ECCO QUANTO COSTA IN ITALIA LA POLITICA: 23 MILIARDI L’ANNO, 757 EURO A CRANIO

Pubblicato il 18 dicembre, 2013 in Il territorio | Nessun commento »

E’ un esercito di 1 milione e 124 mila addetti: il 5% della forza lavoro del Paese che vale l’1,5% del Pil – Ogni italiano sgancia 757 euro l’anno per mantenere questo carrozzone di mangiapane a tradimento – Accorpare i comuni farebbe risparmiare 3,2 miliardi, l’utilizzo dei fondi delle province solo per i compiti di legge 1,2 miliardi…

Ci sono i politici in senso stretto: ministri, parlamentari, consiglieri regionali, provinciali e comunali. Poi portaborse, funzionari e addetti stampa, che sempre più numerosi li accudiscono. E ancora: grand commis di Stato e fedelissimi insediati nei Cda delle aziende pubbliche.

PARLAMENTO

È l’esercito della politica, quello che tutti dicono di voler sforbiciare ma che ancora conta un milione e 124mila addetti. Il 5% della forza lavoro del Paese, che vale anche una fetta della sua economia: l’1,5% del Pil. Che detto così non fa effetto, ma che decriptato in 23,2 miliardi di euro, pari a 757 euro l’anno per contribuente fa colpo.

Anche perché il terzo rapporto della Uil sui costi della politica dice che rispetto al passato la spesa è aumentata. E nonostante il blitz di Letta per togliere soldi ai partiti e le promesse di Renzi sulla restituzione del finanziamento al suo partito, «c’è il rischio che con questa legge di stabilità il prossimo anno aumentino di oltre 27 milioni i costi di Parlamento, Presidenza del Consiglio e organi istituzionali vari», ammette il segretario confederale della Uil, Guglielmo Loy.

Ma i costi più ingenti non vengono da lì, perché i politici di professione, ministri, parlamentari e consiglieri vari sono «solo» 144mila, circa il 10% del totale. Che però, sia detto a scanso di equivoci, si dividono alla fine una bella torta di quasi 3 miliardi di euro, comprensiva dei costi del personale che quegli organi fanno funzionare. Ma il grosso viene dal sottobosco della politica, popolata da quasi un milione di «nominati». Che dire ad esempio dei 2,2 miliardi spesi per consulenze, a fronte di una pubblica amministrazione che gronda di dipendenti non sempre ad alto tasso di produttività?

Anche se poi quello che consolida le posizioni di potere dei partiti e dentro i partiti è quella mai scalfita occupazione di società, consorzi, enti pubblici, fondazioni e aziende partecipate, che con la il loro stuolo di dirigenti, direttori e funzionari costa quasi 6 miliardi. E questi sono i costi di stipendi e gettoni. Perché quanto questa presenza invasiva pesi sul buon andamento economico di un bel pezzo della nostra economia è un calcolo arduo da fare, ma che darebbe ben altri risultati

Se poi avessimo ancora voglia di indignarci basterebbe gettare un occhio a quel parco di auto blu e grigie che arriva a costare altri 2 miliardi, secondo una stima che la Uil giudica pure «prudenziale». Spesa che sicuramente non trova uguali in Europa, dove nei Paesi a noi più vicini in auto blu girano il capo del governo e pochi altri. Però quello che ci rende più o meno uguali ai nostri partner europei è la tendenza dei partiti a vivere sempre più di contributi statali. Nel nostro continente solo la Svizzera non versa un soldo ai propri partiti. In Francia, Spagna e Germania lo Stato è un finanziatore persino più generoso del nostro.

«Questo – spiega il professor Piero Ignazi, docente di politica comparata all’Università di Bologna – ha creato partiti Stato-centrici, dove il rafforzamento delle strutture centrali è andato di pari passo con la perdita di peso del partito nel territorio». «E il rafforzamento delle strutture centrali -prosegue- la si deve anche e soprattutto alla capacità di estrarre risorse dallo Stato e alla possibilità di utilizzare le strutture statali a fini partigiani».

Ma questa forza che deriva soprattutto dagli ingenti finanziamenti pubblici è paradossalmente anche causa della crisi di rappresentanza dei partiti, «che avendo abbandonato il partito del territorio hanno finito per perdere contatto con la realtà», chiosa il Professore.

Resta il fatto, commenta il leader della Uil, Luigi Angeletti, «che oltre un milione di persone che vivono di politica non ce le possiamo permettere». Di qui le proposte del sindacato per ridurre di almeno 7 miliardi abbondanti quella torta da 23. L’accorpamento dei comuni ne farebbe risparmiare 3,2, l’utilizzo dei fondi delle province solo per i compiti di legge un altro miliardo e due, 1,5 miliardi si otterrebbero con una più sobria gestione delle regioni e un altro miliardo e due verrebbero da una razionalizzazione dello Stato. Tutte cose che si possono fare se i partiti torneranno ad essere capaci di estrarre risorse dalla società anziché dallo Stato. FONTE : La Stampa, 18 dicembre 2013

……………..L’altra faccia della politica divoratrice è il sindacato che in quanto a voracità non è secondo ai partiti e alla politica, esente da qualsiasi controllo perchè come i partiti non ha alcuna veste giuridica sebbene firmi contratti che vengono fatti valere erga omnes benchè firmati da organismi – i sindacati – che a malapena rappresentano il 20 per cento dei lavoratori italiani, comprendendo nel calcolo anche i lavoratori iscritti ai sidacati non confrederali, e, sopratutto, i pensionati che sono l’80% degli iscritti. Di questo Angeletti, capo di un sindacato lillipuziano, ovviamente non parla. A proposito Angeletti è capo della UIL da almeno un ventennio: manco Mussolini…. g.

PUNTARE TUTTO SU UNA PERSONA, di Ernesto Galli della Loggia

Pubblicato il 17 dicembre, 2013 in Politica | Nessun commento »

La crisi economica sta spingendo la politica italiana in una direzione molto precisa: verso un’oggettiva accelerazione del processo di personalizzazione. Soprattutto per due ragioni: perché fino ad ora tale processo – checché se ne sia detto a proposito del berlusconismo – non era ancora andato molto innanzi, ma soprattutto perché da noi più che altrove (eccezion fatta per la Grecia) la crisi economica sta prendendo il carattere di un’aspra crisi sociale. Cioè di una radicale messa in discussione dello status di milioni di persone: percepita in modo tanto più doloroso quanto più elevato era il livello precedente di garanzie e di benefici.

In una situazione del genere è naturale che si diffondano sentimenti individuali e collettivi di incertezza e di timore. Non si è più sicuri di ciò che si è e di ciò che si ha, di ciò che può riservare il futuro. Appaiono in pericolo i progetti di vita e i mezzi necessari a realizzarli (la piccola rendita finanziaria, il mutuo per la casa, l’avere un figlio, la pensione). Domina una sensazione angosciosa d’instabilità.

Sono queste le condizioni psicologiche ideali perché cresca la domanda di una guida, di un orientamento autorevole, di qualcuno che indichi la via per uscire dal tunnel. Non inganni il mare di discorsi sulla presunta ondata di antipolitica. È vero l’opposto: nei momenti di crisi come quello che attraversiamo cresce sì, e diviene fortissima, la critica alla politica, ma a quella passata (che le oligarchie intellettuali vicine al potere scambiano appunto per antipolitica tout court ), mentre invece diviene ancora più forte la richiesta di una politica nuova e diversa. Sotto la forma, per l’appunto, di una leadership all’altezza della situazione. Di qualcuno che sappia indicare soluzioni concrete ma soprattutto sia capace di suscitare un’ispirazione nuova, di infondere speranza e coraggio, di alimentare – non spaventiamoci della parola – anche una tensione morale più alta: quella che serve a restituirci l’immagine positiva di noi stessi che la crisi spesso distrugge.

La leadership in questione però – ecco il punto – può essere incarnata solo da una persona, da un individuo, non da una maggioranza parlamentare o da un’anonima organizzazione di partito: due dimensioni che in Italia si segnalano da decenni solo per la loro irrisolutezza e la loro sconfortante modestia. La personalità, invece, è sempre stata, e sempre sarà, pur nella sua inevitabile ambiguità, la risorsa ultima e maggiore della politica: proprio perché nei momenti critici, delle decisioni ultimative, è unicamente una persona, sono le sue parole e i suoi gesti, il suo volto, che hanno il potere di dare sicurezza, slancio e speranza. Nei momenti in cui molto o tutto dipende da una scelta allora solo la persona conta.

L’opinione pubblica italiana si trova oggi precisamente in questa situazione psicologica: è alla ricerca di qualcuno a cui affidare la guida del Paese, di qualcuno che mostri la volontà di assumersi questo compito, di avere la capacità e il senso del comando, l’autorevolezza necessaria. È una ricerca, un’attesa, così acute, nate da un sentimento di frustrazione e di esasperazione ormai così vasto e profondo, da rendere quasi secondarie le tradizionali differenze tra destra e sinistra, essendo chiaro che a questo punto ne va della salvezza del Paese, cioè di tutti. Dietro l’ascesa di Matteo Renzi, e a spiegare l’atmosfera elettrica che sembra accompagnarlo ovunque, c’è un tale sentimento. Così forte tuttavia – e questo è il massimo pericolo che egli corre – che alla più piccola smentita da parte dei fatti esso rischia tramutarsi in un attimo nella più grande delusione e nel più totale rigetto. Ernesto Galli Della Loggia, Il Corriere della Sera, 17 dicembre 2013

………………Nell’avvertimento finale di Galli della Loggia, riferito a Renzi, ci sembra di cogliere l’anticipazione di un giudizio nei confronti del ciarliero neo segretario del PD che i fatti confermeranno a breve. g.

AD ASSISI IL CONCERTO DI NATALE DIRETTO DALL’ITALOAMERICANO STEVEN MERCURIO

Pubblicato il 14 dicembre, 2013 in Il territorio | Nessun commento »

Questa mattina nella Basilica di San Francesco in Assisi si è tenuto il tradizionale Concerto di Natale alla presenza, quest’anno, del Presidente della Camera dei Deputati e del Presidente del Senato della Repubblica, oltre che di numerose altre autorità. Il Concerto, come già nelle edizioni del 2010 e del 2011, è stato diretto dal Maestro italoamericano Steven MERCURIO, cittadino onorario di Toritto. Il Concerto, registrato,  sarà trasmesso in eurovisione la mattina di Natale da RAI 1 subito dopo la benedizione “urbi et orbi” di Papa Francesco.

E’ L’ORA DELLA GENERAZIONE DEI BRAVI RAGAZZI, di Aldo Cazzullo

Pubblicato il 13 dicembre, 2013 in Costume, Politica | Nessun commento »

In politica – titolano tg e giornali – è l’ora dei quarantenni. Ma, a ben vedere, è un ricambio più profondo quello che si annuncia, è un’altra generazione ancora quella che si affaccia alla vita pubblica. La generazione che si potrebbe definire dei «bravi ragazzi».

Enrico Letta non è certo un volto nuovo: nel 1998 era già ministro. Angelino Alfano ha quattro anni di meno, ma non si direbbe: le grisaglie, l’eloquio che ricorda i principi del foro siciliani, l’ormai lunga militanza politica ne fanno un veterano. Ma alle loro spalle avanzano i veri giovani, volti più freschi di quelli – da tempo entrati nella sfera mediatica – di Matteo Renzi o di Giorgia Meloni.

La nuova segreteria del Pd, scelta un po’ frettolosamente, può senz’altro essere criticata per la sua «leggerezza». Allo stesso modo, la ricerca di nuovi talenti avviata da Berlusconi non ha ancora dato i risultati attesi. Essere giovani non basta; la preparazione e l’esperienza saranno sempre requisiti fondamentali. Però sarebbe ingeneroso ridurre le novità che avanzano al solo dato anagrafico. I volti che andiamo scoprendo in questi giorni non sono semplicemente di bell’aspetto; dietro ci sono persone normali, di modi garbati, di buoni studi, insomma ragazze e ragazzi come quelli che vediamo festeggiare le lauree nelle città universitarie, cercare tra grandi difficoltà un lavoro, tentare di costruirsi una famiglia e un futuro. Non figli d’arte né del Partito. Volti in cui i nonni possono riconoscere i propri nipoti, i padri i propri figli.

È importante che le nomenklature, a sinistra come a destra, avvertano la necessità di cambiare, di avviare un rinnovamento che non sia solo di facciata ma coinvolga i comportamenti, i profili, le storie, il linguaggio. Mai il discredito della politica è stato così alto, mai il suo fascino così basso. I talenti migliori non se ne sentono attratti. Molti cittadini non ne vogliono più sapere: non a caso tutti i talk show perdono audience. I parlamentari sono visti come alieni che vivono un’altra vita e discutono di altre cose rispetto alla gente normale. In queste circostanze, investire di responsabilità giovani che hanno appena compiuto trent’anni, che hanno figli piccoli o in arrivo, significa finalmente distogliere lo sguardo dalle contrapposizioni ideologiche, e rivolgerlo a un avvenire che non sia l’eterno ritorno di cose già viste e già sentite.

Del resto, nelle aziende innovative, nelle start up , nel mondo delle nuove tecnologie è frequente (non soltanto all’estero) vedere ai posti di comando persone giovani o molto giovani. E per un ragazzo che ancora non vota, ed è tentato di non farlo mai, un trentenne al potere non è un esperimento azzardato ma un fratello maggiore che finalmente si assume le proprie responsabilità. Abituati come siamo a classi dirigenti inamovibili, distanti, talora disoneste, avvezze a cooptare figli e famigli tagliando fuori tutti gli altri, sbaglieremmo a liquidare come inadeguati i compagni di strada di Renzi – compresi quelli che non appartenevano alla sua corrente – e coloro che emergeranno dallo scouting in corso a destra. L’importante è che, oltre a sembrare e – si spera – essere «bravi ragazzi», sappiano coltivare la profondità. Il ricambio generazionale, di cui ogni Paese ha bisogno, non è mai un fatto soltanto anagrafico, non consiste nel mettere semplicemente un giovane al posto di un anziano; significa fare cose nuove o fare le cose di ieri in modo diverso. Aldo Cazzullo, Il Corriere della Sera, 13 dicembre 2013

LE BISCHERATE DI MATTEO (RENZI), di Vittorio Feltri

Pubblicato il 12 dicembre, 2013 in Politica | Nessun commento »

Non siamo mai stati né comunisti né opportunisti di sinistra (generica), ma confessiamo di aver fatto un po’ di tifo (moderato) per Matteo Renzi, neosegretario del Pd.

Il ragazzo non ci era simpatico, ma neppure antipatico quanto la maggior parte dei suoi sodali. Diciamo che tra coloro che non ci piacciono, era quello che ci dispiaceva di meno.

Supponevamo che egli, non essendo un prodotto di Botteghe Oscure e nemmeno un figlio del marxismo-leninismo, ma semplicemente un figlio di buona donna, rappresentasse il meglio del peggio.

E così, forse ingenuamente, ci siamo lasciati trascinare dalla speranza che il sindaco di Firenze potesse imprimere una svolta al suo partito, portandolo verso le praterie della socialdemocrazia, lontano dai pascoli prediletti dai compagni, quelli del compromesso storico e dell’euro (o neuro) comunismo.

L’eloquio sciolto del giovin signore era ed è rassicurante. In certi momenti siamo arrivati ad augurarci che Renzi fosse uno dei nostri, cioè un tipo col quale si potesse parlare e trattare senza paventare inganni. A pochi giorni dalla sua elezione a leader del Pd, temiamo già di aver sbagliato i conti, avendoli fatti senza l’oste. Oddio, qualche dubbio l’avevamo già avuto un paio di settimane orsono, quando «don» Matteo se ne uscì con una bischerata madornale. Questa: sono contrario all’amnistia e all’indulto, perché non risolvono il problema delle carceri, ma lo rinviano sine die.

Quando uno scopre l’acqua calda spacciandola per un’idea geniale bisogna diffidarne. Infatti, la maxi sanatoria proposta da madame Cancellieri, e sollecitata da Giorgio Napolitano, non è una panacea. Ma non ha alternative, dato che il sovraffollamento delle galere si combatte solo in due soli modi: primo, costruendo nuove prigioni, il che comporta l’esborso di soldi, dei quali non disponiamo né disporremo a breve termine (forse mai), quindi «salutame a soreta», nel senso di campa cavallo; secondo, depenalizzando reati che oggi sono stupidamente puniti con la detenzione. Ci sarebbe una terza via, ma è impraticabile: fare sì che gli stranieri dietro le sbarre finiscano di scontare le pene nel loro Paese anziché nel nostro. Ma chi è capace in Italia di organizzare un’operazione similmente complicata? Scartiamola.

Ecco dimostrato che il rifiuto opposto da Renzi all’amnistia e all’indulto significa non avere capito un tubo, considerato che la situazione nei nostri reclusori è ai limiti dell’umana sopportabilità e richiede interventi d’urgenza. Se lo ha intuito perfino Napolitano, che ha l’età del dattero, lo potrebbe afferrare anche il rottamatore. Invece niente, il concetto non gli entra in testa, poverino. Il che conferma che la questione anagrafica è una boiata pazzesca. Se uno è indietro di comprendonio, lo è a prescindere dalla data di nascita. Si può dire che questo sia un assioma.

Renzi, inoltre, non appena conquistata la poltrona in vetta al partito, si è distinto compiendo un’altra porcheria che grida vendetta. Ci si aspettava da lui che desse vita a una segreteria politica innovativa e in grado di ribaltare i vecchi criteri gestionali improntati alla peggiore tradizione comunista; eravamo in ansia, pieni di curiosità, desideravamo verificare l’autenticità della sua propensione a guardare al futuro.

Delusione cocente. Matteo ha nominato una dozzina di mattocchi senz’arte né parte, tra cui un certo Taddei, sedicente economista, il quale ha ribadito senza arrossire – essendo costui più rosso del fuoco – che la chiave adatta per recuperare denaro, allo scopo di distribuirne ai lavoratori in affanno, sia l’aumento della tassazione sulle case di proprietà. Altro che Imu, una bazzecola: bisogna massacrare fiscalmente chiunque abbia uno, due, tre immobili; e il ricavato sia utilizzato per fare giustizia sociale, ossia, spartire la ricchezza. La teoria si basa sul seguente principio: poiché gli immobili sono fermi per definizione, mentre la società è in movimento, occorre penalizzare l’inerte mattone e premiare gli operai che, viceversa, sono la rappresentazione fisica del moto perpetuo.

Renzi si è affrettato ad aggiungere che non candiderà alle europee – le quali si svolgeranno a maggio – né Rosy Bindi né Massimo D’Alema. Agisca come crede. Il capo è lui. Cerchi soltanto di non buttarci dalla padella nella brace. Non ci faccia rimpiangere i bei tempi andati, quando i comunisti si accontentavano di mangiare i bambini, oltre al caviale, naturalmente. Vittorio Feltri, 12 dicembre 2013

….Due oservazioni alla scoperta di FELTRI:

1. non è mai stato vero che esser giovane è garanzia di novità, o, di certa intelligenza, neanche quando, ai tempi del fascismo, si gridava “largo ai giovani”;

2. che Matteo (Renzi) fosse solo  ciarliero riferitore di luoghi comuni era chiaro da sempre, per cui è strano che Feltri, ottimo giornalista e attento osservatore degli uomini,  abbia atteso le ultime esternazioni del Renzi per accorgersene.

Ne aggiungiamo un’altra, per non farci mancare nulla: Renzi ha solo una abilità, quella di dire le cose che la gente si attende di sentire, e di venderele per nuove anche se sono ultravecchie. Dal dire al fare, ovviamente, c’è di mezzo il mare, o anche solo l’Arno. g.

UCRAINA: CENTINAIA DI MIGLIAIA DI ANTICOMUNISTI ABBATTONO LA STATUA DI LENIN

Pubblicato il 8 dicembre, 2013 in Il territorio | Nessun commento »

Ucraina: abbattuta statua Lenin a Kiev

Ucraina: abbattuta statua Lenin a Kiev

Alcuni manifestanti pro-Ue hanno abbattuto una statua di Lenin a Kiev. Lo fa sapere la polizia ucraina, citata dall’agenzia Interfax. Oggi centinaia di migliaia di persone sono scese in piazza contro la decisione del governo ucraino di congelare un accordo di associazione tra Ucraina e Ue. Secondo l’agenzia Itar-Tass, ad abbattere il monumento dedicato al padre della Rivoluzione d’Ottobre sono stati dei militanti del partito ultranazionalista Svoboda. I manifestanti hanno legato delle corde attorno alla statua e l’hanno fatta cadere al suolo.

Successivamente – sempre secondo Itar-Tass – hanno intonato l’inno nazionale ucraino. Dopo essere stata abbattuta, la statua di Lenin che sorgeva a Kiev, in viale Shevchenko, è stata decapitata da un gruppo di nazionalisti. Secondo la versione online del Kyiv Post, il monumento è stato tirato giù dal suo piedistallo con un cavo d’acciaio dai manifestanti, che in questo momento lo stanno facendo a pezzi con una mazza. Il gruppo di nazionalisti, dopo aver abbattuto la statua avrebbe urlato “Ianukovich è il prossimo!” e avrebbe quindi intonato l’inno nazionale ucraino.

Circa 200mila manifestanti pro-europei si sono già riuniti nel centro di Kiev, in Ucraina, per chiedere le dimissioni del presidente Ianukovich in seguito al suo voltafaccia sull’accordo di associazione con la Ue a favore della Russia. La piazza dell’Indipendenza, nota anche con il nome di Maidan, cuore della Rivoluzione arancione nel 2004 che portò al potere i filo-occidentali, é già colma di persone e i manifestanti continuano ad affluire. Moltissime le bandiere ucraine in piazza, ma ci sono anche bandiere dell’Ue e dei partiti dell’opposizione. Il grande albero di Natale montato in piazza è stato riempito di vessilli dell’opposizione e striscioni con slogan contro il governo, tra cui anche una gigantografia con il volto dell’ex premier in carcere Iulia Timoshenko (VAI). La maggior parte dei manifestanti viene dall’Ucraina centrale e da quella occidentale, culturalmente e linguisticamente meno vicine alla Russia.

…Viva l’Ucraina libera, europea  e anticomunista!

ADDIO MANDELA, “SANTO” D’AFRICA

Pubblicato il 6 dicembre, 2013 in Il territorio | Nessun commento »

Nelson Mandela, in una foto scattata nel 1990

Se soltanto trovassimo una pozione magica per farlo tornare gio­vane… ». In un Sudafrica che, dopo la fine della sua presiden­za nel 1999, si è progressiva­mente avvitato in una specie di crisi esistenziale che rischia di compromettere la sua eredità, milioni di cittadini solevano in­vocare un suo impossibile ritor­no sulla scena politica anche dopo che aveva compiuto i no­vant’anni. E ora che si è spento, Nelson Mandela è destinato a diventare un personaggio leg­gendario, l’incarnazione di un sogno che, purtroppo, si è avve­rato solo in piccola parte: quel­lo della «nazione arcobaleno», in cui neri, bianchi, indiani e meticci avrebbero convissuto in armonia e prosperità. Se do­vessimo sti­lare una classifica tra i vincito­ri del No­bel per la pace del­l’u­ltima ge­nerazione, Mandela è sicuramen­te quello che lo ha meritato più di tutti, perché il passaggio senza spar­gimento di sangue e senza col­lassi economici dal vecchio re­gime di supremazia bianca a una democrazia dominata dal­la maggioranza nera è stato un capolavoro politico forse sen­za eguali nel mondo moderno. L’età avanzata e una certa fragi­lità, dovuta anche ai 27 anni tra­sco­rsi nel carcere di massima si­curezza di Robben Island, non gli hanno consentito di portare l’impresa a compimento.

Il suo posto nella storia, perciò, non dipenderà tanto da quello che è riuscito a realizzare nei suoi quattro anni da primo presi­dente nero della Repubblica su­dafricana, quanto dalla sua ca­pacità di imporre le prospetti­ve di una società unita, al di là delle laceranti divisioni che hanno caratterizzato la sua sto­ria.

Quando nacque nel villaggio di Mvezo, nel cuore del Tran­skei, il 18 luglio 1918, terzo fi­glio di un capotribù Xhosa, il fu­turo Nelson Mandela venne chiamato Rolihlahla Dalibhun­ga. Furono i missionari metodi­sti a dargli il nome con cui è di­ventato famoso, a curare la sua istruzione e infine a mandarlo al College di Fort Hare, la prima università per neri del Sudafri­ca. Una volta laureato, aprì uno studio legale in società con Oli­ver Tambo, un altro futuro pro­tagonista della resistenza con­tro l’apartheid, ma si buttò qua­si subito in politica, in difesa dei diritti dei neri che, con la vit­toria del partito nazionalista nelle elezioni del 1948 e le suc­cessive leggi razziali, erano sta­ti ridotti a non-cittadini.

Tra i fondatori dell’African National Congress, l’attuale partito di governo, fu arrestato una prima volta nel 1956 (e pro­sciolto dall’accusa di volere co­stituire un regime comunista), nominato nel 1961 comandan­te della «Lancia della nazione», il movimento di liberazione del partito, spedito all’estero a cer­care appogg­i nel 1962 e arresta­to nuovamente al suo rientro in patria nel 1963. Stavolta, il tri­bunale lo condannò all’ergasto­lo, ma il discorso di denuncia che pronunciò davanti alla Cor­te prima di sparire per un quar­todi secolo nelle carceri dell’ apartheid destò una enorme eco in tutta l’Africa e rimane, per molti, il punto più alto della sua militanza.

Anche durante la segregazione a Robben Island, Mandela riuscì a rima­nere la guida suprema dell’ ANC, il principale punto di rife­rimento per i compagni sfuggi­ti all’arresto che, in clandestini­tà o in esilio, continuavano la lotta.

I suoi stessi carcerieri erano in qualche modo intimiditi dal­la sua personalità e – in realtà ­non infierirono mai contro di lui.

Infatti, quando il regime del­l’apartheid cominciò a vacilla­re, fu a lui che si rivolse per cer­care una soluzione. Già nel 1985, il presidente Botha gli of­frì in segreto la libertà un cam­bio di un ripudio della lotta ar­mata, ma Mandela rifiutò. Il go­ve­rno decise egualmente di tra­sferirlo da Robben island al car­cere di Pollsmoor, nel tentativo di costruire, attraverso di lui, un ponte verso la comunità ne­ra, e il 4 luglio 1989 lo stesso Botha si decise a incontrarlo. Il colloquio mise le basi per gli svi­luppi successivi, che in quattro anni hanno radicalmente cam­biato il volto del Paese: la libera­zione del Madiba (il patriarca) il 2 febbraio 1990, la legalizza­zione dell’ANC, la nomina di Mandela a suo presidente, il conferimento del premio No­bel per la pace (insieme a F.W. De Klerck, successore di Botha e ultimo presidente bianco), la proclamazione di una nuova Costituzione che sanciva l’eguaglianza di tutti i cittadini indipendentemente dal lorocolore e la elezione di Nelson Mandela a nuovo capo dello Stato, con lo stesso De Klerck come vice per rassicurare la mi­noranza bianca.

Non si può dire che Mandela sia stato un buon presidente: un po’ per l’età ormai avanzata, un po’ per la totale mancanza di esperienza amministrativa, il suo governo ha lasciato mol­to a desiderare: non ha garanti­to alle masse delle township i progressi che si aspettavano, ha tollerato la corruzione della nuova classe dirigente, non ha combattuto con sufficiente de­terminazione la diffusione dell’ AIDS. Ma il suo carisma era tale che tutto gli è stato perdonato. Il suo vero capolavoro è stato il superamento della frattura tra le varie comunità fino a quel momento divise dall’apar­theid, all’insegna del motto «Chi ha coraggio non deve ave­re paura di perdonare » . Così, si è in­ventato la fa­mosa «Com­missione per la verità e la ri­conciliazio­ne », davanti alla quale so­no sfilati tutti coloro, bian­chi e neri, che avevano com­messo dei cri­mini nel cor­so del conflit­to razziale e che- salvo nei casi più gravi­in cambio del­la piena con­fessione si so­no guadagna­ti l’impunità.

Famosi so­no rimasti an­chealcuni suoi gesti, co­me quello di sostenere la squa­dra di rugby degli Springbock, autentici simboli del potere bianco che erano stati esclusi per anni dalle competizioni in­te­rnazionali proprio su pressio­ne dell’ANC, e di festeggiare con loro la vittoria nei campio­nati del mondo del ‘ 95; oppure, come quello di invitare a palaz­zo per il the le vedove dei suoi predecessori bianchi che lo avevano incarcerato.

Il suo passato di rivoluziona­rio lo ha anche spinto a com­mettere degli errori, come l’ap­poggio dato fino alla fine a Cu­ba e alla Libia; e, quando, or­mai ritirato a vita privata, si è piegato troppo spesso ai voleri del suo ambiguo successore Mbeki. Con tutti suoi difetti, Mandela passerà comunque al­la storia come il personaggio di maggiore statura espresso dall’ Africa postcoloniale: un uomo leale e generoso in un mondo di intrinseca ferocia, uno dei pochi visionari che siano riusci­ti a trasformare la loro visione in realtà. In un certo senso, è sta­ta p­er lui una fortuna la gradua­le perdita di contatto con la real­tà del Paese che ha contrasse­gnato i suoi ultimi anni: la cre­scente corruzione nell’ANC, gli affari sporchi di vari suoi fa­miliari, il crescente malconten­to delle masse tradottosi di re­cente in scioperi e violenze non lo hanno più toccato; ed è mor­to sereno, come meritava. Livio Caputo, Il Giornale, 6 dicembre 2013

FINALMENTE: LA CORTE COSTITUZIONALE SEPPELLISCE IL PORCELLUM

Pubblicato il 4 dicembre, 2013 in Il territorio | Nessun commento »

La Corte Costituzionale ha seppellito il Porcellum, il sistema elettorale che lo stesso ideatore definì una “porcata”. Dichiarati incostituzionali il premio di maggioranza e la mancanza di preferenze, ovvero, le liste bloccate. Bocciato quindi il sistema elettorale che ha portato gli attuali deputati e senatori nei Palazzi e promosso invece il ricorso presentato dall’avvocato 80enne Aldo Bozzi che combatteva contro lo status di “cittadino-suddito”. Una sentenza storica e un terremoto politico visto che la Consulta ha di fatto delegittimato l’attuale Parlamento e quindi l’impianto politico-istituzionale italiano. Con il Porcellum, dal 2006 ad oggi, il Parlamento ha approvato leggi, eletto il presidente della Repubblica… Nelle prossime settimane saranno note le motivazioni e soltanto da allora la sentenza sarà efficace. Insomma, tranquilli tutti, per ora non succede nulla, ma subito dopo la pubblicazione, qualsiasi atto dell’attuale parlamento può essere dichiarato incostituzionale… L’unico fatto certo fin da subito è che i partiti ormai non possono più rinviare la riforma elettorale, fosse anche il “ritocco” di quella attuale per arrivare al proporzionale con una preferenza o tornare al Mattarellum. Non sono più illazioni, bisogna trovare un accordo, necessariamente, altrimenti si rischia di andare allo scioglimento anticipato delle Camere perché mantenere in vita un Parlamento che si sa essere stato eletto in modo incostituzionale, dopo l’ufficialità della sentenza, può essere comunque dichiarato invalido e con esso tutti i suoi atti. Ancora una volta sono i giudici delle leggi a dettare l’agenda alla politica che non ha più alibi. A questo punto serve una riforma vera, strutturata, che abbia una lunga durata e dia un forte assetto al quadro politico istituzionale. Mai come ora, i partiti devono riprendere il dialogo e la collaborazione per una legge seria e duratura per il Paese.  Sarina Biraghi, Il Tempo, 4 dicembre 2013

……E’ una notizia tanto attesa quanto clamorosa perché accoglie per intero le ragioni dei cittadini esposte nei ricorsi che hanno condotto lo Consulta ad assumere una decisione storica. Finalmente si pone  fine sia al Parlamento dei nominati sia al alla scandalosa assegnazione di seggi, come in occasione delle elezioni dello scorso febbraio, senza  ragionevoli basi elettorali. Al’ultima competizione per la Camera, la coalizione di centrosinistra con appena il 29,55 dei voti si è vista assegnare ben 340 seggi su 630, mentre alla coalizione di centrodestra con il 29,00% dei voti sono andati poco più di un centinaio di seggi, e i rimanenti agli altri partiti. Semplicemente scandaloso, come scandaloso era l’assegnazione dei seggi a liste bloccate, come accadeva  e accade nei regimi totalitari, sottraendo ai cittadini elettori, in barba alla Costituzione , il diritto di scegliere il candidato all’interno di ciascuna lista. Ora bisognerà attendere la pubblicazione della sentenza per conoscere nel dettaglio le conseguenze immediate di questa decisione storica della Consulta, soprattutto due: l’eventuale ritorno immediato, in assenza di interventi legislativi consoni alla Carta Costituzione,   al vecchio Mattarellum , cioè al sistema uninominale, e l’eventuale dichiarazione di decadenza dalla carica di parlamentare per ben 148 deputati del Pd, non ancora convalidati dalla   Giunta per le e Elezioni della Camera e la ridistribuzione dei seggi tra gli altri partiti: insomma, una rivoluzione nella rivoluzione. Comunque, finalmente!. E’ finita l’epica dei nominati,  è finita l’epoca delle veline, è finita una brutta pagina della storia recente della politica del nostro Paese. g.


LA DECADENZA DI BERLUSCONI: CIRCOLI VIZIOSI E RETI PERDUTE

Pubblicato il 1 dicembre, 2013 in Il territorio | Nessun commento »

Dobbiamo decidere se diventare o no adulti responsabili. E dobbiamo deciderlo subito. Per un lunghissimo periodo abbiamo avuto tutori che si prendevano cura di noi, ci proteggevano dai pericoli della vita, e soprattutto da noi stessi. La democrazia italiana non è sopravvissuta così a lungo per merito nostro ma perché disponevamo di potenti protettori. Prima di tutto, gli americani. Ci hanno salvati, sconfiggendoli, da quei totalitarismi che hanno sempre esercitato su di noi una grande attrazione. E poi c’era l’Europa, ideale «caldo» solo per piccole élite visionarie e una comoda cuccia per tutti gli altri, generatrice di vantaggi economici (un bancomat sempre coperto) e, per noi italiani in particolare, utile vincolo esterno che doveva contrastare la debolezza della nostra volontà. Come Ulisse, senza vincoli, o così pensavamo, ci saremmo gettati in mare per seguire il canto delle sirene.

I protettori si sono dileguati. Gli americani hanno altro a cui pensare e dell’Europa, ora che il bancomat risulta scoperto, in tanti pensano che non sia più una cuccia ma una prigione. Per giunta, l’Unione viene picconata ogni giorno, smantellata pezzo per pezzo. E, con essa, gli ideali che la sorreggevano. Come ha osservato ieri sul Corriere Gian Arturo Ferrari, la decisione tedesca di far pagare i pedaggi autostradali ai soli non tedeschi mostra la forza simbolica dirompente di certi piccoli gesti, ci dice sullo stato dell’Unione più di mille discorsi.

Siamo soli insomma (l’interdipendenza con gli altri non esclude affatto la solitudine), e siamo di nuovo liberi di farci tutto il male che vogliamo. Prendiamo il caso Berlusconi. Solo una combinazione di mancanza di senso storico e di miopìa politica, di incapacità di guardare al di là del proprio naso può fare pensare che non avrà effetti di lungo termine sulla democrazia italiana il fatto che un leader che ha rappresentato e rappresenta milioni di elettori sia stato messo fuori gioco per via giudiziaria anziché politica. Solo la suddetta combinazione può far pensare che non si tratti di un fatto che segnerà il nostro futuro, scaverà nelle coscienze, alimenterà rancori che si perpetueranno nel tempo. Berlusconi era stato condannato e la decadenza era inevitabile. Ma, come ha osservato Sergio Romano (sul Corriere di ieri), c’è modo e modo di affrontare un passaggio così delicato. La consapevolezza del fatto che la democrazia è un regime politico fragile, fragilissimo, che va maneggiato con delicatezza, avrebbe dovuto imporre un fair play politico che invece è mancato. Gli adulti lo comprendono, i bambini viziati no. Se poi guardiamo al quadro più generale dovremmo capire quanto sia urgente agire. L’interazione perversa fra una politica destrutturata, una amministrazione pubblica che imprigiona le energie sociali, una magistratura debordante, e una economia in via di deindustrializzazione, va affrontata con una forza e con capacità che fin qui nessuno ha mostrato di possedere. Il venir meno degli antichi protettori lo rende improcrastinabile. Si dice spesso che siano le situazioni di grande emergenza a creare le leadership in grado di venirne a capo. Ma si tratta di una visione provvidenzialistica che non trova sempre riscontro nei fatti.

Qualcuno potrà dire che a salvarci sarà la struttura demografica della società. I vecchi non fanno le rivoluzioni. E i giovani sono troppo pochi per ribellarsi. Ma è un argomento a doppio taglio. Nella migliore delle ipotesi ci condanna a una irreversibile decadenza. E non è sufficiente comunque per escludere turbolenze e contraccolpi violenti. Non permette di dimenticare che gli ordini sociali, tutti, vivono sempre sotto la minaccia della disgregazione. Da come parlano, da come scrivono, e da come agiscono in tanti, sembra che questa minaccia non ci riguardi, che noi si disponga, chissà perché, di una qualche speciale esenzione.

Nel Paese esistono ancora, per fortuna, grandi energie che aspettano di essere liberate e valorizzate. Ma tocca alla politica comprendere che non è più tempo di galleggiamenti. Gli schiaffi dati all’Italia dalle autorità di Bruxelles (come quello sulla legge di Stabilità) sono un segnale inequivocabile. Adesso c’è bisogno di una vera azione innovatrice e di leadership. La Germania fece (non con la Thatcher, con il socialdemocratico Gerhard Schröder) le riforme che andavano fatte. La Gran Bretagna di David Cameron fa ora, in chiave diversa, la stessa cosa. Solo noi ne siamo incapaci, solo noi crediamo che annunci, proclami e chiacchiere siano efficienti sostituti dell’azione? Solo noi siamo condannati a non potere sconfiggere i poteri di veto di cui dispongono gli interessi che pretendono che nulla mai cambi? Anche quando è ormai evidente che l’immobilismo non è più economicamente e socialmente sostenibile e che ci porta alla rovina?
È arrivato il tempo di dimostrare che, anche senza catene, possiamo resistere alle sirene, ai nostri peggiori istinti. Angelo Panebianco, Il Corriere della Sera, 1° dicembre 2013

NAPOLITANO: DUE CODICI E DUE COSTITUZIONI

Pubblicato il 30 novembre, 2013 in Politica | Nessun commento »

Colpo di Stato atto secondo. Un passo indietro. Quando Follini, dico Follini non De Gasperi, nel 2005 lasciò la maggioranza che sosteneva il governo Berlusconi per passare neppure all’opposizione ma all’appoggio esterno, il presidente della Repubblica Ciampi pretese da Berlusconi l’apertura di una crisi di governo formale, con tanto di dimissioni e successivo nuovo governo e giuramento.E si badi bene: Follini rappresentava l’ala minoritaria di un partito, l’Udc, che aveva ottenuto alle precedenti elezioni il tre per cento. Detto con rispetto, parliamo del nulla. Bene, torniamo all’oggi. A lasciare la maggioranza è un partito, Forza Italia, che oltre a valere oltre il 20 per cento, del governo Letta è stato indispensabile socio fondatore. E Napolitano che fa? Prima ci prova a far finta di niente, ma proprio niente. Poi capisce, messo alle strette da Forza Italia, di averla fatta troppo grossa e ordina a Letta un «passaggio parlamentare» per verificare la fiducia. Una scampagnata, insomma, per di più con comodo, non c’è fretta. Di dimettersi, come fu imposto a Berlusconi ai tempi di Follini, neppure se ne parla. Oltre che due codici penali, in Italia ci sono anche due Costituzioni: una valida solo per Berlusconi, l’altra per la sinistra.
Perché Napolitano vuole evitare l’apertura di una crisi è intuibile. Cito solo due motivi. Il primo: in un nuovo governo Letta sarebbe imbarazzante per tutti confermare come ministro della Giustizia la sua amica Cancellieri, occhio e orecchio del Quirinale dentro l’esecutivo. Il secondo. Come farebbe Napolitano a onorare la promessa fatta ai cinque ministri ex Pdl che in cambio del loro tradimento avrebbero mantenuto tutti il loro prestigioso posto? Già, perché nel Pd, soprattutto in quello che tra due settimane avrà Renzi segretario, non sono proprio tutti fessi. Cinque ministri erano proporzionati alla forza parlamentare del Pdl. Al nuovo partitino di Alfano, ne spetterebbero meno di un terzo, cioè uno e mezzo. Ve li vedete la Lorenzin, la Di Gerolamo e Quagliariello fare le valigie? Io credo che da «diversamente berlusconiani» diventerebbero in un batter d’occhio «diversamente lettiani» o se volete «diversamente napoletaniani». Tradotto: incavolati come bestie tradirebbero anche i loro nuovi padroni e addio nuova maggioranza.
Ecco perché Napolitano e Letta fanno i pesci in barile. Parlano d’altro. Il problema è che «l’altro» è il nuovo record assoluto di disoccupazione giovanile. Come si dice: dalla padella alla brace. Alessandro Sallusti, 29 novembre 2013