CASO ILVA: TANTI SALUTI ALL’INDUSTRIA, di Angelo Panebianco

Pubblicato il 15 settembre, 2013 in Economia, Giustizia, Politica | Nessun commento »

La vicenda dell’Ilva è un disastro in sé e l’ennesima tappa di un processo di de- industrializzazione da tempo in atto nel Paese che sta lasciando dietro di sé macerie fumanti e povertà. La chiusura degli stabilimenti Ilva in Lombardia, conseguenza della vicenda giudiziaria di Taranto, era prevedibile. A nulla sono valsi i tentativi dei governi (si ricordi il braccio di ferro fra il governo Monti e i magistrati tarantini) di impedire il disastro. Che sarà occupazionale e non solo. Come ha osservato Dario Di Vico ( Corriere , 13 settembre), e ribadito il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi, stiamo liquidando, per la gioia dei concorrenti esteri, un intero comparto industriale, la siderurgia.

Non si tratta di difendere il gruppo Riva. Le sue eventuali responsabilità riguardano il tribunale. Si tratta di capire come e perché sia possibile affondare un comparto industriale vitale per la collettività, con effetti a catena su tanti altri comparti, come e perché sia possibile distruggere una cruciale fonte di ricchezza.

La vicenda dell’Ilva di Taranto doveva essere gestita con buon senso. Si doveva contemperare l’esigenza della bonifica e la salvaguardia di una industria di grande importanza. A questo miravano richieste e provvedimenti dei governi. Non è stato così. Anziché procedere con la cautela che la problematicità del quadro consigliava si sono irrisi gli esperti che invitavano alla prudenza nei giudizi e la magistratura è andata avanti come un caterpillar. Ora se ne paga il prezzo.

Due sono gli aspetti di questa vicenda che, anche al di là del caso Ilva, fanno temere che il declino economico del Paese sia inarrestabile. Il primo riguarda l’esondazione del diritto penale. Il diritto penale è, fra tutte le forme del diritto, la più primitiva e barbarica: precede storicamente le forme più sofisticate (il diritto civile, amministrativo ecc.) che la civiltà ha via via inventato. Per questo, dovrebbe, idealmente, essere attivato solo in casi estremi, dovrebbe avere un ruolo circoscritto. Ma quando il diritto penale (come nel caso dell’Ilva e come avviene ogni giorno in ogni aspetto della vita del Paese) diventa il mezzo dominante di regolazione dei rapporti sociali, allora ciò che chiamiamo civiltà moderna è a rischio estinzione.

Il secondo aspetto riguarda la diffusione di una particolare sindrome, un orientamento anti-industriale, travestito da ecologismo, che punta alla decrescita, alla de-industrializzazione, perché tratta l’industria in quanto tale come una minaccia per l’ambiente. Da utile mezzo per contrastare le esternalità negative (i costi collettivi prodotti dall’inquinamento) l’ecologismo è diventato un’arma ideologica al servizio della mobilitazione anti-industriale (si veda il bel saggio di Carlo Stagnaro sull’ultimo numero della rivista Limes ). Se non fossero stati sostenuti da questa diffusa sindrome anti-industriale, i magistrati di Taranto avrebbero forse attivato, come chiedeva il governo, percorsi dagli esiti meno distruttivi per l’industria italiana. Angelo Panebianco, Il Corriere della Sera, 15 settembre 2013

……Se avessimo detto o scritto su questo blog ciò che scrive Panebianco a proposito dell’Ilva e dei magistrati onniscenti che ormai hanno immobilizzato il Paese e lo stanno trascinando verso l’abisso, ci sarebbe stato di certo il cretino di turno (ne abbiamo in mente uno che in  materia di cretinismo è il numero superuno)  che ci avrebbe accusato di volere la morte della gente di Taranto e ci avrebbe  arruolato nell’esercito dei delinquenti. Non ci avrebbe scalfito più di tanto perchè piuttosto che essere imbecilli talvolta può essere più conveniente (per gli altri) non esserlo. Il caso dell’Ilva è stato ridondante di imbecillità dall’inizio e ricorda da vicino un altro caso clamoroso: Punta Perotti. L’ecomostro – come fu definito dalla pubblicistica del tempo – nacque e crebbe e si innalzò sulle sponde del lungomare barese sotto gli occhi della magistratura che a quel tempo occupava un palazzo poco distante per cui non poteve non accorgersene. Ma stette zitta, non fiatà, sino a quando i palazzi avevano già assorbito ingenti risorse e i suoi appartamenti posti sul mercato immobiliare per la vendita. Solo allora i magistrati partirono all’attacco condotto sino in fondo, sino all’abbattimento che ha prodotto danni ingentissimi, finanziari, e d’immagine,  i cui risarcimenti sono oggetto di sentenze di altre magistrature, comprese quelle europee. Così l’Ilva. Sta lì, da decenni, si chiamava centro siderurgico e all’epoca della sua nascita fu considerato una sorta di risarcimento al sud bistrattato. Per decenni ha caratterizzato, nel bene e nel male, la crescita non solo di Taranto ma dell’intero suo hinterland che si estenede anche oltre i confini di quella provincia. Per decenni il siderurgico, passato attraverso mille traversie anche finanziarie, ha dato lavoro e sicurezza economica a migliaia di lavoratori e di famiglie, per decenni gli ecologisti, sopratutto quelli che di giorno concionano contro la modernità ma la sera non se ne fanno mancare neppure una, hanno innalzato cartelli e promosso cortei di protesta, e per decenni i magistrati tarantini hanno girato la testa dall’altra parte. Non dovevano mantenerla girata la testa dall’altra parte,  ma come dicevano i i romani, maestri di diritto,  “modus in rebus”. Invece no. Avendo deciso di rigirarla dopo decenni di sonnolenza hanno scatenato tutta la loro potenza di fuoco per ottenere quello che sta accadendo e che non riguarda solo l’Ilva, Taranto, la sua provincia.  Riguarda tutta l’Italia e la sua già disastrata economia oggetto di bramose attese da parte della concorrenza, in ogni settore, ovviamente anche in quello dell’acciaio. La sistematica “attenzione” della magistratura  verso il grupppo Riva  che tra tante colpe pur qualche merito deve avercelo, ha prodotto il blocco del sistema siderurgico in  ogni parte del Paese, proprio quando il Paese ha bisogno di trovare ragioni e occasioni di ripresa per uscire dal tunnel nel quale siamo stati ficcati dalla balardaggine americana e dalla miopia della burocrazia europea, anzi, sopratutto tedesca che non potrà che gioire dell’ennesima imboscata all’industria italiana. E la politica che fa? Non è risuscita a bloccare, pur essendo la politica sovrana in un sistema di democrazia, l’azione distruttiva di un  magistratura straboccante e si balocca su questioni che sono come il pelo nell’uovo. Chi ha fame il pane lo inzuppa anche lì dove c’è il pelo, badando alla sostanza e tralasciando la forma. Altrimenti di forma finiremo col morire.g.

PILLOLE DI CONFUCIO (PER RIDERE UN PO’)

Pubblicato il 14 settembre, 2013 in Gossip | Nessun commento »

Studiare senza pensare è tempo perso; pensare senza studiare è pericoloso” (Confucio, da Analecta II, 15)

Il vicino osserva il bambino.- “Che cosa fai?”- “Il mio pesce rosso è morto e sto scavando una fossa per seppellirlo”.- “Ma quel buco è un po’ grande per un pesciolino, non credi?”- “No, perché il pesciolino è dentro il tuo gatto”.

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Durante il battesimo, il prete chiede il nome del bambino.

– “Carlo Alberto Gustavo Filippo Alfonso Giacomo Vittorio Celestino Maria Giuseppe”, risponde il padre.

Il prete al chierichetto, sottovoce:

– “Svelto, va a prendere più acqua”.

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“Mani in alto, questa è una rapinai Dammi tutti i tuoi soldi!”
- “Ma io sono il rappresentante del partito!”
- “Allora dammi tutti i nostri soldi!”

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- “Vorrei un funerale per il mio cane – dice l’anziana signora – in Chiesa… “.
Il Parroco si scalda:
- “Come! In Chiesa? Per un cane? Ma siamo matti? Un animale non ha anima, non può entrare in Chiesa né vìvo né morto!”
- “Peccato, Avevo preparato 5.000 dollari di offerta… Vuoi dire che chiederò ai buddisti, loro amano gli animali”.
- “Un momento – interrompe premuroso il Parroco – non mi aveva detto che era un cane cristiano!”

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Due uccelli nel cielo di Shanghai vedono passare un aereo supersonico.
“Perbacco, quello sì che vola veloce!”
“Bella forza. Vorrei vedere te se avessi il sedere in fiamme!”

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Visto che il premio Nobel della letteratura passa di là, il libraio mette fuori tutti i suoi libri. L’autore soddisfatto: “Bravo bravo, non vedo altri libri che i miei”.
Il libraio timido: “Cosa vuole? Sa, gli altri li abbiamo venduti…”

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Durante la guerra dell’oppio, il capo dei pirati cinesi cattura un ricco finanziere inglese. Dice all’interprete: “Digli che se non rivela dove tiene l’oro lo uccido”.
L’interprete traduce.
Inglese: “Non ho paura di morire”.
Capo pirata: “Cosa ha detto?”
Interprete: “Dice che non ha paura di morire”.
Capo pirata: “Digli che lo torturerò″.
Inglese: “Non ho paura di morire”.
Interprete: “Dice che non ha paura di morire”.
Capo pirata: “Digli che torturerò tutta la sua famiglia”.
L’interprete traduce.
L’inglese: “No, la mia famiglia no. L’oro è nascosto sotto il secondo bancone del mercato del pesce di Canton”.
Capo pirata: “Cosa ha detto?”
Interprete: “Dice che non ha paura di morire”.

COME PREMIARE L’ILLEGALITA’….A NAPOLI SI PUO’

Pubblicato il 13 settembre, 2013 in Costume, Politica | Nessun commento »

Circola in Italia una strana idea di legalità. I suoi cultori chiedono alle Procure di esercitare il ruolo improprio di «controllori» ma non appena possono premiano l’illegalità, per demagogia o per calcolo elettorale. È il caso di Napoli, città-faro del movimento giustizialista visto che ha eletto sindaco un pm, dove è stata appena approvata, praticamente all’unanimità, la sanatoria degli occupanti abusivi delle case comunali. Nel capoluogo partenopeo si tratta di un fenomeno vastissimo: sono circa 4.500 le domande di condono giunte al Comune per altrettanti alloggi. Per ogni famiglia che vedrà legalizzato un abuso, una famiglia che avrebbe invece diritto all’abitazione secondo le regole e le graduatorie perderà la casa. Non c’è modo migliore di sancire la legge del più forte, del più illegale; e di invitare altri futuri abusivi a spaccare serrature e scippare alloggi destinati ai bisognosi.

Ma nelle particolari condizioni di Napoli la sanatoria non è solo iniqua; è anche un premio alla camorra organizzata. È stato infatti provato da inchieste giornalistiche e giudiziarie che «l’occupazione abusiva di case è per i clan la modalità privilegiata di occupazione del territorio», come ha detto un pubblico ministero. In rioni diventati tristemente famosi, a Secondigliano, Ponticelli, San Giovanni, cacciare con il fuoco e le pistole i legittimi assegnatari per mettere al loro posto gli affiliati o i clientes della famiglia camorristica è il modo per impadronirsi di intere fette della città; sfruttando le strutture architettoniche dell’edilizia popolare per creare veri e propri «fortini», canyon chiusi da cancelli, garitte, telecamere, posti di blocco, praticamente inaccessibili dall’esterno e perfetto nascondiglio per latitanti, armi e droga.

Non che tutto questo non lo sappia il sindaco de Magistris, che a Napoli ha fatto il procuratore. E infatti ha evitato di assumersi in prima persona la responsabilità di questa scelta. L’ha però lasciata fare al consiglio comunale, Pd e Pdl in testa, difendendola poi con il solito eufemismo politico: «Non è una sanatoria. Io la chiamerei delibera sul diritto alla casa». E in effetti è una delibera che riconosce il diritto alla casa a chi già ce l’ha, avendola occupata con la forza o l’astuzia. Antonio Polito, Il Corriere della Sera, 13 settembre 2013

……Scommettiamo che se De Magistris, in questa circostanza,  invece che sindaco di Napoli fosse  stato procuratore della Repubblica,  il sindaco, chiunque fosse, lo avrebbe arrestato? E per una volta avrebbe avuto ragione perchè legalizzare un reato quale è non solo l’occupazione abusiva di una casa ma anche la sottrazione della proprietà al legittimo proprietario, per di più con la forza, è a sua volta un reato che va perseguito e punito, severamente e immediatamente,  visto che la sempre invocata Costituzione “più bella del mondo” riconosce e tutela la proprietà privata.  Invece De Magistris, come denuncia Polito, se ne è uscito con una tesi  che più che l’arresto meriterebbe la gogna:  legalizzare il reato serve a riconoscere il diritto alla casa….e il diritto di chi la casa se l’è vista sgraffignare sotto il muso? Diciamoci la verità: De Magistris, come tanti come lui, è quel che ci meritiamo allorchè andando a votare dimentichiamo l’antico adagio che ammoniva: il meglio  (o quel che tale appare) è sempre nemico del bene. Ogni riferimento a ciò che è sotto il nostro naso è puramente voluto. g.

SE NON E’ ZUPPA, E’ PAN BAGNATO: AMATO GIULIANO, IL DOTTOR SOTTILE DI CRAXI, NOMINATO GIUDICE COSTITUZIONALE

Pubblicato il 12 settembre, 2013 in Costume, Politica | Nessun commento »

Giuliano Amato giudice costituzionale

ROMA, 12 SET – Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, “con decreto in data odierna, ha nominato ai sensi dell’art. 135 della Costituzione, Giudice della Corte Costituzionale il Professore Giuliano Amato”. Fa parte delle prerogative del Capo dello Stato scegliere cinque dei quindici ‘giudici delle leggi”’.

“Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano con decreto in data odierna – si legge nella nota del Quirinale – ha nominato ai sensi dell’art. 135 della Costituzione, Giudice della Corte Costituzionale il Professore Giuliano Amato, in sostituzione del Professor Franco Gallo, il quale cessa dalle sue funzioni di Giudice e di Presidente della Corte Costituzionale il prossimo 16 settembre. Il decreto è stato controfirmato dal Presidente del Consiglio dei Ministri Onorevole Dottor Enrico Letta. Della nomina del nuovo Giudice Costituzionale il Capo dello Stato ha dato comunicazione al Presidente del Senato della Repubblica, al Presidente della Camera dei Deputati e al Presidente della Corte Costituzionale”. Fonte ANSA, 12 settembre 2013

…………………..L’antico proverbio contadino è quanto mai “azzeccato” per l’ultima nomina di Napolitano che non contento di aver infoltito la sinistra del Senato con quattro nuovi senatori a vita al costo sine die di un milione di euro all’anno, stamattina ha nominato un nuovo giudice costituzionale, e guarda caso anche questa volta di sinistra, nella persona di Giuliano Amato, meglio noto come il prezzemolo di tutte le minestre, da quella craxiana, a quella dei banchieri a cui dedicò la “rapina” cui sottopose i conti correnti degli italiani nel 1992, depredandoli notte tempo di una prelievo forzato mai più restituito. Da allora ne è passata di acqua sotto i ponti di tutti i fiumi del mondo ma lui, il Giuliano nazionale, il dottor sottile che suggeriva a Craxi le mosse politiche, è riuscito non solo ad uscire indenne da ogni sconvolgimento ma ha tratto fior di vantaggi,  dalla nomina a premier nel 1992 al posto di Craxi che tradì senza indugi, alla nomina  apremier dopo D’Alema agli sgoccioli della maggioranza ulivista di Prodi del 1996. Qualche settimana fa non gli è riuscito di fare bingo con la elezione a presidente della Repubblica che avrebbe aggiunto un ulteriore sonoro tintinnare di emolumenti mensili a quelli, davvero miserabili che riscuote ogni mese: 35 mila euro, ma non si è perso d’animo ed infatti dopo una breve attesa intervallata dalla mancata nomina a seatore a vita ecco la nomina a giudice costituzionale, nell’ambito della quale, potrebbe, forse a breve, dimostrare il suo eterno contorcimento, negando a Berlusconi, ex amico di Craxi e quindi anche suo ex amico, una qualsivoglia benevolenza a proposito della legge Severino ove fosse quest’ultima  fosse sottoposta al vaglio di costituzionalità. Anche in questo malaugurato caso il nostro non  si sottrarrebbe e farebbe il suo dovere: sempre al servizio di Sua Maestà  di Chi comanda. g.

SULL’ORLO DEL PRECIPIZIO

Pubblicato il 11 settembre, 2013 in Politica | Nessun commento »

Se gli ultimi tentativi di mediazione fallissero, se l’ultimo, accorato appello del presidente Napolitano cadesse nel vuoto e il Pdl optasse nelle prossime ore per la spallata finale al governo Letta, allora non ci sarebbe nemmeno un vincitore, ma sul terreno solo uno stuolo impressionante di vinti.

Sarebbe sconfitta innanzitutto l’Italia, la cui condizione economica preoccupa ancora l’Europa e il cui spread ha proprio ieri sorpassato quello spagnolo. Perderebbero le istituzioni, che nella scorsa primavera, quando i partiti in Parlamento avevano mostrato tutta la loro penosa impotenza, furono salvate con uno sforzo d’emergenza attraverso la rielezione di Giorgio Napolitano. E il capo dello Stato, come è noto, si è detto personalmente e istituzionalmente indisponibile, fino alle estreme conseguenze, a giochi e manovre che farebbero ripiombare l’Italia nel caos politico.

Non vincerebbe lo stesso Berlusconi, che non vedrebbe minimamente migliorata la propria condizione personale, drammaticamente invischiata in vicende giudiziarie il cui automatismo oramai non sarebbe recuperabile neanche da una linea di condotta ultra-aperturista del Pd nella Giunta del Senato.

Non vincerebbe il centrodestra, decapitato del suo leader, frastornato, illuso, incapace di capire che il burrone è molto vicino e che senza un rinnovamento radicale di leadership, di classe dirigente, di linguaggio la partita è perduta, per quante fantasmagoriche performance Berlusconi sia ancora in grado di esibire in campagna elettorale, il suo terreno preferito ma che da ora in poi dovrà affrontare come un’anatra zoppa.

Non vincerebbe il centrosinistra, già pronto ad inebriarsi per la scomparsa del Nemico da cui è stato battuto tanto frequentemente, ma che sembra condannato all’eterna ripetizione degli stessi errori. Non vincerebbe il Pd, che anche ieri ha dimostrato di intrattenere un rapporto morbosamente ambiguo con il movimento di Grillo, colpito sì dai suoi insulti ma anche segretamente tentato dall’idea di una pur sbrindellata alleanza per mettere definitivamente all’angolo il centrodestra. Svanirebbe la stessa idea di riforme costituzionali condivise, la prospettiva di una riduzione del numero dei parlamentari, di maggiori poteri al capo del governo, della fine del paralizzante bicameralismo perfetto, del ridimensionamento dei costi della politica, Province in primis, che sembrano inscalfibili.

Impallidirebbe la speranza che sia possibile in Italia una normale democrazia dell’alternanza, in cui gli schieramenti si contendano la guida del governo, ma non vogliano perseguire l’annientamento reciproco, come è accaduto in questi venti anni e come i coriacei detrattori della «pacificazione» vorrebbero che continuasse in una rissa infinita e inconcludente. Perderebbero tutti e si correrebbero gravi «rischi», come avverte Napolitano. C’è ancora pochissimo tempo per sperare che ci si voglia fermare un centimetro prima del precipizio. Pierluigi Battista, Il Corriere della Sera, 11 settembre 2013

……L’analisi è giusta, la diagnosi anche…quale terapia?

UNA MISTERIOSA OSSESISONE

Pubblicato il 9 settembre, 2013 in Politica | Nessun commento »

Il governo di larghe intese è stato voluto dal Pdl molto più che dal Partito democratico. Angelino Alfano fa bene a ricordarlo. Pier Luigi Bersani, sotto choc per la mancata vittoria elettorale, tentò in tutti i modi di formare un esecutivo diverso, appoggiato dagli eletti di Grillo. Solo dopo numerosi fallimenti, e grazie al presidente della Repubblica, il Pd accettò con sofferenza di varare una grande coalizione, nella quale non ha mai creduto fino in fondo.

Ma proprio questi dati di fatto rendono ancora più incomprensibile il comportamento del Pdl, o almeno di una sua parte, nell’estate politica dominata dalla condanna di Silvio Berlusconi. L’impegno a tenere separati la vicenda giudiziaria e il destino del governo è stato rimosso. Le minacce si sono moltiplicate fino a questi giorni di tregua apparente. Falchi e pitonesse hanno calcato la scena con dichiarazioni incendiarie contro tutto e tutti: dal capo dello Stato al presidente del Consiglio, dai giudici ai presunti traditori che si anniderebbero nel Pdl.

C’è qualcosa di misterioso nell’ossessione di aprire una crisi. Far cadere il governo e andare alle elezioni (ammesso che al voto si vada) non cambierà di un millimetro la situazione giudiziaria di Berlusconi. Il 15 ottobre la condanna diventerà operativa con la scelta tra arresti domiciliari e affidamento ai servizi sociali. Poco dopo arriverà la Corte d’appello che ricalcolerà gli anni di interdizione dai pubblici uffici. Non c’è nessuno, in uno Stato di diritto, che possa ragionevolmente pensare che tutto ciò si possa cancellare con un colpo di spugna prima dell’esecuzione della sentenza e senza che l’ex premier ne prenda atto.

Certamente molte dichiarazioni di esponenti del Pd sulla decadenza in base alla legge Severino stanno dando una mano al partito della crisi. C’è una fretta sbandierata. Il diritto di difesa riconosciuto a tutti (compreso quello di valutare nel merito il ricorso alla Corte europea) e le obiezioni avanzate da importanti giuristi sembrano un fastidio. La voglia di eliminare l’avversario per via giudiziaria, un tratto distintivo della fallimentare politica dei Democratici nei confronti di Berlusconi, è fortissima.

È bene che la giunta che si riunisce oggi avvii un esame approfondito e lasci il tempo necessario alla difesa. Così la vicenda tornerà su un binario corretto. Perché lascerà nelle mani di Berlusconi una decisione che nessuno può prendere al suo posto. Riguarda il suo futuro personale e il destino del partito che ha fondato. Un atteggiamento rispettoso della legalità gli permetterà di continuare a svolgere, anche fuori dal Parlamento, un ruolo politico importante. E, dopo una richiesta avanzata da lui o dalla sua famiglia, il Quirinale potrà esaminare con serenità le ipotesi di clemenza o di commutazione della pena.

Ma, soprattutto, il leader del centrodestra italiano potrà riflettere su un punto decisivo. Dopo venti anni è tempo di avviare con serietà la costruzione di una nuova formazione dei moderati italiani. Nel Pd è in atto un processo di cambiamento generazionale, la coppia Enrico Letta-Matteo Renzi porterà questo partito fuori dalla tradizione post comunista. Il centrodestra può restare a guardare senza dare una prospettiva agli italiani che non si riconoscono nella sinistra? Non è possibile: anche in questo campo c’è bisogno di idee nuove e di una classe dirigente che sappia interpretarle e proporle al Paese. Tocca a Berlusconi, con i gesti e gli atteggiamenti giusti, decidere se esercitare una vera leadership favorendo questo processo. Altrimenti si consegnerà agli urlatori di professione in un cupo finale di partita.Il Corriere della Sera, 9 settembre 2013

………………..E’ così, tocca a Berlusconi, perchè la sua discesa in campo non risulti fine a se stessa, compiere scelte strategiche che consentano ai milioni di elettori che si sentono e sono moderati nella loro visione della vita, del costume, della morale, di avere lo strumento che possa essere megafono della loro voce, delle loro aspirazioni, delle loro speranze, delle loro convizioni, nonostante la sua uscita di scena. Tocca a lui scegliere se essere ricordato come l’uomo che ha ridato ai moderati un  luogo, fisico e politico, nel quale riconoscersi o essere indicato come colui che ha sacrificato a se stesso il sogno di sempre dei moderati: concorrere alla nuova ricostruzione del Paese dopo quella del secondo dopoguerra che fu opera e merito della DC che allora fu diga al comunismo come oggi deve essere diga al dilagante conformismo di sinistra un nuovo soggetto politico che non sia soltanto ascia di guerra e strumento fazioso nelle mani di pochi ras. Confidiamo che il presidente Berlusconi nell’imminente suo personale crepuscolo sappia e voglia dare una nuova alba al grande popolo dei moderati italiani. g.

L’IMPROBABILE ESPULSIONE (DELLA GUERRA)

Pubblicato il 8 settembre, 2013 in Costume, Politica estera | Nessun commento »

Quale persona ragionevole può preferire la guerra alla pace? Non stupiscono dunque i vasti consensi che alla luce di un possibile intervento militare americano in Siria ha ricevuto l’appello del Papa contro la guerra. Appello che, si badi, non evoca affatto l’argomento che in questo specifico caso la guerra sarebbe ingiustificata (cioè «non giusta»), ma esprime semplicemente un reciso e totale no alla guerra. Proprio questo carattere generale e programmatico dell’appello papale alla pace – oggi in palese sintonia con un orientamento profondo proprio dello spirito pubblico dell’intera Europa continentale – solleva però almeno tre grandi ordini di problemi, che sarebbe ipocrita tacere.
l) L’ostilità di principio alla guerra (fatto salvo, immagino, il caso di una guerra di pura difesa, tuttavia non facilmente definibile: la guerra dichiarata dalla Gran Bretagna e dalla Francia alla Germania nel 1939, per esempio, era di difesa o no?) cancella virtualmente dalla storia la categoria stessa di «nemico» (e quella connessa di «pericolo»). Cioè di un qualche potere che è ragionevole credere intento a volere in vari modi il nostro male; e contro il quale quindi è altrettanto ragionevole cercare di premunirsi (per esempio mantenendo un esercito). Chi oggi dice no alla guerra è davvero convinto che l’Europa e in genere l’Occidente non abbiano più nemici? E se pensa che invece per entrambi di nemici ve ne siano, che cosa suggerisce di fare oltre a essere «contro la guerra»?
2) In genere, poi, chi si pronuncia in tal senso è tuttavia favorevole all’esistenza di un’Europa unita quale vero soggetto politico. Un’Europa perciò che abbia una politica estera. La questione che si pone allora è come sia possibile avere una tale politica rinunciando ad avere insieme una politica militare, un esercito e degli armamenti (e quindi anche delle fabbriche d’armi). È immaginabile un qualunque ruolo internazionale di un minimo rilievo non avendo alcuna capacità di sanzione? Altri Stati senza dubbio tale capacità l’avranno: si deve allora lasciare campo libero ad essi? Ma con quale guadagno per la pace?
3) C’è infine un argomento molto usato per dirsi in generale contro la guerra: «La guerra non ha mai risolto alcun problema». Nella sua perentorietà l’argomento è però palesemente falso. Dipende infatti dalla natura dei problemi: non pochi problemi la guerra li ha risolti eccome (penso a tante guerre per l’indipendenza nazionale, ad esempio); per gli altri bisogna intendersi su che cosa significa «risolvere» (tenendo presente che nella storia è rarissimo che per qualunque genere di questioni vi sia una soluzione definitiva, «per sempre»). Se si parla di un pericolo politico, una «soluzione» può benissimo essere rappresentata dal suo semplice ridimensionamento, dall’allontanamento nel tempo, dalla sostituzione di un nemico più forte con uno meno forte. Tutti obiettivi che un’azione militare è di certo in grado di conseguire.
Insomma: essere in generale a favore della pace è sacrosanto; proporsi invece di espellere la guerra dalla storia è, come si capisce, tutt’un altro discorso. Ernesto Galli della Loggia, Il Corriere della Sera, 8 settembre 2013

……………….Oggi, 8 settembre, ricorre l’anniversario, il settantesimo, dell’armistizio dell’Italia con gli alleati e, di lì a poco, i verificarsi di eventi, la nascita al Nord della Repubblica di Salò e al Sud del Regno d’Italia, he avrebbero provocato la sanguinosa guerra civile tra i fascisti e gli antifascisti che a 78 anni dalla fine della guerra continua a dividere il nostro Paese non solo politicamente ma anche, in alcuni periodi, con la violenza contrapposta tra le parti. Basta questo ricordo e questo esempio per condividere le osservazioni di Galli della Loggia al pur lodevole appello  “no alla guerra”: purtroppo è un appello che al di là del suo monito etico  è destinato a rimanere inascoltato da chi vive nella logia della guerra e della violenza. v

ECONOMIA: PRIGIONIERI DI UNA ILLUSIONE

Pubblicato il 7 settembre, 2013 in Economia, Politica | Nessun commento »

Il presidente del Consiglio ha usato l’analogia del cacciavite: «Dobbiamo rendere più efficienti le istituzioni. Ci proponiamo di farlo con interventi normativi, non riforme epocali. Useremo il cacciavite, facendo prevalere l’esigenza dell’efficacia sulla bandiera della politica». Vanno in questo senso provvedimenti come una nuova legge Sabatini per finanziare gli investimenti, l’ampliamento dei criteri per l’accesso al Fondo di garanzia per le piccole e medie imprese, aiuti agli investimenti per ricerca e innovazione, norme sblocca-cantieri.

In un’Italia dove ci si è troppo attardati ad aspettare il Godot delle Grandi Riforme, un governo che vuole usare un cacciavite è benvenuto. Purché questo non riveli l’impotenza della politica. La piccola manutenzione è decisiva quando la macchina dello Stato funziona e ha solo bisogno di essere messa a punto. Non è il nostro caso. Soffriamo di una combinazione di deficit ben più gravi di quello dei conti pubblici: un apparato burocratico che ostacola, anziché agevolare, le riforme, e una mancanza di prospettiva.

Il governo rischia di rimanere stritolato. La politica è impegnata in un regolamento di conti fra centrosinistra e centrodestra: elaborare un progetto per il Paese che verrà pare l’ultima delle preoccupazioni. L’apparato statale, con la scusa di supplire alle carenze della politica, ha l’unico obiettivo, sin qui pienamente raggiunto, di perpetuare se stesso. Non basta il cacciavite. L’esempio più evidente sono le storture del mercato del lavoro, ancora l’altro ieri sottolineate da Dario Di Vico, che impediscono di creare occupazione persino là dove sarebbe possibile.

Taluni guardano all’Europa come al salvagente al quale aggrapparsi; altri come a un macigno che ci affonda. Entrambi sbagliano: siamo noi la fonte dei nostri problemi e noi soli possiamo risolverli. L’Europa è utile quando sappiamo sfruttarne gli esempi e gli stimoli, dannosa se ci limitiamo a subirla. Sinora il governo ha dato l’impressione di accettare passivamente i vincoli che Bruxelles impone ai conti pubblici, senza chiedersi se davvero essi ci aiutino davvero a uscire dalla crisi. Anziché vincolarci a un deficit inferiore al 3 per cento del Prodotto interno lordo già da quest’anno (senza alcun impegno sulle riforme), avremmo dovuto concordare con l’Europa un programma pluriennale che avesse come obiettivo la crescita. Cominciando dalla riforma del mercato del lavoro, rimettendo mano alla legge Fornero, alla scuola, alla concorrenza, a una burocrazia soffocante.

E soprattutto avviando una riduzione graduale ma certa della spesa, che liberi, entro un triennio, 50 miliardi da destinare al taglio delle tasse sul lavoro: quanto serve per condurre il nostro cuneo fiscale (la differenza fra la busta paga del lavoratore e il costo per l’impresa) al livello tedesco. In questo triennio violeremmo il vincolo del 3%, come la Francia: ritorneremmo a essere sorvegliati da Bruxelles, ma questo può solo aiutare l’attuazione delle riforme e garantire i tagli di spesa. Altrimenti, prima della fine dell’anno sfonderemo il limite del 3%, e a quel punto l’unica strada sarà la solita: aumentare l’Iva accompagnandola con qualche altro balzello fiscale, come già prevede la clausola di salvaguardia che innalzerà l’anticipo delle imposte dovute il prossimo anno.

Ps: un mese fa il Senato ha votato un ordine del giorno che impegna il governo a modificare entro giovedì prossimo, ultimo giorno utile, la norma della legge Severino che prevede la chiusura di 31 tribunali e 31 Procure. Se il governo lo farà ogni impegno a tagliare la spesa apparirà per ciò che probabilmente è: parole al vento. ALBERTO ALESINA e FRANCESCO GIAVAZZI Il Corriere della Sera, 7 settembre 2013……

…..Ci possono giurare Alesina e Giavazzi che il taglio dei Tribunali per tagliare le spese farà  8ha già fatto!)la stessa fine del taglio dei costi della politica che con una firma di Napoliabno soino aumebntati di un milione all’anno, tanto quanto serve per i quattro neo senatori a vita. g.

I NOMI CAMBIANO, LE TASSE RESTANO: TUTTI I BALZELLI E I RINCARI DA 15 ANNI IN QUA

Pubblicato il 1 settembre, 2013 in Economia, Politica | Nessun commento »

L’hanno chiamato pomposamente federalismo fiscale, abbiamo scoperto che si traduceva prosaicamente in: più tasse per tutti. È il frutto avvelenato del fisco creativo della seconda Repubblica che – certo – insieme alla ubriacatura a corrente alternata per le devoluzioni ha dovuto fare i conti con il debito monstre prodotto dalla prima Repubblica dei partiti.

ENRICO LETTA TASSE BY BENNY PER LIBEROENRICO LETTA TASSE BY BENNY PER LIBERO

Siamo arrivati così a una pressione fiscale che sfiora il 45 per cento. Tasse, tasse e sempre tasse. Con una babele di acronimi orribili (Ici, Irap, Irpef, Tarsu, Tia, Imu, Ires), altri improponibili e dal futuro già segnato (Tares che è anche una pistola, usata dai poliziotti americani, per sparare scariche elettriche) fino ad approdare ai confortevoli ma assai nebulosi anglicismi: Service tax. E cioè?

Dal 1996 al 2011, in quindici anni, le entrate tributarie dei governi locali (Regioni, Province e Comuni), bilanci dello Stato alla mano analizzati dal centro studi della Cgia di Mestre, sono letteralmente esplose: + 114,4 per cento, pari in termini assoluti a una crescita di circa 102 miliardi di euro. Sono usciti dalle tasche degli italiani per andare (più o meno) nelle casse dei governi locali ai quali lo Stato centrale ha via via attribuito più competenze ma anche tagliato più trasferimenti. I Comuni, mediamente, sono con l’acqua alla gola.

Quelli praticamente falliti come Taranto, Catania e la stessa Roma sono stati salvati. Dallo Stato centrale, però. Con le tasse di tutti, senza che nessuno abbia mai pagato pegno.
Si è cominciato con l’Ici, agli albori della seconda Repubblica, era il 1992. L’imposta comunale sugli immobili.

case e catastocase e catasto

Che però è stata prima abolita (Silvio Berlusconi ci vinse la sua penultima campagna elettorale) proprio quando arrivava (si fa per dire) il federalismo fiscale, per essere sostituita dall’Imu che però non piace più e diventerà Service tax, di cui faranno parte la Tari, che prenderà il posto della Tarsu o della Tia (le imposte sui rifiuti), e la Tasi, ossia la «misteriosa» (copyright di Massimo Bordignon sul sito lavoce. info)
imposta sui servizi indivisibili.

I criteri per il prelievo della Service tax saranno fissati dai singoli Comuni con alcuni paletti stabiliti dal governo centrale. Alla fine una girandola di sigle che – chissà perché – fa venire in mente la celebre frase del Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa: «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi». Appunto.

Una tassa nuova con le vecchie dentro sembra un buon metodo. Già sperimentato. Con l’Irap (l’imposta regionale sulle attività produttive), ad esempio, la tassa più odiata dagli imprenditori italiani. Che nel 1998, assorbì i contributi sanitari, la tassa sulla salute, l’Ilor e l’Iciap. Sull’Irap e sull’Irpef poi – lo sappiamo a spese nostre – le Regioni possono intervenire con la loro “addizionale” che vuol dire far pagare di più soprattutto per colpa dei buchi nella sanità.

IMUIMU

Meccanismo che non va confuso con quello della “compartecipazione” (i vari livelli di governo si distribuiscono l’entrata) che vale anche, per esempio, per le accise sulla benzina. Sempre tasse sono. Con più esattori, però. E sempre gli stessi contribuenti.

Tasse e tariffe. Perché altrimenti come si fa a finanziare i servizi locali, dai trasporti alla raccolta dei rifiuti, dalla fornitura della luce a quella dell’acqua? A questo servono le tariffe. E per colpa della crisi, delle politiche di austerity imposte dalla Commissione di Bruxelles e dalla Bce di Mario Draghi, e il conseguente drastico taglio dei trasferimenti dal centro alla periferia, le tariffe locali si sono impennate.

TASSA SULLA CASA jpegTASSA SULLA CASA jpeg

In un anno – dati dell’Uniocamere – sono aumentate del 4,9 per cento, ben oltre il tasso di inflazione che, nell’arco dell’ultimo anno, si è attestato intorno al 3 per cento. Ed è nei trasporti che l’incremento del costo del servizio è stato tra i più marcati: in media +5,3 per cento con un picco del 9,3 per cento nei collegamenti extra urbani. Solo di poco inferiore l’aumento delle tariffe per la fornitura dell’acqua: + 6,7 per cento. E + 4,7 per cento quello per i rifiuti.

Che cosa resta del liberale principio “no taxation without representation”? L’illusione che quando si va alle urne (nazionali e locali) qualcuno prima o poi mantenga la promessa di abbassarle le tasse senza sostenere di non poterlo fare per colpa del buco lasciato in eredità dal suo predecessore. E senza cambiare solo il nome alle vecchie tasse. Fonte: DAGOSPIA, 1° settembre 2013

ARMI DEMOCRATICHE, di Sergio Romano

Pubblicato il 1 settembre, 2013 in Politica estera | Nessun commento »

Barack Obama corre il rischio di passare alla storia come uno dei più tentennanti presidenti degli Stati Uniti. Nella sua ultima dichiarazione, sul prato della Casa Bianca, ha chiesto un voto del Congresso sull’opportunità di un intervento militare contro il regime siriano di Bashar Al Assad. Ma ancor prima di appellarsi ai rappresentanti del Paese aveva annunciato, in una recente intervista alla televisione Pbs, che la sua intenzione era quella di inviare uno shot across the bow , uno di quei colpi di cannone che vengono tirati di fronte alla prua di una nave per intimarle di fermarsi e tornare indietro.

Barack Obama (Ap/Vucci)

Non sappiamo se con l’appello al Congresso il presidente americano chieda una formale autorizzazione o voglia più semplicemente metterlo di fronte alle proprie responsabilità. Ma sappiamo che una tale decisione, se adottata, avrebbe in ultima analisi l’inconveniente di non piacere a nessuno. Non ai pacifisti americani per cui sarebbe pur sempre un atto di guerra. Non ai paladini dell’ingerenza umanitaria e del dovere di proteggere le popolazioni civili, a cui sembrerebbe irrilevante. Non a quella fazione della destra repubblicana, erede dei «neocon», che accusa il presidente di essere debole, inetto, incapace di pestare il pugno sul tavolo nell’interesse dell’America. Non ai ribelli siriani, convinti che l’uso delle armi chimiche avrebbe fatto traboccare il vaso dell’indignazione occidentale e segnato la fine di Assad. Non agli alleati internazionali della Siria: Russia, Iran, Cina. Non, infine, alla maggioranza della sua opinione pubblica (una percentuale vicina, sembra, all’80%) per non parlare di quella delle altre maggiori democrazie occidentali. Sono contrari all’intervento persino coloro che in altri tempi avevano approvato le guerre di Bush e salutato con soddisfazione l’offensiva anglo-franco-americana contro la Libia di Gheddafi.

Non è sorprendente. Oggi, dopo l’esperienza degli ultimi tredici anni, nessuno può ignorare quali siano stati il costo e gli effetti di quelle guerre. L’operazione afghana parve giustificata dal patto che legava Al Qaeda e i suoi fedeli al regime talebano di Kabul. Sostenuti dalla Nato e persino dall’Iran, gli americani credettero di avere eliminato la maggiore base di Al Qaeda nel Medio Oriente. Ma nella caccia allo sceicco yemenita si perdettero, come altri eserciti occidentali, nel labirinto delle montagne che separano l’Afghanistan dal Pakistan; e di lì a poco lasciarono il Paese agli europei per concentrare ogni loro sforzo sull’Iraq di Saddam Hussein. Un’altra guerra, un’altra vittoria apparente.

Qualche mese dopo la conquista di Bagdad, Washington dovette constatare che quella dei talebani in Afghanistan era stata soltanto una ritirata strategica, che in Iraq non vi erano armi di distruzione di massa, che i sunniti iracheni non erano disposti ad accettare la sconfitta e che gli sciiti liberati dal giogo di Saddam amavano i confratelli iraniani più degli americani.
Comincia da allora la lunga sequenza dei rimedi falliti. In Afghanistan tornarono con forze più importanti e cercarono di sloggiare i talebani dalle regioni riconquistate. In Iraq cercarono di armare i sunniti contro il variegato fronte dell’integralismo islamico. Subentrato a George W. Bush, Barack Obama concepì un piano apparentemente razionale e un calendario inderogabile. In Afghanistan avrebbe lanciato un’ultima offensiva contro i talebani e offerto un negoziato a coloro che erano pronti a deporre le armi. In Iraq avrebbe assicurato la presenza militare americana soltanto sino alla fine del 2011.

Il risultato di quel piano, all’inizio del suo secondo mandato, è deprimente. I talebani non hanno alcuna intenzione di negoziare con una potenza che ha già, comunque, deciso di ritirare le proprie truppe nel 2014. L’uccisione di Osama bin Laden nel suo fortilizio pachistano è parsa uno straordinario successo della presidenza Obama (la vendetta è sempre, per un certo periodo, consolatoria) ma ha peggiorato i rapporti degli Stati Uniti con il Pakistan. In Iraq si muore, grazie alle bombe sunnite, molto più di quanto si morisse all’epoca di Saddam Hussein. In Libia, infine, Obama ha avuto il merito di comprendere prima dei suoi alleati i rischi di una operazione che era divenuta molto più lunga del previsto. Ma del caos in cui il Paese è precipitato dopo la vittoria dei ribelli Obama non è meno responsabile di Nicolas Sarkozy e David Cameron. È davvero sorprendente che dopo tre guerre non vinte, come la buona educazione internazionale preferisce chiamare quelle perdute, gli americani e le opinioni pubbliche occidentali non vogliano essere trascinati nella quarta?

Resta da capire, a questo punto, perché un uomo politico accorto e razionale come Barack Obama dovrebbe a tutti i costi prendere una iniziativa militare contro la Siria. Per non permettere che l’uso dei gas vada impunito? Per evitare che l’America, agli occhi del mondo, appaia inaffidabile? Credo che il criterio dell’affidabilità, in questo caso, concerna soprattutto il presidente degli Stati Uniti. Quando ha dichiarato, un anno fa, che l’uso dei gas sarebbe stato una «linea rossa» e che l’attraversamento di quella linea lo avrebbe costretto a rivedere la propria posizione, Obama è diventato prigioniero di se stesso. Ha usato la «linea rossa» per mascherare le proprie incertezze e allontanare per quanto possibile il momento delle decisioni. Ora quella «linea rossa» gli si è ritorta addosso come un boomerang e il presidente, privo di argomenti, è nudo di fronte al mondo come il re della favola di Andersen.

Vi è infine in questa vicenda un tragico paradosso. Le armi chimiche sono atroci, ignobili e suscitano una comprensibile condanna. Ma le vittime della periferia di Damasco rappresentano una minuscola percentuale di quelle provocate dalla guerra. Le armi letali in Siria sono i fucili mitragliatori, le mitragliatrici, i cannoni, le bombe, i mortai. Collegare il giudizio sull’opportunità dell’intervento all’uso delle armi chimiche ha l’assurdo effetto di rendere altre armi più legittime o meno deprecabili. Non è tutto. Mentre l’Occidente si scandalizza per l’uso dei gas, vi sono probabilmente altri popoli per cui i droni, i proiettili all’uranio impoverito, il napalm e le bombe a grappolo, per non parlare delle armi nucleari, non sono meno tossici dell’arsenale chimico di Assad. In questo scontro di culture e di civiltà è meglio evitare che l’Occidente venga accusato di considerare tossiche soltanto le armi degli altri. Sergio Romano, Il Corriere della Sera, 1° settembre 2013

….L’analisi di Romano, più che esperto in politica estera anche per la sua passata e notevole esperienza diplomatica, è tragicamente esatta e pone il dito nella piaga più virulenta: l’affidabilità degli Stati Uniti ormai ridotta ai minimi termini. E’ la conseguenza della presidenza affidata ad un presidete privo del tutto di esperienza, frutto dei poteri forti americani, insignito del premio Nobel per la pace  “a futura memoria” , che alla prova dei fatti si è rivelato un grande bluff, bravo con le parole, meno bravo, anzi per nulla bravo, con i fatti. Il banco della Siria ne è la prova più immediata e più stringente. Si è infilato in un imbuito dal quale non gli sarà facile uscirene senza combinare guai peggiori di quelli che in politica estera a sinora combinato, specie lì dove ha abbandonato al loro destino alleati storici dell’America  e dell0′Occidente – Mubarah in Egitto e Ben Alì in Tunisia in primo luogo- che avevano innalzato una imponente diga difensiva lungo il confine che separa le democrazie occidentali dal fondamentalismo islamico e la cui detronizzazione complice proprio l’America di Obama ha di fatto scardinato quella diga e aperto falle   che rischiano di favorire una irrefeanabale valanga che può travolgere l’Occidente.