrivare.


C’è una differenza con vent’anni fa, ed è che allora i grandi partiti prendevano il 5%, e oggi al circolo Tommaso Moro di Milano, secondo l’accusa, bastava lo 0,80%. Ma attenzione a credere che Greganti e Frigerio siano due vecchi giapponesi rimasti a combattere da soli nella giungla di Tangentopoli: rappresentano tuttora la commistione tra affari e politica. Il Signor G, scrive il Gip, è ancora «persona legata al mondo delle società cooperative di area Pd», e nelle intercettazioni ne spuntano molte di coop rosse per cui si prodigava. E Frigerio poteva ancora promettere incontri ad Arcore e biglietti di raccomandazione a un ministro.


Per questo sembra un po’ semplicistico liquidare la questione, come ha fatto ieri Renzi, auspicando che «la politica non metta becco». Perché se la politica non cambia il modo in cui gestisce il denaro pubblico, a metterci il becco rimarrà di nuovo e soltanto l’opera di repressione dei magistrati, e tra vent’anni saremo ancora qui. C’è poi una seconda grande differenza con Tangentopoli: ed è che stavolta la Procura di Milano è divisa. Il coordinatore del pool per i reati contro la pubblica amministrazione, Alfredo Robledo, non ha firmato i provvedimenti. Il procuratore capo, Edmondo Bruti Liberati, ha spiegato che il suo collaboratore «non condivideva l’impostazione dell’inchiesta».

Questo vuol dire che era possibile un’altra impostazione? Che dietro lo scudo dell’obbligatorietà dell’azione penale esiste invece un margine cospicuo di discrezionalità, che si può scegliere un modo o un altro di esercitarla, e tempi diversi? E se sì, meglio affrettare gli arresti prima che sia troppo tardi per salvare l’Expo, o meglio evitare di farli in piena campagna elettorale? Questi dubbi sono oggi legittimi, e non giovano alla credibilità dell’azione dei magistrati. E anche di questo la politica non dovrebbe lavarsi le mani.Antonio Polito, Il Corriere della Sera, 10 maggio 2014

….E’ vero la politica non dovrebbe lavarsi le mani e assumersi la responsabilità che ad essa compete nell’ambito degi indirizzi cui debbono uniformari i gestori del potere pubblico, ad ogni livello. Ma spesso, purtroppo, è proprio la politica che dietro le quinte protegge le ragnatele degli affaristi che senza la protezione della politica non potrebbro raggiungere i loro obietitivi, insomma è il classico caso del serpente che si morde la coda. Come uscirne? Ecco una domanda cui la politica dovrebbe dare risposta. g.

LA DIASPORA DELLA DESTRA, di Ernesto Galli della Loggia

Pubblicato il 24 aprile, 2014 in Politica | Nessun commento »

(Ansa) (Ansa)

Penso che a cominciare da Silvio Berlusconi molti, a destra, si vadano chiedendo in queste settimane: «Ma perché non le abbiamo fatte noi le cose che sta facendo il governo Renzi?».

Una domanda quanto mai a proposito, anche se i dubbi sull’efficacia degli annunci di Renzi sono legittimi. Non si è mai vista, infatti, una maggioranza così ampia come quella che ha avuto la Destra, e tuttavia con risultati così miseri. L’eterogeneità di quella Destra, i problemi giudiziari e i conflitti d’interesse dello stesso Berlusconi, o il sordo contrasto dei «poteri forti» hanno certamente contato, ma non sono stati decisivi. Possono costituire un alibi, non una spiegazione.

Questa dunque va cercata altrove. Innanzitutto, io credo, in un ambito per così dire socio-antropologico: il fallimento della Destra al governo ha rispecchiato nella sostanza un limite della società italiana di destra. Un limite dei ceti che ad essa fanno tradizionalmente riferimento, vale a dire una certa borghesia piccola e media culturalmente antiprogressista, una certa classe tecnica e imprenditoriale, le quali non producono autentica vocazione alla politica, non producono personalità politiche. Troppo legata alle proprie occupazioni e professioni, troppo immersa nelle sue attività economiche e commerciali, troppo presa dal proprio privato, la società di destra non dà al Paese uomini o donne che uniscano in sé le due qualità necessarie al politico di rango: da un lato l’ambizione unita a un ideale pubblico e dall’altro, al fine di soddisfare tale ambizione, la capacità/volontà di affrontare i rischi e i fastidi innumerevoli della lotta politica.

Pesa non poco in tutto questo la minorità politica a cui la Destra è stata condannata nella storia repubblicana. Ma insieme pesa anche un forte limite culturale di questo insieme di gruppi sociali. I quali ancora oggi si tengono lontano dalla politica perché troppo spesso non riescono a comprenderne né il senso né il valore. Né quindi sono disposti a pagarne il prezzo per accedervi, a cominciare da quello di sottoporsi al giudizio degli elettori. Il solo vero modo che nel suo intimo il popolo di destra concepisce per impegnarsi con la politica è, nel caso migliore, la cooptazione: essere invitati da chi può, a sedere in Parlamento o ad assumere questo o quell’incarico. Insomma, la politica come riconoscimento di tipo sostanzialmente notabilare, come onorificenza sociale. Con l’ovvio risultato, naturalmente, che così poi non si conta nulla, e anche per ciò non si riesce a combinare nulla. Questo nel caso migliore, come dicevo. In quello peggiore invece la politica è vista solo alla stregua di un’utilità come tante altre: da usare e di cui approfittare per fini personali.

Tutto ciò si è visto bene prima con Forza Italia, poi con le sue reincarnazioni; e si vede tuttora anche con le formazioni di centro. Quasi sempre si direbbe che proprio il personale successo nel loro campo dei vari Monti, Brunetta, Montezemolo, Bombassei, Terzi, Dini, Tremonti, Martino, Urbani e tanti altri professori, manager o imprenditori tratti dalla società civile di destra, li abbia condannati sostanzialmente, sia pure dopo qualche sprazzo di luce, a un ruolo di comprimari o di volenterosi esecutori di disegni altrui. Restano così al centro della scena gli individui spinti da nessuna motivazione che non sia quella del puro interesse personale e, insieme a questi, i mediocri privi di vero coraggio e di iniziativa politica, senz’alcuna esperienza di leadership , senza idee e senza autentica visione (la falange delle varie Santelli, Comi, Biancofiore, e quindi i La Russa, i Capezzone, gli Schifani, i Toti, e via seguitando).

E poi naturalmente al centro della scena Berlusconi. Berlusconi ha rappresentato fino al parossismo il limite personal-professionale che caratterizza il popolo di destra nel suo rapporto con la politica e nel pensare la politica. Convinto che la cosa essenziale fosse solo agitare il pericolo di un nemico, e grazie a ciò vendere comunque un programma elettorale, Berlusconi non si è curato d’altro. Per lui il governare si è esaurito nel vincere. Ha mostrato di non aver alcun obiettivo vero e concreto per il Paese nel suo complesso, tanto meno la capacità di conseguirlo, considerando tra l’altro irrilevante, nella scelta dei propri collaboratori, la competenza, la capacità realizzatrice, l’onesta: insomma, qualunque cosa non fosse la fedeltà canina alla sua persona. Come capo del governo gli è mancata, negli affari del Paese, la tenacia, la passione del fare, che invece era stato capace di mettere negli affari propri.

È così che oggi capita che molti elettori di destra si accingano a votare per Renzi. E si chiedano un po’ sorpresi come mai.Il Corriere della Sera, 24 aprile 2014

…….Galli della Loggia, nelle sue argomentazioni, ha abbondantemente attinto a quelle esposte da Antonio Polito nel suo saggio “In fondo a Destra, cent’anni di fallimenti politici”. Particolarmente centrata è la riflessione che riportiamo in rosso sugli individui  che si occupano di politica solo per i loro interessi personali, per lo più mediocri e indecenti…pare la fotografia degli indecenti che nel nostro borgo si sono intestati la qualifica di “destra” per pura convenienza personale e per squallido calcolo opportunistico.g.

IL SIGNOR CAPO DELLA POLIZIA E I CRETINI, di Gian Marco Chiocci

Pubblicato il 20 aprile, 2014 in Costume, Cronaca | Nessun commento »

LETTERA APERTA AL CAPO DELLA POLIZIA

Signor Capo della Polizia

chi le scrive, prima di assumere la direzione de Il Tempo, ha trascorso gran parte della sua esistenza professionale facendo il cronista di strada e l’inviato speciale. In queste vesti ha provato a raccontare con obiettività i fatti che gli scorrevano davanti. Un bel giorno – si fa per dire – finisce catapultato nella bolgia di Genova, città assediata, impaurita, presidiata da elicotteri, blindati, robocop in uniforme e cavalli di frisia. Abituato, per sfida e per cultura a ritrovarsi spesso dalla parte sbagliata, pensai di procedere controcorrente rispetto alla totalità dei colleghi impegnati a celebrare i proclami di guerra dei cattivi maestri in tuta bianca: e così, dopo essermi beccato sul fianco una manganellata tirata alla cieca da un agente al primo contatto con gli antagonisti, un po’ prevenuto chiesi a quei poliziotti la possibilità di seguirli come un’ombra, di registrare le loro sensazioni, di raccontare l’altra faccia degli scontri che avrebbero fatto storia. Non mi dissero di sì, e nemmeno di no. Non lo sapevo ma erano gli uomini super addestrati del famoso (“famigerato”, direbbero i no global) Settimo Nucleo, il fiore all’occhiello di tutti i reparti mobili. Mi ritrovai così in mezzo a loro a vivere un’esperienza allucinante che cambierebbe a chiunque il modo di pensare e di vedere le cose.

Trascorsi le successive sette-otto ore nell’inferno di una violenza a senso unico – quella del Blocco Nero – che non credevo possibile. Non è retorica, e nemmeno piaggeria, ma per abusare di Blade Runner ho visto davvero cose che certi opinionisti e sinistri parrucconi non possono lontanamente immaginare. Ho visto ragazzi, i suoi ragazzi, signor capo della Polizia, piegarsi in due a colpi di pietre e bastonate. Ho visto i caschi della Celere frantumarsi al contatto con le biglie d’acciaio. Ho visto divise prendere fuoco insieme a chi le indossava. Li ho visti piangere dal dolore, soffocare nei loro stessi gas lacrimogeni, chiedere aiuto e soccorso ai compagni. Ma soprattutto li ho visti ogni volta risorgere, rialzarsi miracolosamente, ricompattarsi a mo’ di testuggine, battere sugli scudi per ritrovare coraggio, rincorrere ombre anche se azzoppati, ingaggiare nuovi scontri, rispondere alle offese senza mai infierire quando al loro posto – lo confesso – li avrei presi tutti gratuitamente a mazzate. Li ho visti andare al macello in settanta contro 500/600, mi sono detto ma chi glielo fa fare, ho pensato alle loro mogli e ai figli a casa, e più avanzavano malconci e fieri verso quel muro d’odio e più pensavo che a gente così bisognerebbe dargli cinquemila euro d’aumento, minimo. Al termine di quella giornata ho visto una città distrutta, bruciata, disorientata, avvolta dal fumo nero, stuprata da migliaia di animali. Quel che ho visto l’ho raccontato senza filtri e preconcetti. Ma l’indomani, leggendo i giornali, pensavo d’aver vissuto un incubo coi responsabili di quella guerra civile osannati e coccolati e i difensori dello Stato umiliati e maltrattati. Ci fu la Diaz, è vero, con lo schifo che alcuni poliziotti senza nome fecero all’interno. Ci fu la tragedia di Carlo Giuliani, ucciso per legittima difesa da un carabiniere terrorizzato dall’orda di barbari invasati sulla camionetta incastrata. Ci fu anche una gestione dell’ordine pubblico penosa. Ma le devastazioni, i danneggiamenti, i saccheggi, gli assalti, i pestaggi, i 20 milioni di euro di danni, i 170 poliziotti e carabinieri portati all’ospedale, che fine avevano fatto?

Ecco. La storia oggi si ripete, signor Capo della Polizia. Perché la storia, talvolta, non insegna niente e quando concede il bis si diverte a indurre in errore chi dovrebbe restarne immune. Dispiace che a commetterlo, stavolta, sia stato Lei, nella fretta di dare del «cretino» a un suo poliziotto che avrà anche sbagliato a calpestare un manifestante (sarà la magistratura a stabilire se l’ha fatto apposta) ma che – assieme agli altri suoi colleghi – per ore ha subìto di tutto, come ogni giorno subiscono all’inverosimibile sui monti della Tav o allo stadio, in un crescendo d’ansia e adrenalina senza eguali. La base del Corpo è in rivolta per le sue parole, i sindacati di polizia l’hanno criticata ferocemente, il prefetto di Roma ha detto cose ovvie e naturali che i suoi uomini si aspettavano da Lei, il ministro Alfano ieri ha difeso il Corpo con parole che da decenni non si sentivano al Viminale. Non faccia finta di non ascoltare quelle voci. Anche se nella sua lunga e brillante carriera ha combattuto (bene) il crimine organizzato senza occuparsi mai della piazza, dia presto un segnale a chi rifugge il pensiero unico della polizia cilena. Come scriveva Sun Tzu nell’Arte della guerra, un vero leader non comanda con la forza ma con l’esempio.Gian Marco Chiocci, iL TEMPO 20 APRILE 2014

…..tROPPO BUONO IL DIRETTORE DE il Tempo, glorioso quotidiano romano, che al capo della polizia chiede di dare l’esempio scendendo in piazza insieme agli uomini che subiscono assalti, aggressioni, umiliazioni, e sberleffi. Davvero troppo poco visto che mensilmente guadagna 50 volte in più di un poliziotto pestato dai delinquenti che con la scusa della protesta distruggono intere citta’, ad iniziare da roma. un capo della polizia che da’ delc retino ad un suo uomo senza che ne sia stata acceertata la colpa, merita di essere esonerato dal comando  e mandato in piazza agli ordini di un qualche caporale.

UN MUSEO DEL FASCISMO A PREDAPPIO, CITTA’ NATALE DEL DUCE

Pubblicato il 19 aprile, 2014 in Cronaca, Storia | Nessun commento »

Chi era Benito, prima di diventare Mussolini? E com’era l’Italia, quando Mussolini era Duce? E cosa rimase, quando cadde il Duce Benito Mussolini? Soprattutto: quale città può, meglio di tutte, raccontare questa Storia?
A Predappio, città dove tutto nacque e dove tutto silenziosamente continua, ci arrivi portato da una strada maestosa, già viale Mussolini e ora, per catarsi toponomastica, viale Matteotti.

È costeggiato, a destra e a sinistra, da meravigliosi e fascistissimi edifici, voluti dal Duce e disegnati da Florestano di Fausto, l’architetto che negli anni Venti trasformò la località di Dovia, che aveva dato i natali a Mussolini, nella Predappio «Nuova» che doveva celebrare il mito delle origini del Duce. Fu detto, in sfregio alla verità e in omaggio al Condottiero, che la Predappio vecchia, in collina – la Predappio Alta di oggi – stava crollando per una frana, e attorno al casone dove il 29 luglio 1883 era nato, da un fabbro e da una maestra, Benito Mussolini, si costruì una città ex novo. Questa.
Di qua e di là dal vialone, sfilano, razionali e massicci, l’edificio delle Poste, l’esedra del mercato, il teatro, la Casa per i dirigenti dell’Aeronautica Caproni (dell’immensa fabbrica, su in collina, rimane solo una grande M di mattoni romani), la caserma dei Carabinieri, l’asilo comunale gestito, oggi come allora, caso unico in Italia, da suore… Tutti gli edifici hanno ancora le piastrelle originali in ceramica col numero civico, da cui è stato staccato il fascio littorio… E, in fondo, prima della grande piazza centrale – sproporzionata, come le ambizioni del Duce – proprio sotto Palazzo Varano dove per vent’anni risiedettero i Mussolini, e che oggi è sede del Comune, troneggia la monumentale Casa del Fascio, un tempo magnifica, oggi in completo abbandono: tre piani, 2400 metri quadrati, marmi che profumano di regime e una grande Storia da narrare. Diventerà – se le cose andranno come devono – la sede del primo museo del Fascismo. Voluto da un sindaco di sinistra.
Il sindaco di sinistra si chiama Giorgio Frassineti, ha cinquant’anni, renziano, post-ideologico, sangue romagnolo e mascella volitiva. È geologo e la propria terra la conosce molto bene. Ricandidato per le prossime elezioni amministrative del 25 maggio, ha molte probabilità di vincerle. E se ciò accadrà, con altri cinque anni davanti, farà qualcosa di rivoluzionario per queste parti: «Basta con la Predappio del turismo in camicia nera. La città non deve celebrare, né sopportare il fascismo. Lo deve conoscere, in modo completo. E per farlo, deve sapere cosa è stato il fascismo, come è nato e come è caduto: occorre raccontarlo, senza paure. Occorre un museo. A Predappio c’è anche il luogo adatto…».
Pedagogica e propagandistica, la Casa del Fascio di Predappio fu costruita fra il ‘34 e il ‘37, un parallelepipedo fluido ed eclettico: cotto romano, travertino e torre littoria. Scalone monumentale, vetrate immense, marmi e uno sfarzoso salone delle feste. All’epoca ospitava gli uffici del Partito ed era il centro della vita politica e sociale della città. Oggi è invasa da colombi che nidificano nella torre, mobili sfasciati, muffa, vetri rotti, ed è il simbolo della colpa primigenia cittadina. Architettonicamente ancora splendida, la Casa del Fascio oggi è in degrado.
Trasformarla in museo avrebbe un costo economico alto, ma con gli aiuti europei o dei privati, accessibile. Ma trasformarla in un museo del Fascismo, avrebbe costi politici ancora maggiori. La città lo accetterebbe? E la sinistra locale? E quella nazionale? Gli storici cosa direbbero? E i nostalgici? E le vestali della Resistenza?
Il sindaco Frassineti, seduto nel suo studio a Palazzo Varano, dietro la grande scrivania in rovere che arriva dalla Rocca delle Caminate, il castello sulla collina di Predappio che fu residenza estiva di Benito Mussolini negli anni Trenta («quando arrivava Lui, accendevano un faro con il fascio tricolore che aveva 60 chilometri di raggio, illuminava mezza Romagna…»), una risposta ce l’ha. È la storia che ci racconta: «Questo palazzo fu la seconda casa dei Mussolini, si trasferirono qui perché l’edificio ospitava, al primo piano, la scuola dove insegnava la mamma, Rosa Maltoni. Il mio ufficio è la stanza dove dormiva il piccolo Benito. Proprio lì, dov’è seduto lei. È comodo?».
Fare il sindaco è già difficile. Fare il sindaco di Predappio, ancora di più. Fare il sindaco di sinistra a Predappio, dev’essere scomodissimo. Il primo del dopoguerra, un comunista, si chiamava Partisani, e di nome faceva Benito… «Se nel Ventennio Predappio fu la “meta ideale” di ogni italiano, “la Galilea di tutti noi” come diceva Starace, quando si spostavano addirittura le fonti del Tevere perché tutto nascesse qui, dopo il ‘45, sulla città cadde la damnatio memoriae. Nessuno ci venne più. Solo silenzio e disonore». Fino al 1957, quando divenne presidente del Consiglio Adele Zoli, «un democristiano bacchettone, non proprio bellissimo, e infatti lo chiamavano Odone… Però era di Predappio, unica città d’Italia, finora, che ha dato i natali a due premier, neppure Roma… Comunque, Zoli fece quello che nessuno aveva osato prima. Riportò qui, da Cerro Maggiore, su un’auto americana, in una cassa di sapone, la salma di Mussolini. Fu un gesto di pietà cristiana, e di saggezza politica. Anche Montanelli e Biagi scrissero che era giusto così…». Bisognava liberare lo Stato da un cadavere in esilio che lo teneva in ostaggio da anni. E da quel momento tutto cambiò. «Quel giorno nel cimitero di Predappio, sulla tomba di famiglia dei Mussolini, il libro delle firme, primo di una lunga serie, raccolse 400 nomi». Iniziava il pellegrinaggio della memoria. «Per lungo tempo fu un pellegrinaggio silenzioso. Poi nel 1983, il giorno del centenario della nascita del Duce, 29 luglio, arrivarono venti-trentamila persone, chi lo sa? Polizia schierata, il sindaco – ancora del Pci – che temeva gli scontri, tensioni. Ma non accadde nulla… Veniva sdoganata la fascisteria nostalgica. Fino a quando, nel 1994, per la prima volta l’amministrazione comunale, Pds, concede l’autorizzazione ad aprire tre negozi di souvenir…». Paccottiglia, che prima veniva venduta sottobanco: busti, fasci, vino del Camerata… «Fu un errore: da allora Mussolini viene gestito da un gruppo di commercianti invece che dalla comunità». L’ha detto tante volte il sindaco Frassineti: «Raduni e fascisteria sono i nemici di Predappio. Non ci permettono di pensare al futuro, ci relegano al passato, fuori dalla storia. Bisogna ribaltare tutto: non celebrare il Duce degli italiani, ma capire il fascismo e Mussolini». E cosa meglio di un grande museo?
Intanto, per preparare la strada, che sarà lunga, costosa e scivolosa, il sindaco ha tracciato il solco. Con una decisione storica, pochi mesi fa, ha aperto la Casa natale di Mussolini, il «vecchio» casone sopra l’esedra del mercato – da sempre meta di pellegrinaggio, insieme alla cripta nel cimitero in fondo al paese – per ospitare una mostra su Il giovane Mussolini: lettere, cartoline, fotografie, giornali, ritratti che raccontano gli anni dell’adolescenza e la formazione politica dell’Uomo nuovo venuto dalla Terra del nulla… La mostra, per nulla celebrativa, con un comitato scientifico composto da storici di sinistra, è aperta solo nel weekend e stacca un centinaio di biglietti al giorno. Nessun neofascista, tutta gente normale.
Fa impressione, arrivando davanti alla vecchia casa del fabbro, incrociare gli occhi di un giovane Benito Mussolini, baffi e finanziera, nella gigantografia 6 metri per 6 che campeggia sulla facciata. Eppure, anche se una cosa del genere era impensabile fino a pochi anni fa, in una Predappio che certe cose preferisce non vederle, o che sopporta con fastidio, non c’è stata la minima polemica. «A riprova che la mostra è stata fatta con attenzione – è la spiegazione che si dà con orgoglio Franco Moschi, che ha concesso il materiale esposto, 200 “pezzi” su una collezione personale di oltre 35mila, probabilmente la più grande esistente sul fascismo -. Niente di politico o di politicizzato, perché non c’è niente da negare o da celebrare. Solo capire le radici di una vita che ha segnato il Novecento».
Predappiese («Ma per anni ho detto che ero di Forlì…, essere di qui non è facile, mi creda»), 53 anni, imparentato alla lontana coi Mussolini («Il mio bisnonno e Benito erano cognati, Romano è stato per me un secondo padre e Donna Rachele mi regalò i primi libri…»), Franco Moschi conosce bene il fascismo, e ancora meglio Predappio. «Non abbiamo bisogno di elmetti e gagliardetti. Ma di mostre e di studi».
In Italia si contano circa 55 Istituti storici della Resistenza. Molte le mostre e le manifestazioni per ricordare ciò che accadde alla «fine» o «dopo» il Ventennio. Nulla su ciò che fu «all’inizio» o «durante».
Predappio, dove tutto cominciò, centotrent’anni fa, sarebbe perfetta per la prima museificazione del Fascismo. C’è una splendida Casa del Fascio da recuperare, un sindaco di sinistra che ci crede, una città che vuole uscire dal silenzio e abbattere i sensi di colpa. Ben più resistenti, purtroppo, dei fasci littori di marmo.
Fonte: Il Giornale, 19 aprile 2014

…….Non è ancora ciò che è giusto che sia a oltre 70 anni dalla fine del fascismo e dalla morte del suo fondatore, cioè una riscritura oggettiva, scevra da rancori e odi, giustizialismo e aprioristiche condanne, di ciò che fu il fascismo e il suo fondatore, ma questa idea di un sindaco postcomunista di un Museo del fascismo,  nel luogo dove nacque Mussolini, e che durante il ventennio fu eretto a simbolo del regime e nel dopoguerra a  luogo di adunate nostalgiche,   sembra essere stata partorita dalla fantasia dell’indimenticabile Giovanni Guareschi. Un post comunista che si incarica di riscrivere secondo verità la storia di un quarto di secolo della nostra storia è una notizia che segna, speriamo per sempre, la fine  del clima da  guerra civile che nonostante i 70 anni trascorsi,  per taluni è ancora in atto. g.

CARO BUBBICO, SCENDA IN PIAZZA, di Gian Marco Chiocci

Pubblicato il 17 aprile, 2014 in Cronaca, Politica | Nessun commento »

Caro viceministro dell’Interno, Filippo Bubbico, non ce ne voglia ma siamo rimasti interdetti dalla sua intervista a Repubblica dove si dice indignato per le mele marce in polizia riservando solo poche timide righe ai soliti idioti che – alla faccia del codice – scorrazzano impuniti quando andrebbero fermati se sorpresi in strada armati e mascherati. Spiazzati perché a fronte della guerriglia urbana nel centro di Roma, dal referente governativo delle forze dell’ordine persino l’ultimo dei piantoni in commissariato si sarebbe aspettato un intervento più alto a difesa di quanti dopo aver passato ore a prendersi insulti, sputi, calci, pugni, pietre, bulloni, bastonate, bombe carta e bottiglie molotov, eccedono (sbagliando) tra i fumi dei lacrimogeni e la paura di restarci secchi. Anziché proporre misure drastiche contro i violenti che solo in questo disgraziato Paese sguazzano nell’impunità, Lei signor viceministro è riuscito a rilanciare la proposta antagonista di una schedatura identificativa degli agenti in ordine pubblico. Per rifarsi dello scivolone che metterebbe a rischio di rappresaglia gli operatori dei reparti mobili e le loro famiglie, ha oggi l’occasione di rifarsi, di capire meglio lo stato dell’arte e al contempo di passare alla storia del Viminale. Se permette, le suggeriamo come: al prossimo appuntamento con i black block, stipuli una polizza-vita, lasci l’ufficio e scenda in piazza insieme a poliziotti e carabinieri. Prima però indossi un casco, pretenda uno scudo (perché le pioverà addosso di tutto) e dopo aver trascorso anche solo dieci minuti tra gli eroi normali mandati al macello con stipendi da fame rispetto al suo, capirà tante cose. Per cominciare da che parte dovrebbe definitivamente stare lo Stato e chi, come Lei, lo rappresenta. Gian Marco Chiocci, Il Tempo, 17 aprile 2014

…….10 e lode al Direttore de IL tEMPO PER QUESTA LETTERA “APERTA” AL VICE MINISTRO DELL’INTERNO.

PERCHE’ FU GIUSTIZIATO IL FILOSOFO GIOVANNI GENTILE? A 70 ANNI DALLA MORTE UN LIBRO RIAPRE GLI INTERROGATIVI SULLA SUA MORTE.

Pubblicato il 16 aprile, 2014 in Cultura, Storia | Nessun commento »

gentile.JPGGiovanni Gentile, assassinato a Firenze il 15 aprile 1944, era stato Ministro della Pubblica Istruzione nel primo governo Mussolini, reca la sua “firma” la riforma della scuola  del 1923 che ha resistito per decenni, mal sostituita dalle altre riforme che si sono susseguite in questi ultimi anni. La sua uccisione destò scalpore e sdegno perchè benchè Gentiule avesse aderito alla RSI, se ne coniosceva la dirittura morale, l’alto senso dello Stato, la sua profonda dedizone alla causa della pacificazione nazionale mentre imperversava la guerra civile. Che sia stato ucciso dai comunisti è fuor di dubbio, resta un mistero il perchè. Un libro appena publicato riapre la questione e propone molti dubbi, provocando molti interrogativi. Lo ha recensito l’Occidentale con una nota di Daniela Coli che qui si riproduce.

La morte di Giovanni Gentile, ucciso  il 15 aprile 1944 a Firenze appena arrivato  a casa, a Villa Montalto, alle pendici di Fiesole, è uno dei grandi delitti italiani irrisolti, come quello di Moro, perché si sa chi ha sparato, un gappista, e che fu rivendicato dal Pci, ma rimangono  dubbi sui mandanti, perché erano molti a volerlo morto per la sua campagna di pacificazione: Gentile non voleva che gli italiani si scannassero tra loro, come nella secolare storia della penisola, mentre due eserciti stranieri combattevano furiosamente sul suolo italiano per decidere il futuro dell’Italia.

I comunisti lo condannarono a morte nel marzo ’44 sulla “Nostra Lotta”, ma anche sulla Stampa – come ha ricordato Gennaro Malgieri in questi giorni – giornalisti solitamente non estremisti lo attaccavano sdegnati come alcuni intransigenti della Rsi. La Ghirlanda fiorentina, in uscita da Adelphi il 16 aprile, di Luciano Mecacci, autorevole psicologo dell’ateneo fiorentino, è un volume documentatissimo, che apre molte zone d’ombra del delitto Gentile e nuove piste su mandanti e complici. Con intelligenza e pazienza, Mecacci, usando il metodo delle costellazioni, ricostruisce reti di  interessi disparati – da quelli politici a quelli più banalmente accademici – che con strategie diverse avevano in comune l’obiettivo della morte dell’ultimo grande filosofo accademico italiano.

Ritorna la pista britannica: dall’italianista scozzese John Purves, a Firenze nel ‘38 incaricato dai servizi segreti inglesi di raccogliere nomi e informazioni di uomini di cultura utilizzabili dall’intelligence britannica nell’imminente conflitto all’orizzonte, che dette appunto il titolo di Ghirlanda fiorentina alla lista dei nomi raccolti, a radio Cora, l’emittente azionista fiorentina in contatto con gli inglesi, a Bernard Berenson nella splendida villa di Settignano con ospite Igor Markevitch, ai servizi segreti britannici di radio Bari, fino  agli azionisti fiorentini, i quali per primi cercarono un killer per Gentile.

Ci sono poi gli accademici, il meglio dell’intellighenzia italiana del secondo Novecento, amici, allievi e collaboratori di Gentile: Cesarini Luporini, Eugenio Garin, Mario Manlio Rossi, Antonio Banfi,  Guido Calogero, Ranuccio Bianchi Bandinelli, Concetto Marchesi e, sullo sfondo, l’inquietante Igor Markevitch, con un ruolo importante nella rivista fiorentina “Società”, a cui collaborano Ranuccio Bianchi Bandinelli, Romano Bilenchi e Luporini. In questo puzzle di doppi giochi e ipocrisie di ogni tipo, il filosofo marxista e senatore comunista Luporini rimane la figura più coerente e più umana, perché la sua appartenenza al Cnl e al Pci era nota a Gentile.

Dopo la pubblicazione de La Sentenza di Luciano Canfora, che riaprì il dibattito sul delitto Gentile, in una trasmissione radiofonica del 1989 in onore di Eugenio Garin, Luporini, ancora sconvolto per la morte di Gentile, rivela che “ci sono cose che forse ancora non si possono dire”. Attento ai dettagli, senza mai puntare il dito, in oltre cinquecento pagine Mecacci tenta di scoprire le cose che Luporini pensava non si potessero ancora dire nel 1989.

Mecacci ricostruisce il grande affresco della Firenze dell’aprile del ’44, quella di “Italia e civiltà”, fondata e diretta da Barna Occhini, genero di Giovanni Papini, con collaboratori come il giovanissimo Giovanni Spadolini, Ardengo Soffici e il giovane filosofo Raffaello Franchini, che accusò della morte di Gentile gli intellettuali del Cln e gli accademici, gli amici, gli allievi e i collaboratori di Gentile, quella dei professori di Lettere e filosofia, quella dei massoni, quella di Carità, quella dei tedeschi, quella dei gappisti, organizzati in una struttura piramidale, simile a quella delle Brigate rosse, quella dei partiti del Cln toscano.

Descrive vari salotti fiorentini, dove s’incontrano spie, artisti, future celebri ballerine, nobili, scrittori, intellettuali, accademici, massoni e perfino ufficiali tedeschi. Mecacci approfondisce un episodio finora ignorato dagli storici che si sono occupati di Gentile, ma che non sfuggì all’ineffabile Berenson: l’uccisione del segretario fidatissimo di Gentile, Brunetto Fanelli a Cercina, il 10 aprile, insieme a cinque giovani della zona. Una esecuzione inspiegabile, compiuta non si sa da chi – se  da tedeschi o italiani travestiti da tedeschi – perché Fanelli non era un attivista politico di alcun genere. Il cadavere di Fanelli e degli altri cinque furono nascosti e solo il 15 aprile Giovanni Gentile seppe della fine del suo segretario.

Le ore precedenti la morte Gentile le passò sconvolto dall’uccisione del suo segretario e preoccupato dalla scomparsa di documenti importanti affidati a Fanelli. Poiché il 18 aprile Gentile doveva recarsi a Gargnano a incontrare Mussolini, dove si sarebbe discusso dell’impiego dell’ingente eredità Feltrinelli lasciata all’Accademia d’Italia a Firenze, la strana uccisione di Fanelli, la casa messa sottosopra alla ricerca di qualcosa, e il materiale importante che il filosofo voleva recuperare, aprono l’autore alla nuova prospettiva che i colpi sparati a Gentile non siano stati per il suo passato, ma per il ruolo che avrebbe potuto avere in futuro.

E’ noto che Gentile fin dal 24 giugno del ’43, nel famoso discorso del Campidoglio, e sul Corriere della Sera alla fine del ‘43, dopo l’adesione alla Rsi, si era posto come obiettivo quello della pacificazione nazionale. Gentile voleva evitare qualsiasi guerra tra italiani e, per questo, in un’Italia divisa e occupata da angloamericani e tedeschi, invitava sia i partigiani sia i fascisti a non prendere le armi gli uni contro gli altri. Gentile non era un pacifista, né un filosofo con la testa tra le nuvole, era un realista politico e sapeva quanto sia importante per un popolo rimanere unito e dignitoso anche in caso di sconfitta.

Gentile fu il filosofo della nazione, al fascismo era arrivato attraverso la riflessione sul Risorgimento, era consapevole come l’unificazione italiana fosse stata un processo elitario e quanto fosse necessario farla diventare un valore di tutti. Il fascismo, come disse nel ’27, inaugurando l’Istituto nazionale di cultura fascista, consisteva per lui nel tentativo di unificare “una nazione di quaranta milioni di uomini; una nazione tra le più antiche del mondo, passate per tutte le esperienze, esperta in tutte le idee, logorata da tutte le ideologie e da tutte le tirannidi, e, almeno apparentemente, prona allo scetticismo e alla indisciplina”. Non aveva la testa tra le nuvole Gentile.

Aveva lavorato una vita, scritto tanto, per tentare di fare diventare l’Italia una nazione, e non voleva vederla spezzarsi nel sangue, alleata a due eserciti stranieri. Voleva evitare una guerra tra italiani e forse pensava a una soluzione per evitarla, forse ne avrebbe parlato a Mussolini, e per questo fu probabilmente ucciso. A settant’anni dalla morte di Gentile, ai tanti storici e filosofi accademici che anche negli ultimi anni hanno continuato a ripetere che Gentile doveva essere ammazzato, l’unica obiezione sensata pare il dubbio con cui Paolo Mauri conclude la recensione al libro di Mecacci su Repubblica: “Ma Gentile doveva essere giustiziato?”.

Dall’immediato dopoguerra a oggi su Gentile si sono accumulati tanti  grovigli politico-ideologici ed equivoci, e c’è una singolare alleanza tra filosofi, che, sulla scia del Garin del 1955, ritengono che dall’attualismo si potesse addirittura passare al comunismo, e storici per i quale Gentile, filosofo reazionario e fascista, doveva essere giustiziato. Il libro di Luciano Mecacci rappresenta, dunque, un contributo importante, per uscire dalla palude di grovigli e di equivoci diventati ormai insostenibili e riaprire la strada alla ricerca.  Fonte: L’occidentale della domenica, 15 aprile 2014

LE RUGHE DEL POTERE, di Massimo Franco

Pubblicato il 16 aprile, 2014 in Politica | Nessun commento »

Per Silvio Berlusconi la campagna elettorale europea sarà in salita: ancora di più dopo la decisione del tribunale di sorveglianza di Milano di affidarlo in prova ai servizi sociali in un centro per anziani a Cesano Boscone. Le restrizioni a cui sarà sottoposto difficilmente potranno essere considerate tali da limitare quella che con espressione burocratica viene definita «agibilità politica». E se otterrà un risultato deludente, magari potrà recriminare perché è incandidabile dopo la condanna per frode fiscale; ma non per la decisione comunicata ieri dai giudici.

L’epilogo delle sue vicende giudiziarie consegna in realtà l’immagine di una guerra, se tale è stata, finita da tempo; e della quale si vedono gli ultimi bagliori, mentre intorno tutto sta cambiando. Perfino i magistrati, evidenziando «la scemata pericolosità sociale» dell’ex premier, fotografano involontariamente il tramonto di un’epoca. Alcuni dei «fedelissimi» si stanno defilando. E gli antichi avversari di sinistra ne celebrano la fine politica: sebbene non si rendano conto che il declino del berlusconismo coincide anche con quello di un certo antiberlusconismo.
A rivelare il ridimensionamento del Cavaliere, o ex tale, non sono gli attacchi residui contro di lui, ma l’asse con Matteo Renzi. Il fatto che il segretario del Pd e presidente del Consiglio lo abbia incontrato due volte, stabilendo un’intesa istituzionale prima impensabile, dice due cose. La prima è che la vecchia sinistra non ha né il potere né la convinzione per continuare l’ostracismo contro di lui: nemmeno dopo le condanne. La seconda è che Renzi si sente abbastanza forte da poter usare Berlusconi per i suoi piani politici: prima per far cadere Enrico Letta, ora per le riforme.

La differenza rispetto al passato è che un tempo il fondatore di Forza Italia dettava l’agenda al Paese, agli alleati e all’opposizione. Ora, invece, è costretto a condividerla o addirittura a sentirsela imporre da qualcuno che appare più moderno di lui; e in possesso di alcune delle doti e dei difetti sui quali ha costruito a lungo i propri consensi. Già si favoleggia sui «numeri» che Berlusconi farà nel centro per anziani; e di duelli a distanza con la magistratura milanese. I seguaci contano i mesi e vaticinano il suo grande ritorno. Ma non ci sarà nessun ritorno, perché continua a fare politica anche adesso.

La fa come può, appesantito non tanto dalle condanne quanto dal fallimento di un modello culturale ed economico inadeguato ad una crisi gravissima; e circondato da un consenso eroso non dai pubblici ministeri ma dagli errori politici: a cominciare da quello di avere sciupato occasioni storiche per riformare l’Italia, e di non essersi circondato di una classe dirigente degna di questo nome. Le ultime vicende trasmettono un’immagine di Berlusconi un po’ malinconica, dolorante dietro l’eterno sorriso, in verità sempre più tirato. È la fotografia di un sopravvissuto, al quale si deve rispetto: sperando che lui per primo rispetti se stesso e la sua nuova, temporanea condizione.Massimo Franco, Il Corriere della Sera, 16 aprile 2014.

LE VIOLENZE A ROMA: IL SOLITO CAPRO ESPIATORIO

Pubblicato il 16 aprile, 2014 in Cronaca, Giustizia, Politica | Nessun commento »

Saranno contenti i giustizialisti un tanto al chilo, i perbenisti radical chic, i partigiani piagnucolosi del giornalismo a senso unico. Anche stavolta hanno trovato il colpevole per l’indecente guerriglia nel cuore di Roma culminata con il ricovero in ospedale di 20 poliziotti, acciaccati dalla testa ai piedi: il responsabile unico per gli assalti, per le molotov, le pietre, le vetrine infrante e le auto sfondate diventa un agente della questura ripreso in un video diffuso dalla trasmissione Servizio Pubblico mentre calpesta una manifestante a terra.

Immagine forte, dura, d’impatto. Obiettivamente difficile da giustificare anche se la corsa a condannarlo al patibolo mediatico dovrebbe far riflettere quanti si son dovuti ricredere su fatti analoghi poi smontati da sentenze assolutorie. Chi da sempre trasuda odio verso le forze di polizia, i nostri militari all’estero, un eroe come Quattrocchi che ricordò a tutti come ci si comporta da italiani, oggi danza felice intorno alle spoglie di questo servitore dello Stato che se ha sbagliato, e sottolineiamo «se», pagherà com’è giusto che sia.

Non ci accodiamo all’orda dei forcaioli col taccuino che mai una parola di condanna vergano sui black block. E nemmeno plaudiano a un capo della polizia che corre a dare del «cretino» a un suo uomo a dispetto di ogni garanzia e presunzione d’innocenza. L’eventuale comportamento ingiustificabile di un singolo agente non giustifica il silenzio assordante della politica e la tolleranza dei soliti media verso chi puntualmente distribuisce violenza e terrore nell’impunità totale. A quanti oggi invocano il riconoscimento numerico sui caschi degli agenti, chiediamo di immedesimarsi nei ragazzi e nei padri di famiglia abituati a giocarsi la pelle per 1.200 euro al mese sapendo che dai boschi della Tav alle curve dello stadio la ragione sarà sempre di chi offende. Nessuno difende i difensori, noi sì. Gian Marco Chiocci, iL TEMPO, 16 APRILE 2014

…….Meno male che c’è Chiocci, un giornalista coraggioso, e il Tempo, un quotidiano dalle antiche tradizioni liberali sin dai tempi del suo fondatore, Renato Angiolillo, che trovano il coraggio di difendere un servitore dello STATO TRASFORMATO, COME AL SOLITO, DOPO LE  VIOLENZE DEI CRIMINALI CHE HANNO MESSO A SOQUADRO rOMA NEL SILENZIO ASSORDANTE DI TUTTI, NEL CAPRIO ESPIATORIO ALLO SCOPO DI COPRIRE I VERI VIOLENTI E I VERI RESPONSABILI, VERI E PROPRI DELIQNUENTI A CUI SI RICONSOCE IL DIRITTO DI VIOLARE LE LEGGI, MENTRE SI PRETENDE CHE I SERVITORI DELO STATO DABBANO PRENDERLe SENZA DIFENDERSI.

BERLUSCONI E’ FINITO? RINGRAZI RENZI

Pubblicato il 14 aprile, 2014 in Politica | Nessun commento »

Questa volta il Cavaliere, anzi l’ex Cavaliere, é, davvero, in difficoltà. Forse le conseguenze dei suoi errori stanno arrivando, tutte insieme. I servizi sociali. E l’obbligo di non attaccare più la magistratura. Un’umiliazione per un leader che ha guidato il Paese per tanti anni. Ma anche un’espressione di giustizia. Chi ha commesso un reato deve scontarne la pena. Ci sta tutto, per chi lo ama e chi lo detesta. Ma non c’è più l’afflato di un tempo, non c’è più la rabbia nei suoi sostenitori che arrivavano a scendere in piazza per difenderlo. Ci sono i suoi fedelissimi, sempre meno in realtà, che lo difendono ma che non incidono più sull’opinione pubblica. E non c’è più lui a combattere come un leone. I sondaggi danno Forza Italia in picchiata.Ma non è solo per la vicenda giudiziaria che Berlusconi é messo male. Ha fatto delle scelte sbagliate, a mio avviso, per il suo partito. Non so ancora se giuste per il Paese. E l’artefice é stato Renzi che, sdoganandolo dall’angolo in cui era finito, lo ha di fatto annullato. Fantastico. Tutti i leader del Centrosinistra che lo demonizzavano lo hanno, di fatto, sempre rafforzato. Ora arriva il fiorentino che lo riconosce come leader, va a trovarlo ad Arcore e, di fatto, lo distrugge. Perché Silvio, ingenuamente, é caduto nella sua rete. In primis, a furia di dire che Renzi é bravo Berlusconi sta portando i suoi elettori a votarlo. Perché se il segretario del Pd é così affidabile, così in gamba, così non-comunista allora tanto vale farlo lavorare mentre guida il Governo e votarlo! L’elettore medio non distingue la cooperazione per le riforme e l’opposizione per l’azione di governo. Anche perché una vera opposizione Forza Italia non la sta facendo. C’è solo Brunetta che si sforza di attaccare tutti i giorni l’Esecutivo ma, davvero, sono lontani i tempi in cui il partito di Berlusconi contestava il Governo in modo capillare e proponeva ogni giorno alternative ghiotte per l’elettore di Centrodestra. Ora, oltre agli sprazzi della Lega e dei Fratelli d’Italia, gli unici che fanno davvero opposizione sono i grillini. Magari a modo loro, magari non sono simpatici. Ma sono i soli. Allora, se mi piace Renzi voto Renzi, al massimo Alfano se proprio il Pd non mi va giù, ma se non mi piace non voto più Forza Italia. Punto. Ma non solo. A furia di dire che il Pd é cambiato grazie a Renzi, all’ex cavaliere viene a mancare il principale collante anti-sinistra che gli ha dato il potere negli ultimi anni. La paura dei comunisti, la propaganda contro la sinistra che voleva il livellamento sociale, che attentava al prezioso gruzzolo guadagnato negli anni. Ora non c’è più. E quindi perché odiare la sinistra se é diventata così simile alla destra?Insomma. Renzi ha fatto un capolavoro. Riconoscendo Berlusconi lo ha indebolito fino ad annullarlo. Al resto ci ha pensato la magistratura. Anzi, ci ha pensato lui facendosi condannare. Perché impedirgli di attaccare le toghe vuol dire sottrargli l’altra arma che lo ha sempre caratterizzato. L’odio per i giudici. A questo punto cosa resta? Delle trovate di immagine, a esempio. Ma come competere con le donne giovani e belle capolista del Pd? Con i suoi che si sfilano o che rifiutano semplicemente le candidature? Cosa resta a Forza Italia che in tanti anni non ha prodotto figure nuove e non ha fatto crescere le sue? O, peggio, se le é fatte scappare. Vedi la Lorenzin o Lupi, per non parlare di Alfano. A questo punto gli resterebbe solo la sua grande capacità di vendere sogni. Ma anche a questo sta pensando Renzi. Cosa può promettere ancora? Le riforme le assicurano insieme. Gli ottanta euro in busta paga, fotocopia elettorale della gratuità dell’imu, li ha già garantiti, per ora a parole, Renzi. Resterebbero solo le promesse da euroscettici: se vinciamo usciamo dall’euro, magari. O andiamo in Europa a cantargliele. Ma non può farlo, stando nel PPE.É bloccato l’ex premier, insomma, anche dalle sue stesse mosse. Rischia lo scacco matto alle prossime elezioni mentre sconterà i servizi sociali. Il Centrodestra deve trovare un altro leader. Forse forse, Alfano non era così senza quid. Adriana Santacroce, Affari Italiani, 14 aprile 2014……………..La notte del 25 maggio sarà l’ora della resa dei conti fra gli italiani e Berlusconi. I risultati elettorali delle europee diranno se ancora il presidente Berlusconi gode della fiducia degli italiani, oppure se le sue vicende insieme alla pochezza di molta della sua clasae dirigente, centrale ed perfierica, vecchia e nuova,  saranno riuscite a sconfiggerlo definitivamente.

RENZI INNOVA IL LESSICO,MA E’ OSSESSIONATO DA GUFI E ROSICONI, di Pierluigi Battista

Pubblicato il 10 aprile, 2014 in Politica | Nessun commento »

Matteo Renzi di certo ha  portato una ventata di innovazione. Nella politica. Nello stile pubblico. Nella modernità dei riferimenti culturali. Nella composizione anagrafica del governo. Anche nel lessico. Con qualche dolorosa eccezione, però. Quando Renzi accusa i suoi critici di voler «remare contro» non sente che l’ha già detto qualcuno? Non percepisce forse il contrario dell’innovazione, un tuffo nel passato, un sapore di già detto, qualcosa che abbiamo già abbondantemente sentito in questi anni di Seconda Repubblica e anche prima, un tic mentale che identifica nel dubbioso, nel perplesso, non sia mai nell’oppositore, un sabotatore, un nemico della Patria? Il suo collega di governo Franceschini ha già riesumato la triste e bellicosa categoria del «disfattista». No, già dato. Occorre innovare di più: anche nel linguaggio.

E invece la sana spavalderia, il ritmo arrembante, l’energia che sprigiona dalla persona del giovane presidente del Consiglio ogni tanto, nella loro

Ci sarà pure la possibilità che qualche obiezione sia mossa da qualche buona intenzione e che non debba essere messa a tacere dal cerchio magico renziano

precipitazione, appannano gli usi buoni del linguaggio. Come è possibile che chi, legittimamente e giustamente, chiede quali siano le coperture finanziarie per ridurre il cuneo di 80 euro a dieci milioni di italiani, venga additato al pubblico scherno come un «gufo». E chi è perplesso su questa particolare riforma del Senato deve essere per forza bollato come uno «che rema contro»? Ci sarà pure la possibilità che qualche obiezione sia mossa da qualche buona intenzione e che non debba essere messa a tacere dal cerchio magico renziano pronto a indossare i panni del neo-arditismo giovanilista: «parruccone». Oppure prevale il modo manicheo: chi è con Renzi con entusiasmo è un patriota, chi obietta è un riottoso che «gufa» contro la Nazione, deve essere per forza un frenatore, insensibile all’alacre attivismo di chi si spende con tanta generosità alla guida del governo? Occhio, perché i «regimi» (linguistici) possono cominciare anche così, malgrado le migliori intenzioni.

Renzi fa bene ad accelerare, a imprimere un ritmo che metta fine alle inconcludenze del passato, alle infinite discussioni che paralizzano ogni attività e impediscono ogni riforma. Ma farsi qualche domanda non dovrebbe essere deprecata come malsana e patologica inclinazione «antidemocratica». C’è poi l’orribile predominio di una nuova parola, un tempo adoperata nella suburra romana e oggi assurta a sublime categoria politico: «rosicone». Rosicone è chi rosica, è chi gode delle disgrazie altrui ed è corroso («roso»: rosicone) da un’insana voglia di augurarsi l’insuccesso di chi merita successo. Ecco, un fiorentino orgoglioso, perché chi parla un buon italiano dovrebbe manzonianamente immergersi nell’Arno, non dovrebbe cedere al plebeismo del «rosicone». Anche «uccellacci del malaugurio» non va bene per niente. È vecchio, non è giovanile. È superstizioso, non è moderno.

Dubitare che dalla spending review annunciata vengano tutti i denari per le misure annunciate non è augurarsi il malaugurio, è essere realisti. E se alcune cose

Dubitare che dalla spending review arrivino tutti i denari necessari per le misure annunciate non è augurarsi il malaugurio, è essere realisti

annunciate non possono essere realizzate (il piano di edilizia scolastica rimandato, per esempio) non è perché qualche «gufo» l’ha tirata, ma più prosaicamente perché i soldi non bastano; lo dice la contabilità, non chi «rosica». Ecco, «rosicare» va bene per una curva, non per le opinioni politiche. Si «rosica» se la squadra odiata o temuta miete successi, non si «rosica» se si avanzano dubbi sulla fattibilità di mirabolanti progetti. Se poi si disseppellisce il luogo comune trito e consunto del «disfattismo» allora la democrazia e la pluralità di opinioni cominciano a venir percepite come un oltraggio. Un tradimento. E infatti il «disfattismo» diventa centrale nelle guerre quando la trasparenza di un dibattito libero e democratico è destinata ad appannarsi. Mentre invece Matteo Renzi vuole fare le riforme, non la guerra. Vuole realizzare programmi ambiziosi, non mettere il bavaglio (morale) a chi dissente. Anche lui è stato in minoranza e da lì ha combattuto una battaglia coraggiosa. Ora che è maggioranza non ha bisogno di umiliare le opinioni dissenzienti e concorrenti. Non sono «gufi», sono solo in cerca di risposte convincenti. Che male c’è? Domanda, non «rosicata». Pierluigi Battista, Il Corriere della Sera, 10 aprile 2014

…..Battista di fatto, finge di elogiare Renzi, ma di fatto lo  bastona (con le parole), contestandogli ciò che uno statista, vero,  in democrazia, non si può permettere: denigrare gli avversari, o anche gli amici, che nutrono dubbi, legittimi, sui provvedimenti che assume, anzi che sinora ha solo annunciato. Anche perchè lui non è il nuovo Messia, è solo uno dei tanti che si alternano in posti dove  altri ci sono già stati e altri ci saranno nel futuro, sempre che il Renzi, magari, un giorno o l’altro, non decida che votare è inutile, perchè ci pensa lui. g.