Alla fine, seppure non per la via maestra elettorale, il sindaco d’Italia è davvero arrivato. I due sindaci anzi, visto che a Palazzo Chigi Matteo Renzi avrà al suo fianco Graziano Delrio. Il nuovo governo è una fotografia dell’ansia di novità del premier. Ma è anche la misura dei limiti di un esperimento che risente del mondo antico in cui è nato: un Parlamento privo di una maggioranza elettorale, una coalizione variopinta composta di nove sigle, un’Europa in cui siamo ancora osservati speciali. È finalmente ricco di donne, raggiungendo standard da Paesi nordici; ed è affollato di gente nuova, anche se in qualche caso sembra di seconda fila. Ma, allo stesso tempo, il premier ha dovuto cedere su due punti per lui simbolici. Il primo è Alfano, il dioscuro di Letta: resta nel governo che si voleva «delettizzare», seppure perdendo i galloni di vice; il secondo è il Tesoro, dove non va un uomo di Renzi, ma un uomo delle istituzioni finanziarie, quel Pier Carlo Padoan la cui carriera all’estero è stata considerata indispensabile, come fu con Grilli e Saccomanni, per sedere ai tavoli dove si decide e si parla inglese.
Si può insomma dire che la vera innovazione del «Renzi 1» è Renzi stesso, il più giovane premier, per giunta extraparlamentare, dall’Unità d’Italia a oggi, e uno dei più ambiziosi. È lui la forza gravitazionale su cui si basa il governo, perché se cade lui cade anche l’ultima chance della legislatura e si fanno male in tanti. Dunque solo lui può dare anima a un esecutivo che per il resto non ha né più voti né più star di quello di Letta.
Soprattutto è da sperimentare la troika economica, un po’ troppo assortita, con un’esponente di Confindustria allo Sviluppo e uno delle Coop al Lavoro, dove dovrebbe nascere la riforma chiave per aprire il cuore dei burocrati di Bruxelles. Ed è una vera e propria scommessa la scelta di cambiare nel pieno della crisi dei marò il ministro degli Esteri, sostituendo una delle italiane più note nel mondo, Emma Bonino, con una delle migliori giovani del Parlamento, Federica Mogherini, che dovrà ora imparare un mestiere nuovo e complicato.
Non a caso il parto è stato tra i più laboriosi di sempre. Lo si è capito da quanto tempo il premier ha passato nello studio del capo dello Stato, che per la Costituzione ha il potere di nominare i ministri. E lo si è capito dai nomi che non hanno resistito al vaglio, come quello di un procuratore della Repubblica, Gratteri, alla Giustizia.
Quanto durerà? Almeno fino alla riforma del Senato, ora saggiamente legata all’entrata in vigore della nuova legge elettorale. Ma non dipende solo da Renzi. Berlusconi ha in mano la seconda maggioranza, quella che deve fare le riforme. Il gioco è dunque a due. Speriamo non sia doppio. Antonio Polito, Il Corriere della Sera, 22 febbraio 2014
…..Come è noto nei giornali esiste la figura del titolista, cioè colui il quale letto l’articolo, sceglie il titolo, ovviamente sulla scorta di ciò che vi è scritto. Cosicchè il titolo dell’articolo di fondo di questa mattina del maggior quotidiano italiano, del più letto, del più seguito in tutti i sensi, interpreta così – esuberante debolezza - la valutazione che Polito, attento e arguto analista della politica, dà del nuovo governo e del suo capo. E coglie nel segno Polito, non solo perchè egli di certo conosce fatti e retroscena che hanno accompagnato la nascia del Renzi n. 1, ma anche perchè taluni segnali ben chiari a tutti non lasciano spazi per un governo forte, capace, di punto in bianco, di realizzare obiettivi e raggiungere traguardi significativi, segnali che evidenzianio appunto la debolezza di un esecutivo targato PD ma nato sulle ceneri di un altro esecutivo targato anch’esso PD, gettato via senza nè riguardi nè cortesie. E in politica ciò ha un suo prezzo. Basta l’immagine dello scambio di muto gelo tra Letta e Renzi al momento dello scambio delle consegne, neppure minimamente nascosto, a dare contezza che questo governo nato sull’onda di una sfrenata ambizione di Renzi rischia di scivolare per la legge del contrappasso che da sempre regola le cose della politica. Chi rischia di rimanere nuovamente schiacciato è il Paese, la Nazione, il Popolo italiano cui importa poco che le donne siano in numero uguale agli uomini, che le fiorentine non siano solo le bistecche ma anche le dame bianche di Renzi, importa invece che si riparta. Senza fermarsi a Firenze dintorni. g.
Non sembra vero che nel secondo decennio del 21° secolo si debbano rivedere in Europa scene che eravamo convinti dovessero ormai appartenere al passato. Almeno al secolo scorso, quello che fu insanguinato da ben due guerre mondiali e nella seconda parte del secolo dal predominio di una terribile e sanguinosa dittatura che avrebbe tenuto in galera interi popoli, quelli dell’Europa dell’Est, imprigionati dietro la cosiddetta cortina di ferro, costretti alla miseria e ridotti alla schiavitù, sino a quando la caduta del Muro di Berlino, nel 1989, non li avrebbe infine resi liberi e restituiti alla vita. Prima che ciò accadesse, tragici eventi sconvolsero alcune di quelle Nazioni, tra cui la Cecoslovacchia e l’Ungheria, le cui capitali, prima Budapest nel 1956 e poi Praga nel 1968 furono teatro della sanguinosa repressione dei carri armati sovietici e pagarano con il sangue di tanti sconosciuti eroi il loro anelito di libertà e di indipendenza. Da allora sono trascorsi decenni, l’Europa si è unita, almeno sotto il profilo economico e monetario, tanti dei Paesi al di là della ex cortina di ferro, non solo sono governati da sistemi ispirati alla democrazia parlamentare, ma molti fanno parte a pieno titolo, dell’Unione Europea. Eppure tutto ciò non ha impedito che in Ucraina, ex granaio d’Europa, e nella sua capitale, la splendida Kiev, ancora in queste ultime ore, un governo illiberale tornasse ad utilizzare i sistemi e ad adottare gli strumenti tipici delle dittature comuniste, tentando di impedire lo svolgersi di manifestazioni antigovernative e filoeuropee, e poi aprendo il fuoco sui manifestanti, nel tentativo di disperderli. Le immagini giunte da Kiev non lasciano spazio ad equivoci, si tratta di una brutale repressione che mira, come già era accaduto più di mezzo secolo fa a Budapest e a Praga, a reprimere la rivolta e il diritto alla libera autodeterminazione del popolo ucraino. Sono decine i morti che si contano al termione degli scontri tra poliza e manifestanti e solo a tarda notta il presidente filosovietico ha acconsentito ad una tregua accettando l’invito in tal senso dell’Europa e il pressing esercitato dal presidente americano, sconvolto, sonmo sue parole, dalle immagini che “mai più avremmo voltuo rivedere”. Invece le rivediamo, perchè dovunque il comunismo continua a governare lo fa con il solo modo che conosce, il terrore e la repressione. Kiev brucia, il mondo libero intervenga prima che sia troppo tardi. g.
Ultimora: la tregua si è infranta già alle prime ore del mattino, e scontri vilentissimi sono in corso tra manifestanti antigovernativi e forse speciali del regime filorusso che vuole impedire l’adesione alla UE dell’Ucraina, che è sempre sull’orlo della guerra civile. Non accada anche ora ciò che accadde all’epoca delole rivolte di Budapest e di Praga, quando gli occhi del mondi si volsero dall’altra parte. Intervengano gli organismi intgernazionali come tre anni addietro in Libia, anche se l’Ucraina non ha giacimenti petroliferi o altgre ricchezze, salvo una, l’antica civiltà cattolica ed europea.g.
Con questo manifesto le Associazioni Dalmate, Giuliane e Istriane degli esuli di quelle terre italianissime commemorano nel Giorno del Ricordo a Loro dedicato, gli uomini, le donne, i ragazzi, gli italiani di ogni tendenza politica, trucidati dai partigiani comunisti di Tito, in una brutale pulizia etnica alla fine della seconda guerra mondiale, scomparsi, talvolta anora vivi, nelle foibe carsiche tra Trieste e Fiume. Per 50 anni e oltre, il loro martirio insieme ai loro nomi, sono rimasti ignorati dalla storia ufficiale che voleva i partigiani, compresi quelli titini, identificati nel rulo di buoni e di liberatori. La tenacia e l’orgoglio degli esuli di mquelle terre sono stati capaci di vincere l’oblio e finalmente le atrocità titine e di tanti pseudo “liberatori” sono venute alla luce e il Parlamento italiano, infine, ha dovuto restituire dignità e onore alle vittime delle foibe titine, istituendo la Giornata del Ricordo in Loro memoria e in Loro onore.
Sappiamo di avere, tra i tanti, un affezionato lettore che segue quotidianamente le cose che pubblichiamo e ancor più ciò che commentiamo. Il suo è un interesse che trascende ciò che scriviamo, sfiora la paranoia, anzi di più, sfora nella morbosità tipica dei disadattati mentali che nella ossessione trovano il loro piacere, che forse non trovano altrove, lì dove lo trovano le persone normali. Perciò oggi scriveremo di Berlusconi e lo difenderemo, non perchè egli sia esente da colpe e rsponsabilità, ma perchè egli è il capro espiatorio, al di là delle sue colpe e delle sue responsabilità, di tanti omuncoletti come il nostro ossessionato e paranoico lettore che per Berlusconi nutre un odio che non lo fa dormire la notte. Dunque, Berlusconi. Il male assoluto, il nemico pubblico numero uno, il caimano sulle cui spalle ricadono, a sentir taluni, le colpe di un intero settantennio. Dal 1994, da quando mandò all’aria i programmi dell’allor sol dell’avvenire occhettano, lo hanno perseguitato con centinaia di inchieste, con decine e decine di processi, con migliaia di avvisi di garanzia, con accuse di ogni genere, dalla vicinanza con la mafia alla perversione sessuale, passando per quella di corruttore e sistematico evasore fiscale. Alla fine dei giochi sono riusciti a condannarlo in via definitiva per una presunta frode fiscale di un paio di milioni di euro, una goccia rispetto alle centinaia di milioni di euro che il suo gruppo ha versato allo Stato. E la condanna è servita ad estrometterlo dal Senato con una procedura il cui iter è stato veloce quanto, di solito, per altri casi era stato non lento, ma lentissimo. Riprova che l’obiettivo non era accertarne la responsbilità, ma estrometterlo dalla politica. Non avevano fatti i conti con la scorza dell’uomo, che insieme a tanti difetti, chi non ce li ha!, ha un pregio, ha coraggio che come diceva quel tale – evitiamo di fare citazioni, altrimenti il paranoico che ci legge, va in escandescenze e magari ci chiede i danni per averlo costretto ad andare in escandescenza – chi non ce l’ha, non se lo può dare, e Berlusconi è appunto uno che ce l’ha, e nonostante l’età, gli acciacchi, le fibrallazioni di ogni genere, gli addii (degli ex amici) e i ricatti degli aspiranti “secondi”, si è rimesso in gioco, anzi si è rimesso al centro del gioco, aiutato dal segretario del PD, con il quale, fuori del Parlamento, con spregio della Carta Costituzionale che pone il Parlamento al centro della politica, ha contrattato una legge elettorale che nella sostanza ha come obiettivo proprio quello che Berlusconi ha sempre inseguito:avere da solo la maggioranza di un Parlamento di nominati. Non condividiamo questa legge elettorale, la consideriamo peggiore del porcellum, riteniamo che l’accordo tra Renzi e Berlusconi sia un pessimo accordo che mette a repentaglio il sistema della rappresentanza nel nostro Paese, proprio quando più voci sono necessarie per evitare disastri e danni, ma siamo convinti che la battaglia contro questo accordo che passa sulla testa di tutti, va fatta in Parlamento e che essa non debba essere in alcun modo inquinata da altri interventi, anzi da altre invasioni. Come quella della Magistratura che invece ha tentato un altro colpo. La Procura di Nap0li ha richiesto il processo a carico di Berlusconi per la presunta compravendita di senatori alla fine del governo Prodi ed ha sollecitato il Senato a costituirsi parte civile, cioè lo stesso organo che, un paio di mesi fa, ha dichiarato Berlusconi decaduto in virtù di una procedura assai viziata e di una legge molto discutibile. Non esprimiamo giudizi sull’iniziativa giudiziaria della Procura di Napoli, salvo per ricordare che nei 70 anni di vita parlamentare, deputati e senatori che hanno cambiato casacca, anche in omaggio al diritto costituzionale di non essere vincolati dal mandato, sono stati centinaia, che governi di centro, di destra e di sinistra, sono nati e/o sono morti per via di questi cambi di casacca, che traditori non certo per gloria ma sempre per interesse, talvolta anche legittimo, ce ne sono stati e ce ne saranno sempre e proprio per questo è il caso di attendere il giudizio della Magistratura giudicante senza esprimere opinioni. Diverso invece è l’opinione sulla incredibile decisione del presidente del Senato, l’ex magistrato antimafia Grasso, che solo soletto, in aperto dissenso con il voto negativo del Consiglio di Presidenza del Senato, ha dato il via libera alla costituzione di parte civile del Senato “per ragioni etiche” nel processo contro Berlusconi.Ragioni etiche? Quali? Quella di aver fatto ciò che da Giolitti in poi, per arrivare a Prodi e poi a D’Alema, hanno fatto tutti, inducendo ex avversari a diventare amici, trasformandosi in nemici degli ex amici? Cosicchè il signor Grasso, ex magistrato antimafia, ha di fatto messo sul banco degli imputati la storia d’Italia, anzi la storia del mondo, che di tradimenti e stravolgimenti di alleanze è ampiamente caratterizzata? E poi, non è stato già dichiarato decaduto Berlusconi dallo scranno di senatore, benchè poi gli è stata data una bella seggiola nella sede centrale del PD, il partito di Grasso? Non è già questa, ove se ne condividesse l’atto, una già ampia tutela dell’immagine “compromessa” del Senato? E Grasso non è lo stesso magistrato antimafia che in tempi non sospetti ebbe a dichiarare che il governo Berlusconi, con ministro dell’interno Maroni, aveva assunto provvedimenti legislativi assolutamente coercitivi contro la mafia? Era quello di Grasso un atto di riconoscimento o era solo un atto di piaggeria verso il potente di turno caduto ora in disgrazia? Chi scrive queste note ha avuto ed ha molte riserve su alcune scelte del presidente Berlusconi ma come è avvenuto quando uno saltimbanco nostrano ha infierito come un maramaldo sul conto di Berlusconi, anche ora, difronte a decisioni che offendono il buon senso e che puzzano mille miglia di riposizionamenti tattici e strategici in attesa del cambio della guardia al Qurinale, avverte il bisogno di sentirsi vicini al presidente Berlusconi, di esprimergli solidarietà umana e vicinanza, senza nascondere che provoca grande gioia sapere che ciò manderà in bestia fumante il nostro affezionato e paranoico lettore antiberlusconiano. g.
Abito a Roma nei pressi di una scuola (medie e liceo), e all’inizio e alla fine delle lezioni la mia via si riempie di ragazzi. Mi capita così di ascoltare assai spesso le loro chiacchiere, gli scambi di battute. Ebbene, quello che mi arriva alle orecchie è una continua raffica di parolacce e di bestemmie, un oceano di turpiloquio. Praticamente, qualunque sia l’argomento, in una sorta di coazione irrefrenabile dalle loro bocche viene fuori ogni tre parole un’oscenità o una parola blasfema. Le ragazze – parlo anche di quattordicenni, di quindicenni – appaiono le più corrive e quasi le più compiaciute nel praticare un linguaggio scurrile e violento che un tempo sarebbe stato di casa solo nelle caserme o nelle bettole più malfamate.
A dispetto dunque di quanto vorrebbero far credere molti dei suoi scandalizzati censori, il lessico indecente e la volgarità aggressiva mostrati da Grillo e dai suoi parlamentari nei giorni scorsi non sono affatto un’eccezione nell’Italia di oggi. Sono più o meno la regola. Sostanzialmente, in tutti gli ambienti il linguaggio colloquiale è ormai infarcito di parolacce e di volgarità, come testimoniano quei brandelli di parlato spontaneo che si ascoltano ogni tanto in qualche fuori onda televisivo o tra i concorrenti del Grande Fratello . Siamo, a mia conoscenza, l’unico Paese in cui i quotidiani non esitano, all’occasione, a usare termini osceni nei propri titoli.
Non dico tutto questo come un’attenuante, tanto meno come una giustificazione. Lo dico solo come richiamo a un dato di fatto. È l’ennesimo sintomo dell’abbandono delle forme, della trasandatezza espressiva, della durezza nelle relazioni personali e tra i sessi, di un certo clima spicciativo fino alla brutalità che sempre più caratterizzano il nostro tessuto sociale. In una parola di un sottile ma progressivo imbarbarimento.
Il declino italiano è anche questo. Il degrado dei comportamenti, dei modi e del linguaggio ha molte origini, ma un suo fulcro è di certo il grave indebolimento che da noi hanno conosciuto tutte quelle istituzioni come la famiglia, la scuola, la Chiesa, i partiti, i sindacati, a cui fino a due-tre decenni fa erano affidati la strutturazione culturale e al tempo stesso il disciplinamento sociale degli individui. Era in quegli ambiti, infatti, che non solo si sviluppava e insieme si misurava con la realtà esterna e le sue asperità il carattere, ma veniva altresì modellata la disposizione a stare nella sfera pubblica e il come starci. Tutto ciò che per l’appunto è stato battuto in breccia in nome di ciò che è «spontaneo», «autentico», «disinibito», secondo una concezione della modernità declinata troppo spesso nelle forme del più sgangherato individualismo.
La modernità italiana ha voluto dire anche questo generale e cieco rifiuto del passato. Rifiuto di consolidate regole pubbliche e private, di un sentire civico antico, di giusti riguardi e cautele espressive, di paesaggi culturali e naturali tramandati. Di molte cose che da un certo punto in poi la Repubblica ha rinunciato ad alimentare e a trasmettere. Un filo rosso lega la rovina del sistema scolastico da un lato e dall’altro il turpiloquio sessista dei parlamentari grillini di oggi e dei guitti di sinistra di ieri contro le rispettive avversarie politiche, la dissennata edificazione del territorio da un lato e i tricolori sugli edifici pubblici ridotti a luridi stracci dall’altro, le condizioni della Reggia di Caserta e il nostro primato nelle frodi comunitarie. Ma quel filo rosso non ci piace vederlo: ed è così che la società civile italiana (a cominciare dai suoi deputati) è diventata per tanta parte un coacervo d’inciviltà. Ernesto Galli Della Loggia, Il Corriere della Sera, 3 febbraio 2014
……..Galli della Loggia ci richiama ad un antico e mai smentito paradigma: il Parlamento non è altro che l’espressione del popolo che lo elegge. Non è del tutto vero, ma almeno nell’uso del turpiloquio di certo è così. Aggravato, ora, da una caduta verticale di Valori e di ideali, di regole e di esempi che purtroppo non trovano più cittadinanza nel vivere quotidiano. Ricercarne le responsabilità è compito arduo e comunque esse appartengono un pò a tutti, nessuno se ne può chiamare fuori. Tanto meno la onorevolissima presidente della Camera che mentre si appresta a sanzionare duramente i deputati grillini per la cagnara in Parlamento dei giorni scorsi, si appresta anche a infliggere un piccolo buffetto sulla guancia dell’ex magistrato europeo D’Ambrosio che, in quanto questore, ha ceffonato e spintonato una donna, una donna!, che a sua volta partecipava alla cagnara grillina. E che dire delle “donne del PD” insultate dai grillini con accuse di asservaggio sessuale per giungere lì dove sono giunte, che denunciano per ingiuria il deputato che le ha così volgarmente apostrofate? A queste simpaticone fa difetto la memoria e fanno finta di non conoscere la regola del contrappasso: chi la fa l’aspetti. Senza in alcun modo giustificare le volgarità del grillino, le “donne del PD”, ad iniziare dalla super offesa onorevole Moretti, campionessa di salto in là nel posizionamento interno al PD, facciano un pò di autocritica e incomicino loro a rispettare gli avversari allo stesso modo con cui esse pretendono, giustamente, di essere rispettate. Forse si potrebbe recuperare qualcosa dell’antico vivere civile che fa abbondantemente difetto nella attuale società italiana. g.
Poiché non esiste una palla di vetro in grado di prevedere i risultati delle elezioni, il sistema per sapere se una legge elettorale funzioni o meno è molto semplice: il meccanismo deve essere in grado di reggere senza incepparsi, e senza produrre mostri o storture, di fronte alle eventualità che potrebbero determinarsi. Per dirla con la Corte costituzionale, deve essere razionale.
Abbiamo fatto la prova con l’ipotesi di legge elettorale presentata ieri come un “accordo storico”: noi questo accordo lo vogliamo sostenere e migliorare, ma proprio per questo dobbiamo fare in modo che di “storico” non vi siano le supercazzole che il “Vampirellum” produrrebbe. Ecco di seguito un po’ di esempi di situazioni nelle quali, in assenza di una norma di chiusura, la traduzione dei voti in seggi con il sistema congegnato produrrebbe assurdità. Alcune potranno apparire ipotesi astratte e di scuola. Ma anche quando fu elaborato il “Porcellum”, che all’epoca appariva ragionevole, nessuno aveva previsto che il centrosinistra e il centrodestra sarebbero scesi sotto il 30 per cento e che un italiano su quattro si sarebbe affidato a un comico genovese e a un “guru” con i capelli come Jim Morrison e gli occhialetti alla Trotsky. Meditate, gente, meditate. E correggete finché siete in tempo.
Ecco i risultati delle simulazioni:
1. Alle elezioni si presenta una coalizione composta da 5 liste. La coalizione ottiene complessivamente il 37% dei voti, arriva prima e conquista con il premio di maggioranza il 53% dei seggi. La prima lista ottiene il 21% dei voti mentre le altre 4 ottengono insieme il 16% dei voti ma si fermano tutte sotto la soglia del 4,5%. Tutti i seggi della coalizione vanno alla prima lista che con i 21% dei voti si porta a casa il 53% dei voti, con un premio di maggioranza del 32% (!) superiore a quello attribuito alle ultime elezioni che ha innescato la sentenza della Corte. E superiore a quello previsto dalla fascistissima legge Acerbo.
2. Alle elezioni si presenta una coalizione di due liste che ottiene complessivamente l’11,5% dei voti. Entrambi i partiti superano la soglia del 4,5% ma poiché la coalizione non ha superato quella del 12% a loro non spetta alcun seggio.
3. Alle elezioni si presenta una coalizione di 5 liste che ottiene il 17% dei voti ma, poiché nessuna delle liste supera la soglia del 4.5%, non ottiene alcun seggio.
4. Alle elezioni una lista si presenta senza coalizzarsi con altre liste. Ottiene più di 2,5 milioni di voti ma, non superando la soglia dell’8%, non ottiene alcun seggio. Alle stesse elezioni una lista si presenta in solo 3 regioni ed ottiene 250.000 voti. Avendo superato la soglia del 9% dei voti rispetto agli elettori delle tre regioni (1 molto grande e 2 piccole) ottiene seggi in proporzione ai voti.
5. Alle elezioni alla Camera la Coalizione A supera il 37%, arriva prima mentre al Senato è la coalizione B a conquistare il premio. La corrispondenza tra voti e seggi è stata alterata in nome della governabilità ma il Paese è ingovernabile. L’attribuzione di due premi di maggioranza a diverse coalizioni rende anche più difficile realizzare dopo le elzioni un’ampia intesa di Governo.
6. Alle elezioni nessuna coalizione supera, alla Camera e al Senato, la soglia del 37% dei voti necessaria per ottenere il premio di maggioranza. Si procede al secondo turno di ballottaggio, ma alla Camera le prime due coalizioni ammesse al ballottaggio sono A e B mentre al Sentato sono B e C. In esito al ballottaggio alla Camera vince la coalizione A, che ottiene il 55% per cento dei seggi mentre al Senato vince la coalizione C che ottiene il 55% dei seggi.
7. Alle elezioni si presentano 6 coalizioni e nessuna lista da sola. Tra le coalizioni presentatesi, 5 non superano la soglia del 12% ed ottengono complessivamente il 55% dei voti totali. In questo caso la sesta lista con il 45% dei voti ottiene il 100% dei seggi.
……………Dopo la sentenza della Corte Costituzionale, la nuova legge elettorale le cui conseguenze sono quelle delle simulazioni sopra illustrate è molto, ma molto peggiore di quelle della legge appena abrogata. g.
ROMA – Soglia più alta per ottenere il premio di maggioranza, sbarramento meno severo per i piccoli partiti che entrano in coalizione. E’ l’Italicum “2.0″, la versione aggiornata della legge elettorale.
- PREMIO MAGGIORANZA. La nuova legge, come il Porcellum, è un sistema proporzionale con un premio di governabilità che assicura la maggioranza assoluta al partito o alla coalizione vincente. Ma diversamente dalla vecchia legge, per ottenere il premio bisognerà aver superato una soglia minima: il 37% dei voti (nella prima versione dell’Italicum bastava il 35%). Il premio di maggioranza è fissato al 15% dei seggi (non più al 18%). Ma c’è un limite: il “bonus” concesso ai vincitori non potrà far superare il tetto dei 340 seggi, pari al 55%.
- DOPPIO TURNO. Che succede se nessuno supera la soglia del 37%? I primi due partiti o coalizioni di partiti si sfidano in un doppio turno per l’assegnazione del premio. Il vincitore ottiene 327 seggi, i restanti 290 vanno agli altri partiti (restano fuori dal conteggio i deputati eletti all’estero).
- SBARRAMENTI. L’ingresso in Parlamento viene precluso a chi non supera un minimo di voti. Per i partiti che si presentano al di fuori delle coalizioni (come ha fatto il M5s nelle ultime elezioni), c’è una soglia molto alta, l’otto per cento. Per i partiti che si presentano nell’ambito di un’alleanza con altre forze politiche, la nuova versione dell’Italicum abbassa ulteriormente lo sbarramento portandolo dal 5 al 4,5%. Anche le coalizioni dovranno superare una soglia minima di consensi: la percentuale stabilita è del 12%. Per i rappresentanti delle minoranze linguistiche sono previsti meccanismi che garantiscono la loro rappresentanza.
- SALVA-LEGA. La tagliola degli sbarramenti viene alleggerita per i partiti a forte vocazione regionale, come la Lega Nord. Chi si presenta in non più di sette regioni non deve raggiungere le percentuali previste per i partiti nazionali: per entrare in parlamento basterà aver ottenuto il nove per cento in tre circoscrizioni.
- CANDIDATI. Gli elettori non potranno mettere il voto di preferenza. Ogni partito presenta una lista con tanti candidati quanti sono quelli da eleggere nel collegio (si va da un minimo di tre a un massimo di sei). I seggi vengono assegnati seguendo l’ordine delle liste: ad esempio, se un partito ottiene tre seggi vengono eletti i primi tre candidati della lista.
- PARITA’ UOMO-DONNA. Le liste dei candidati dovranno garantire la presenza paritaria di uomini e donne: 50% e 50%, ma senza alternanza obbligatoria (che avrebbe portato in Parlamento una “valanga rosa”). Le liste potranno avere anche due uomini uno di seguito all’altro, ma non di più.
- CANDIDATURE IN PIU’ COLLEGI: La prima versione vietava ai candidati di presentarsi in più di un collegio, la nuova concede questa possibilità. Si discute ancora se ci si potrà candidare in 3 o in 5 collegi.
- IL NODO DEI COLLEGI. L’Italicum prevede una delega al governo per il ridisegno dei collegi elettorali in cui sarà divisa l’Italia: l’esecutivo dovrà farlo in 45 giorni, un periodo di tempo che rende possibili eventuali elezioni anticipate prima dell’estate.
- NO PRIMARIE. Nulla dice il nuovo Italicum sulle primarie per la scelta dei candidati da mettere in lista. Se farle o no, e con quali regole, resterà una scelta autonoma dei singoli partiti.
- IL SENATO. ALla base dell’accordo tra Renzi e Berlusconi c’è l’idea di abolire il Senato. Ma se il progetto dovesse fallire? L’Italicum prevede una clausola che rende applicabile il nuovo sistema anche per l’elezione del Senato: percentuali, soglie e premio di maggioranza sono le stesse della Camera e vengono assegnati su base nazionale, con riparto regionale. Fonte ANSA, 29 gennaio 2014.
….Sin qui le notizie sull’accordo raggiunto da due soli partiti sullo schema della nuova legge elettorale che elude totalmente le indicazioni della Consulta in materia di soglia e di liste bloccate. Benchè la Corte sia stata più che chiara i due partiti maggiori hanno concordato una soglia minima di accesso al premio di maggioranza del 37% che consente ad un partito o a una coalizione di aggiudicarsi con poco più di un terzo degli elettori il 55% dei seggi a cui accederanno i soliti nominati perchè alla faccia del tanto declamato “cittadini al centro delle decisioni” in verità gli elettori dovranno mettere la croce solo sulla lista e poi i nomi saranno quelli scelti dalle oligarghie di partito. Non solo. C’è la beffa per i partiti minori i quali in nome del “mai più ricatti dai piccoli partiti” saranno esclusi di fatto dall’ingresso in Parlamento. Infatti viste le soglie minime di accesso che sono fissate per i partiti in coalizione al 4,5%, basta fare un pò di conti: se il partito egemone di una coalizione ottiene diciamo il 21%, per raggiungere il 37% deve aggiungere il 16% riveniente da 4 partiti che hanno raggiunto ciascuno il 4%, nessun parlamentare viene assegnato ai 4 partti “minori” e tutti vanno al partito egemone. E dove li troveranno i partiti egemoni i partiti minori disposti a dare sangue senza riceve nulla? Evidentemente ai partiti minori dovanno essere riconosicuti posti nelle lise bloccate dei partiti egemoni, per cui le chiacchiere di Renzi in materia di ricatti resteranno aria fritta. Non solo. Anche per le coalizioni c’è lo scoglio della soglia minima fissata al 12% per accedere alla ripartizone dei seggi, soglia studiata per impedire di fatto che si formino coalizioni alternative alle due egemoni. Neanche in Unione Sovietica è vigente una legge antidemocratica come questa messa a punto dal rottamatore della politica italiana. E dulcis in fundo c’è da segnalare che della riduzoone del numero dei parlamentari che dovevano scenedere al disotto di 500 non v’è più traccia perchè tutti i calcoli vengono fatti sui numeri attuali cioè 630 deputati da ripartirsi praticamente tra i partiti che potranno accedere alla ripartizione dei seggi: 630 nominati dai padroni dei partiti senza che i cittadini elettori possano in alcun modo scegliere liberamente i parlamentari da eleggere cosicchè essi possano esercitare il loro mandato così come prescrive la Carta Costituzionale, cioè senza vincolo di mandato. Possibile che il custode supremo della Carta, l’inossidabile ex comunista inneggiattore dei carri armati sovietici che uccidevano i ragazzi di Budapest, non abbia nulla da dire in materia? Siamo davvero alla frutta della democrazia e della libertà e purtroppo non v’è chi sia capace di agitare la bandiera della rivolta e della rinascita. g.
La «privatizzazione» delle Poste è l’esempio di ciò che accade quando un governo debole e pressato dai conti pubblici, perché non è capace di tagliare le spese, si trova a dover cedere a interessi particolari anziché operare nell’interesse dei cittadini e dello Stato. L’operazione pare costruita su due principi: far contenti i sindacati concedendo loro un implicito diritto di veto su qualunque modifica del contratto di lavoro. E non contrapporsi a un management che si è abilmente conquistato la benevolenza del governo rischiando 70 milioni della propria cassa per coprire le perdite di Alitalia.
Se l’obiettivo fosse stato la massimizzazione dei proventi, la privatizzazione avrebbe dovuto essere strutturata in modo diverso. Gli investitori cercano aziende trasparenti, con obiettivi e strategie chiari, che non usino i ricavi di un’attività per coprire le perdite di un’altra. È il caso delle Poste. L’azienda è, al tempo stesso, un grande banca (con BancoPosta): la maggiore del Paese per numero di sportelli; una compagnia di assicurazione (con PosteVita) e il gestore di un servizio di spedizioni (oltre a essere, da qualche mese, uno dei maggiori soci di Alitalia e possedere una propria compagnia, Mistral). E poi vi sono PosteMobile, operatore di telefonia con 3 milioni di clienti; Postel che offre servizi telematici allo Stato; PosteTributi (attività di riscossione). Come un investitore può comprendere se le attività bancarie e assicurative sono gestite in modo efficiente? Come capire in che modo vengono allocati i costi degli oltre 13.000 uffici postali fra le tre attività che svolgono, posta, banca e assicurazione? Le Poste hanno anche un grande patrimonio immobiliare: come valutare se è sfruttato bene?
Sono questi i motivi per i quali in Germania Postbank fu scorporata dalle poste e venduta a Deutsche Bank prima della privatizzazione. Anche la britannica e ora privata Royal Mail svolge solo il servizio di spedizione. L’unica azienda che fa tre cose assieme sono le poste francesi, che infatti rimangono al 100% pubbliche.
E che dire del modo con il quale viene scelto il management? I veri investitori vogliono che gli amministratori possano essere sostituiti se non massimizzano il valore dell’azienda: improbabile che ciò accada in una società della quale il governo mantiene il 60% delle azioni (il governo di Berlino è sceso al 21%). Tanto più se è lo stesso management che, è vero ha completamente trasformato l’azienda, ma poi si è fatto coinvolgere nel salvataggio Alitalia.
Il ricavo per lo Stato non è l’unico obiettivo di una privatizzazione. Il trasferimento di un’attività economica dal settore pubblico ai privati è anche l’occasione per migliorare la concorrenza nell’interesse dei cittadini. Le Poste sono una ragnatela di posizioni dominanti. Hanno un numero di sportelli superiore a Banca Intesa, che li ha dovuti ridurre per favorire la concorrenza. Attraverso la Cassa Depositi e Prestiti, il risparmio postale è investito nella Tesoreria dello Stato, non a tassi di mercato, ma a interessi negoziati. Quando i tassi scendono l’adeguamento del rendimento che il Tesoro paga avviene lentamente, generando un sussidio improprio dello Stato (cioè dei contribuenti) alle Poste e alla Cassa.
E ancora, privatizzare è anche una strada per attirare investimenti dall’estero, per affermare l’apertura del Paese al mercato, per far fare un passo indietro allo Stato nella gestione dell’economia, per mostrare ai mercati che si vuole davvero ridurre il debito pubblico e non continuare a finanziare una spesa che non si riesce a tagliare. Invece, ancora una volta si è imboccata una strada di cui ci pentiremo: l’ennesima occasione perduta.Francesco Giavazzi, Il Corriere della Srra, 29 gennaio 2014
…..Giavazzi, come sempre, predica benne…peccato che dopo aver predicato vada a far l’esperto per conto del governo che le sue prediche ampiamnete ctiticano. E’ successo durante l’infausto regno di Monti, aspramente e giustamenbte criticato da Giavazzi, che lo chiamò a far da consulente sulle questione su cui diffusamente aveva scriutto Giavazzi. Ed infatti di sue critiche si eprsero le tracce. Intendiamoci, ciò che scrive oggi sul Corriere della Srra Giavazzi sono appunti sacrosanti come sacrosanta è la definzione di “privatizzazione per finta” data a quella delle Poste che, come è chiaro, rimane pubblica al 60% mentre il rimanente 405 viene messo in vendita per finanziare lo Stato che attraverso il suo 605 continuerà a non far funzianre bene le Poste, a ridurre i servizi, spesso a peggiorarli lì dove sono almeno decenti, con grave danno a carico dei soliti ignoti: gli utenti. Questo tipo di priovatizzazione noin è solo fasulla, ma appare una vera e propria truffa. g.
L’elevato astensionismo, la crescita del voto di protesta, la più banale osservazione quotidiana mostrano quanto ormai sia diffusa tra gli elettori la convinzione che in sostanza Destra e Sinistra si equivalgano, siano «la stessa cosa». Naturalmente si possono fare molte obiezioni a questa idea. Ma essa coglie un dato reale. E cioè che nel Paese esistono ruoli, gruppi sociali e interessi assolutamente decisivi, i quali però da tempo, pur di conservare un accesso privilegiato alla decisione politica, e così mantenere e accrescere il proprio rango e il proprio potere, si muovono usando indifferentemente la Destra e la Sinistra, al di là di qualunque loro ipotetica contrapposizione. Ruoli, gruppi sociali e interessi che nessun attore politico, né di destra né di sinistra, ha il coraggio di colpire, e che con il tempo hanno costituito quello che nella vicenda della Repubblica si presenta ormai come un vero e proprio blocco storico. Vale a dire un insieme coeso di elementi con forti legami interni anche di natura personale, in grado di svolgere un ruolo di governo di fatto di aspetti decisivi della vita nazionale.
È il blocco burocratico-corporativo, a sua volta collegato stabilmente a quei settori, economici e non, strettamente dipendenti da una qualche rendita di posizione (dai taxi alle autostrade, agli ordini professionali, alle grandi imprese appaltatrici, alle telecomunicazioni, all’energia). Consiglio di Stato, Tar, Corte dei conti, Authority, alta burocrazia (direttori generali, capigabinetto, capi degli uffici legislativi), altissimi funzionari delle segreterie degli organi costituzionali (Presidenza della Repubblica, della Camera e del Senato), vertici di gran parte delle fondazioni bancarie, i membri dei Cda delle oltre ventimila Spa a partecipazione pubblica al centro e alla periferia: sono questi il nucleo del blocco burocratico-corporativo. Il quale, come ho già detto, si trova a muoversi assai spesso in collegamento con l’attività dei grandi interessi protetti.
È un blocco formidabile, accentrato nel cuore dello Stato e della macchina pubblica, il cui potere consiste principalmente nella possibilità di condizionare, ostacolare o manipolare il processo legislativo e in genere il comando politico. Non poche volte anche usandolo o piegandolo a fini impropri o personali.
Bisogna pensare, infatti, che specialmente di fronte alla componente giudiziario-burocratica del blocco in questione il ceto politico-parlamentare, quello che apparentemente ha il potere di decidere e di fare le leggi, si trova, invece, virtualmente in una situazione di sostanziale subordinazione, dal momento che nel novanta per cento dei casi fare una legge conta poco o nulla se essa non è corredata da un apposito regolamento attuativo che la renda effettivamente operante. Ebbene, la redazione di tali regolamenti è sempre tutta nelle mani dell’alta burocrazia ministeriale, nonché – senza che vi sia alcuna legge che lo preveda, ma solo per un’antica consuetudine – essa è sottoposta al vaglio del Consiglio di Stato e della Corte dei conti. Un processo al cui interno è facile immaginare quali e quante possibilità si creino di far valere interessi e punti di vista che forzano, o addirittura contraddicono, la decisione – la sola realmente legittima – della rappresentanza politica. In linea generale e da un punto di vista, diciamo così, sistemico il principale obiettivo del blocco burocratico-corporativo – a parte la protezione degli specifici interessi dei propri membri – è quello di autoalimentarsi, e quindi di frenare ogni cambiamento che alteri il quadro normativo, le prassi di gestione e le strutture relazionali all’interno del blocco stesso: insomma tutto ciò che gli assicura la condizione di potere di cui oggi gode. Potere che riveste due aspetti essenziali: quello dell’indirizzo, del suggerimento, del condizionamento, perlopiù sotto la veste del consiglio tecnico-legale; e quello – ancora più importante – d’interdizione. Il potere cioè di non fare, di ritardare, di mettere da parte o addirittura di cancellare anche per via giudiziaria qualunque provvedimento non gradito.
Sul piano generale il risultato inevitabile di una simile azione finisce così per essere nella maggior parte dei casi quello di impedire tutte le misure volte a introdurre meccanismi e norme di tipo meritocratico, intese a liberalizzare, a semplificare, a rompere le barriere di accesso, le protezioni giuridiche e sindacali indebite. Spesso per il proprio interesse, ma il più delle volte per la sua stessa natura inerziale, il blocco burocratico-corporativo, infatti, tende a lasciare sempre tutto com’è: sotto il controllo di chi è dentro, dei poteri esistenti e dei loro vertici di comando. Non importa se per far ciò bisogna arrivare a vanificare pure il ruolo di imparzialità e di terzietà che dovrebbe essere proprio dello Stato: se per esempio le Authority di garanzia e di controllo piuttosto che esercitare con incisività il proprio mandato e rivendicare con altrettanta incisività un potere di sanzione, preferiscono – come accade di regola – voltare la testa dall’altra parte e lasciar fare i grandi interessi su cui in teoria dovrebbero vegliare.
Intendiamoci, fenomeni più o meno analoghi a quelli fin qui accennati caratterizzano tutti i regimi democratici. Ma tra i grandi Paesi dell’Europa un processo così forte ed esteso di autonomizzazione degli apparati burocratico-giudiziari e di crescita dei loro collegamenti con gli interessi economici mi pare si sia avuto solo in Italia. Solo in Italia quegli apparati e gli interessi, economici e non, ad essi collegati, si sono appropriati di spazi di potere così vasti. E di conseguenza – complice il discredito generale della politica – solo in Italia il comando politico e i suoi rappresentanti sono stati così intimiditi, messi così nell’angolo, sono stati resi così subalterni alla sfera amministrativa. E non a caso, forse, ciò ha corrisposto a una crisi generale del Paese, a una sua stasi progressiva in tutti i campi, alla sua crescente incapacità di cercare e di trovare strade e strumenti nuovi per il proprio sviluppo. La gabbia di ferro del blocco burocratico-corporativo e degli interessi protetti ha soffocato la politica. C’è solo da sperare che questa, nella nuova stagione che sembra annunciarsi, torni a respirare liberamente per assolvere i compiti cruciali che sono esclusivamente i suoi. Ernesto Galli della Loggia, Il Corriere della Sera
…Si potrebbe dire, senza voler essere irridenti di uno studioso e politologo di ecceziuonale valore quale è Galli Della Loggia, che scoprire che il principale bubbone della nostra malata democrazia è la buricrazia è come scoprire l’acqua calda, ma che qualcuno, oggi Galli Della Loggia, ieri altri come lui, lo scriano e lo denuncino è senza dubbio un bene. Specie se ciò può servirfe a svegliare la politica perchè la smetta di mettersi nelle maniu dei burocrati che senza mettere la faccia dispongono a loro piacere di un potere illimitato perchè senza controlli. Qualche giorno fa convenivamo con un autorevole funzionario governativo in servizio presso la Prefettura di Bari che il governo degli enti loclai è mutato, in peggio, ovviamente, dalla Legge Bassanini in poi e dalle rforme che l’accompagnarono che sottrassero alla politica ruoli e responsabiolità che sono, denbbono essere della politica, per affidarli ai funzionari che, non ovunque, non sempre fortunatamente, ne hanno fatto un uso improprio il che è solo un eufemismo oper nascondere la verità che è ben altra, quella che tra le riga si legge nel piccolo trattato di Galli della Loggia. E quel che è successo negli enti locali, avviene nell’intero apparato dello Stato che è nelle mani di “irresponsabili” funzionari che governano e regolamentano non pensando al bene comune ma solo al proprio. E’ tempo che la politica si dia una mossa, ma se il buongiorno si vede dal mattino, dobbiamo dire che la mattina è piena di nuvole che possono trasformarsi in temporali, visto che la legge elettorale, la madre di tutte le riforme, parte dal porcellum per portarci verso un truffellerem, nel senso che stiamo per cadere dalla padella nella brace, visto che dalla camera dei nominati si intende arrivare ad un’altra camera di nominati, persone, cioè, che no hanno a cuore il bene comune ma solo di quello di chi li nomina. E allora, si metta il cuore in pace Galli Della Loggia, perchè il male oscuro della democrazia italiana, la burocrazia, continuerà imperterrita a sovrastare alle cose del nostro sventurato Paese. g.
Abolire la tassa sulla casa si poteva : da Bolzano a Ferrara, da Biella a Lodi sono tanti i cittadini che non pagano la mini Imu
Niente tasse. Eppure siamo in Italia. La stessa Italia degli sprechi e delle generose elargizioni alla politica e ai politici che poi, la politica e i politici bruciano in fretta e male ottenendo l’unico risultato di allontanare sempre di più i cittadini dal Palazzo e dalle istituzioni, grandi e piccole che siano.
Si comincia col poco e via via risparmiando, risparmiando, facendo investimenti pubblici mirati e oculati ecco che si arriva a diventare il Comune dove tutti vorrebbero risiedere, il Comune «virtuoso» che, se può, ai suoi cittadini, le tasse, almeno alcune tasse, non le fa pagare. D’altra parte i conti sono presto fatti: se è vero come è vero che, per quanto riguarda la mini Imu non devono riscuotere nulla dai cittadini quei Comuni che hanno lasciato intatta l’aliquota base (0,4 per cento o 4 per mille) fissata dal governo, è anche vero che ben 2.398 Comuni si sono affrettati ad alzare quell’aliquota a 0,45 oppure 0,5 o anche allo 0,6 per cento per recuperare altro denaro. Così abbiamo pensato bene di compiere un rapido (e forzatamente incompleto) viaggio da Nord a Sud, da Est a Ovest per citare alcuni fra gli esempi più significativi di risparmio virtuoso, motivati e perseguiti con convinzione dagli amministratori di Comuni grandi, piccoli e piccolissimi del nostro bizzarro Paese. Cominciando da un piccolo Comune in provincia di Siracusa, Solarino, che ha deciso, addirittura, di non far pagare la Tares ai cittadini che adottano un cane randagio, tutto sotto il controllo dei vigili, che due volte all’anno, dovranno verificare presso le famiglie lo stato di buona salute dell’animale.
Tornando alla mini Imu ricordiamo alcuni dei Comuni più «importanti» dove non si paga: Ferrara, Imperia, Savona, La Spezia, Bergamo, Como, Lecco, Lodi, Mantova, Monza, Sondrio, Udine, Trieste, Gorizia e Pordenone, Asti, Biella, Cuneo e Vercelli, Trento, Bolzano, Aosta, Padova, Treviso, Venezia e Vicenza. Capoluoghi, questi dove le aliquote comunali sulla prima casa non sorpassano la percentuale dello 0,4 per cento. «Asti si conferma il capoluogo di provincia con l’Imu più bassa di tutto il nord e il centro Italia», fanno notare, con orgoglio, il sindaco Brignolo e l’assessore al Bilancio Cannella. Un carico fiscale più leggero cui si accompagna la soluzione adottata da Asti che come molti altri Comuni ha evitato l’esborso dell’addizionale Tares, grazie al fatto che la quota di pertinenza statale era già stata compresa assieme alla quota comunale nelle bollette scadute lo scorso 31 dicembre. Ma, come accennavamo, diamo anche un po’ di voce ai Comuni più piccoli, che più fatica fanno a far quadrare i conti e che quindi meritano ancora più apprezzamento. A San Gimignano, provincia di Siena, il «niente mini-Imu» significa, commenta il sindaco Giacomo Bassi che «anche questo risultato è frutto di un’oculata politica di bilancio, uno sforzo economico di Comuni piccoli che fanno acrobazie per non gravare sulle tasche dei loro cittadini dato che San Gimignano ha ulteriormente abbassato l’aliquota Imu allo 0,30». E se lo sforzo, anziché venire incoraggiato è quasi ostacolato è comprensibile la reazione di Roberto Bozzi, sindaco di Castelnuovo Berardenga: «È intollerabile che i Comuni che hanno aumentato le tasse ricevano dallo Stato maggiori trasferimenti rispetto a quelli che le hanno abbassate. Castelnuovo, a fronte di grandi sacrifici, è riuscita a tenere i conti in ordine e a non aumentare le tasse quindi nessuna mini Imu». Come nessuna mini Imu va pagata nel Comune di Guglionesi, in provincia di Campobasso. «Nonostante a Guglionesi, nemmeno in questi anni difficili, l’amministrazione abbia aumentato l’aliquota della addizionale Irpef e tante altre tariffe, come sempre, è stato rispettato pienamente il patto di stabilità», sottolinea il sindaco Bartolomeo Antonacci. E niente salvadanai da rompere per pagare la mini-Imu anche a Vicopisano, provincia di Pisa, «La cifra corrispettiva dello 0,4 per cento ad abitazione principale ci viene rimborsata dallo Stato. Qualora avessimo aumentato l’aliquota Imu, sarebbero stati i residenti a pagare la differenza, quindi abbiamo soprasseduto», fa notare il Sindaco Juri Taglioli e idem a Castelnuovo Garfagnana, provincia di Lucca dove la buona notizia si accompagna anche a una orgogliosa dichiarazione dall’assessore ai tributi e bilancio Ubaldo Pierotti: «Abbiamo tradotto nei fatti un altro comportamento virtuoso che oggi va a ulteriore vantaggio delle tasche delle famiglie della nostra comunità». Gabriele Villa, 23 gennaio 2014
….Dedichiamo questa nota più che eloquente agli sproloquiatori di casa nostra, ai tenebrosi difensori della scelta scellerata di non rimodulare per tempo l’aliquota IMU sulla prima casa per evitare che i cittadini di Toritto si trovassero tra quelli degli altri 2398 comuni italiani che hanno dovuto pagare la mini Imu 2013. E a nulla vale che dopo aver tentato di difendere l’indifendile, sindaco e assessore siano stati costretti a promettere (per quel che vale la loro promessa) che la mini Imu si paga ma che il relativo importo si detrarrà dalla TASI 2014. Intanto campa cavallo che l’erba cresce, nel senso che ciò che si promette oggi chissà se si potrà o vorrà mantenere alla scadenza della prima rata della Tasi che è fissata per il giugno 2014 (cioè dopo le elezioni amministrative del prossimo maggio!) ma resta il fatto che sarebbe bastato solo un pò, proprio pochino di buon senso e di attenzione, per evitare il comunque doppio fastidio di pagare e detrarre. Cioè sarebbe bastato che invece di fare i soloni, chiamando in causa il bilancio e i relativi buchi, avessero dato ascolto a chi per tempo li aveva avvertiti. Invece hanno tenuto duro, si fa per dire, e solo dopo che la protesta è montata fra i cittadini grazie alla denuncia di un consigliere di opposizione, sono dovuti tornare indietro con la coda fra le gambe e attorcigliandosi intorno a promesse che per il momento non si sono ancora concretizzate in atti formali. E chissà se e quando ciò accadrà. g.