Costo lordo annuo: 232.737,24 euro, di cui poco più della metà (120.777,24 euro) di stipendio base. Per una che fa la ricercatrice come Elena Cattaneo, nominata ieri senatore a vita da Giorgio Napolitano, è sicuramente un bello stipendio integrativo. Lei non ha vinto un premio Nobel come Carlo Rubbia. Non è un archistar come Renzo Piano. Non è un direttore d’orchestra conosciuto in tutto il mondo come Claudio Abbado (anche se nel 2005 si scoprì che faceva quasi la fame, visto che dichiarava al fisco appena 17.237 euro lordi pagando 3.965 euro di tasse). E soprattutto a differenza degli altri nominati senatori a vita la Cattaneo è molto giovane: compirà ad ottobre 51 anni, e a quella età nessuno mai nella storia d’Italia ha ottenuto quel seggio a vita. Solo Giovanni Leone divenne senatore a vita al di sotto dei 60 anni, che per altro avrebbe compiuto pochi mesi dopo la nomina. La ragione è evidente: quella nomina è consentita dall’articolo 59 della Costituzione per «cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario».
Questa condizione salvo rarissime eccezioni è stata raggiunta da italiani normalmente verso la fine della propria carriera professionale. La Cattaneo è una ricercatrice apprezzata (non da tutti, visto che è stata protagonista di numerose polemiche sulla bioetica, quasi sempre contro i cattolici), ha studiato e lavorato a lungo all’estero, dirige il centro per le staminali dell’Università statale di Milano, è accademica dei Lincei, ha numerose pubblicazioni alle spalle, ma non ha ricevuto un premio Nobel né riconoscimenti scientifici simili. Si è impegnata anche politicamente, firmando il manifesto degli intellettuali a sostegno della candidatura di Pierluigi Bersani alle elezioni 2013 e partecipando anche alla sua campagna elettorale. Con questo curriculum e con questa età la Cattaneo ha ottime possibilità di conquistare la palma di politico italiano più pagato nella storia della Repubblica. Se vivesse a lungo come Rita Levi Montalcini, alla fine avrebbe ricevuto un premio da 12 milioni di euro. Ma anche vivendo fino a 90 anni accumulerebbe 9,3 milioni di euro solo come senatrice a vita. È assai probabile dunque che ieri Napolitano abbia deciso di assegnare qualcosa come dieci case di lusso in premio a una professoressa italiana che fin qui è stata assai divisiva per le sue posizioni scientifiche sia all’interno del mondo accademico che in quello culturale e religioso italiano. La Cattaneo per altro è stata protagonista di attacchi pubblici sia all’attuale ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, che al suo predecessore, Renato Balduzzi. Ha fatto causa all’allora presidente del comitato di bioetica, Francesco Paolo Casavola, impugnato leggi italiane al Tar (perdendo), sostenuto su riviste internazionali che l’Italia era un Paese non democratico, attaccato con virulenza l’istituzione del Senato, accusata di «aggressione alla persona» per la legge sul biotestamento. Degli uomini politici italiani disse nel marzo 2009 che «sono pensatori privi di logica». In cambio della possibilità di conquistare quei 10 milioni di euro, però ora si rassegnerà a fare parte del gruppone…di Fosca Binche, Libero 31 agosto 2013
…..Ogni commento ci pare superfluo ed inutile.Possiamo solo aggiungere che con queste decisioni, la nomina di quattro nuovi senatori a vita che costeranno a noi poveri contribuenti la bellezza di un milione l’anno per chissà quanti anni a venire e tra i quattro anche questa cinquantunenne senza particolari meriti e che suona offesa alle tante donne che dovranno aspettare grazie alla riforma Fornero i 68 anni per andare in pensione e percepire una modesta pensione di fame, l’on. Napolitano si è giocata ogni precedente “amnistia” per i suoi trascorsi di comunista osannatore del più criminale sistema di governo che mai l’umanaità abbia conosciuto. Anzi no. Un’altra cosa resta da dire, la più importante: gli italiani sono sempre più incazzati neri con la casta, senza distinzione di colori. g.
E’ inutile, ogni volta che il Fisco si muove, i contribuenti, in qualche modo, rischiano di perdere qualcosa. Anche quando appare animato dalle migliori intenzioni. Prendiamo l’abolizione dell’Imu sulle prime case non di lusso: un risparmio, certo. Ma poi tra le pieghe del provvedimento preso in esame dal Consiglio dei ministri, si scopre che c’è un passaggio dal titolo preoccupante: “Ripristino parziale della imponibilità ai fini Irpef dei redditi derivanti da unità immobiliari non locate”. Detto in modo più chiaro: era previsto il ritorno dell’Irpef e delle addizionali locali, seppure ridotte al 50%, sulle seconde case sfitte. Norma che ieri Palazzo Chigi ha assicurato che non verrà inserita nel testo in via di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.
Eppure quell’articoletto (numero 6 nella bozza) nascondeva un vizio antico dell’Erario, del quale non riesce proprio a fare a meno: quello delle tasse retroattive. Il pagamento dell’imposta doveva scattare da gennaio e non dalla data di pubblicazione del decreto legge (oggi). Con otto mesi d’anticipo. Troppi.
Tutto bene se in Italia non fosse (o forse si dovrebbe dire sarebbe) in vigore una legge di salvaguardia per i cittadini, il cosiddetto «Statuto dei diritti del contribuente». Una specie di scudo anti-soprusi. Un casco anti-balzelli iniqui. Leggiamo l’articolo 3: «…le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo». Un criterio minimo di tutela: le imposte vanno pagate ma soltanto per il futuro. Lo Stato non può cambiare le regole per il passato. Lo stesso principio che vale per le norme penali. Una protezione violata già centinaia di volte in nome del gettito. Una difesa che spesso lo Stato, con l’alibi dei vincoli di bilancio, aggira.
Come? Con una semplice parolina, che tanto spiega del modo tutto italiano di considerare i cittadini-contribuenti: basta infatti scrivere nelle norme fiscali la frasetta «in deroga» e, come d’incanto, lo Statuto del contribuente si trasforma da scudo scalcagnato in foglia di fico bucherellata. Esattamente quello che stava per accadere con la reintroduzione dell’Irpef sulle case sfitte passata nel consiglio dei ministri. Un caso isolato? Macché. Da poco è accaduto anche sul redditometro, il Fisco ha la possibilità di andare a verificare gli scostamenti sui redditi fino al 2009. Ma per avere uno Statuto così fragile e così facilmente aggirabile forse sarebbe più corretto (e serio) nei confronti dei cittadini gettarlo alle ortiche. Come si direbbe intermini giuridici: abrogarlo. Oppure rispettarlo. Senza trucchi. Il Corriere della Sera, 31 agosto 2013
……Questa si che srebbe una bella battaglia, quella per vietare che nelle leggi compaia la parolina “in deroga”, in nome della quale vengono commesse nefandezze di ogni genere. Se ne è occupato di recente anche un simpatico trattattello dal titolo appropriato: Privuilegium. Perchè ogni deroga è un privilegio che quando si tratta dello Stato è anche una vera e propria truffa, oltre che essere una inaccettabile violazione della certezza del diritto e della civiltà del diritto che vietano la retroattività di ogni norma quando in danno del cittadino, specie in materia fiscale. Ma c’è nel Parlamento, da destra a sinistra, passando per il centro qualcuno che se ne voglia intestare la titolarità? Non ci parem, visto che nessuna deroga è stata mai oggetto di ricorso alle supreme corti perchè ne cancellino gli effetti. Perciò…zitti mosca, non i contribuenti ma quelli che li rappresentano e che ad ogni occasione si dicono interpreti e difensori della “centrtalità” del cittadino…quale centralità? quella del pagatore! g.
I nomi non c’entrano. I nuovi quattro senatori a vita nominati da Napolitano sono tutte persone ragguardevoli, e ciascuna nel proprio campo hanno onorato l’Italia conseguendo meritati successi internazionali e, giustamente, consistenti onorari professionali. Quel che non va è l’istituto. Quello dei senatori a vita è una vera e propria sciocchezza tutta italiana, pari a quella del voto agli italiani all’estero, cui si riconosce un diritto cui non corrisponde alcun dovere, primo fra tutti quello di contribuire alle spese dello Stato del quale pur vengono investiti del titolo per contribuire ad eleggere i governi. Baggianate svendute come prova di amor di patria, che è ben altra cosa e che si deve e si può manifestare in tanti e ben altri modi. Stessa cosa per i senatori a vita, quelli nominati per alti meriti (quali erano quelli del prof. Monti nessun lo sa…) che ben potrebbero essere onorati diversamente ( (il fascismo, giusto per fare per esempio, istituì l’Accademia d’Italia, della quale venivano chiamati a far parte quanti, come nel caso dei neo senatori a vita, avessero onorato l’Italia nei campi della cultura, ampiamente intesi), e quelli cosiddetti di diritto, cioè gli ex presidenti della Repubblica, ulteriore anomalia tutta italiana che in questo caso non si rifà nè all’Europa nè al mondo. In nessun paese europeo e in nessun paese al mondo, salvo che nei paesi a regime totalitario, esistono i presidenti emeriti e perciò issati su scranni sui quali nelle democrazie vere ci si issa solo con il voto dei cittadini. In America che, pur ultimamente con qualche sforzo, è considerata la regina delle democrazie, gli ex presidenti, alcuni tuttora viventi, da Bush padre a Bush figlio, passando per Clinton, cessati dalla loro carica che li aveva posti nel più alto posto di comando del mondo, sono tornati ad essere cittadini normali, con gli stessi diritti e gli stessi doveri di tutti gli altri cittadini americani. Unico privilegio, che tale non è, la tutela da parte dei servizi segreti americani che non tutelano tanto le loro persone fisiche quanto ciò che essi potrebbero essere indotti a rivelare con grave danno e pregiudizio per la Nazione americana. Tutto qui. Nessun laticlavio post fine mandato, nessun alto stipendio o vitalizio che dir si voglia, nessun ufficio a spese dei contribuenti, niente di niente. In Italia invece, democrazia alla panna, gli ex presidenti costituituiscono una specie di super casta, mantegono privilegi e stipendi e benefit come se fossero in carica e per di più partecipano, al Senato, alla formazione delle maggioranze ,talvolta alterando la volontà popolare. Allo stesso modo i sentaori a vita che la Costituzione più bella del mondo prevede possano essere nominati, motu propri, dal presidente della repubblica in carica sino a cinque durante il mandato (per Napolitano eccezionalmente saranno dieci…) e per i quali sempre la Costituzione prevede stipendi, privilegi e benefit di tutto rispetto: non una carica onorifica, ma una carica sostanziosa che già per questo è uno schiaffo al buon senso. Ma ancor di più lo è mentre sono al lavoro i cosiddetti saggi che debbono elaborare un testo condiviso per riformare lo Stato, riformando la Costituzione. E tra le riforme da varare c’è anche, per evidenti ragioni di buon senso, la eliminazione dei senatori a vita, non fosse altro per diretta conseguenza della eliminazione del Senato, inutile e dispersivo doppione della Camera dei Deputati e la sua trasformazione nelle Camera delle Autonomie nella quale, evidentemente, non potrebbe e non potrà esserci posto nè per gli ex presidenti della repubblica nè per chinque altro che non siano espressione delle autonomie. Anche alla luce di ciò le nomine di Napolitano, che egli stesso, informa il Quirinale, ha comunicato lieto ai nominati, appare per un verso una forzatura rispetto al pur tanto conclamato quadro futuro, e per altro verso una implicita dichiarazione di dubbi circa la effettiva possbilità che si possa giungere, dopo una trentina d’anni di parole, ad una effettiva riforma costituzionale. A meno che Napolitano, contraddicendo se stesso, anche abbia semplicemente fatto uso, finchè in tempo, del potere che l’attuale Costituzione gli assegna. E forse quesrta la cosa che più dispiace, se fosse vera. g.
Due anni fa il governo Berlusconi decise d’investire sui prestiti d’onore agli studenti. Ottima idea, ottima iniziativa. Scopriamo adesso che fin qui ne hanno fruito in 597, quando negli Usa sono 39 milioni gli ex studenti che stanno saldando il loro prestito d’onore. Insomma l’ennesima promessa tradita, anche se il tradimento non fa mai notizia. La notizia sta sempre nell’annuncio, nel messaggio che accompagna l’ultima lieta novella normativa. Come l’abolizione del precariato nella pubblica amministrazione, decisa ieri dal governo Letta; e speriamo che sia vero. Altrimenti inciamperemmo su un’altra legge-manifesto: le «grida in forma di legge» su cui levava l’indice, già nel 1979, il Rapporto Giannini. A chi convengono? Perché restano orfane di ogni applicazione? E come mai alle nostre latitudini fioccano come la grandine?
A occhio e croce, questo fenomeno si manifesta in due sembianze. In primo luogo, le leggi fatte apposta per non funzionare. Fra cui s’inscrive, per l’appunto, la disciplina sui prestiti d’onore: un misero fondo di 19 milioni, un tasso d’interesse che scatta il primo giorno dopo il prestito (anziché dopo la laurea), e che fa schizzare la rata a mille euro al mese. Ovvio che non ci sia poi la fila agli sportelli. In secondo luogo, le leggi che reclamano ulteriori adempimenti normativi, per esprimere tutti i propri effetti. E se l’adempimento non viene mai adempiuto? Amen, la legge rimarrà una pia intenzione, una nuvola di parole mute.
Questi corpi celesti solcano da tempo il nostro orizzonte giuridico. Celebre il caso della vecchia legge sulla Protezione civile, inoperante perché priva del suo regolamento esecutivo. Da qui ritardi e disfunzioni nei soccorsi, quando nel novembre 1980 un terremoto devastò l’Irpinia; da qui un messaggio televisivo di Pertini, con parole di fuoco nei confronti del governo per la sua omissione normativa. Ma sta di fatto che negli ultimi anni gli episodi si moltiplicano, sicché l’eccezione è ormai diventata regola. Durante il gabinetto Berlusconi, per esempio, fu annunciata in pompa magna la riforma Gelmini dell’università, la cui efficacia dipendeva tuttavia da un centinaio di regolamenti futuri. Mentre il gabinetto Monti concluse la propria esperienza lasciando ai posteri 490 norme da rendere pienamente vincolanti, con regolamenti o con atti amministrativi.
Ma per quale ragione la politica italiana ha trasformato ogni legge in un inganno? Semplice: perché è incapace di decidere, e allora finge di produrre decisioni. Disegna acrobazie verbali, sciorina commi incomprensibili, che volano come coriandoli nel Carnevale del diritto. Oppure pratica l’arte del rinvio, confezionando norme che restano altrettanti corpi senza gambe, fin quando non interverrà la disciplina d’attuazione. D’altronde le leggi in quarantena possono ben rivelarsi utili dal punto di vista dei partiti. Nel 1945, dopo la guerra, in Norvegia conservatori e laburisti bisticciavano circa il mantenimento della legge sul controllo dei prezzi: i primi volevano abrogarla, i secondi no. Finì che la legge rimase in vigore, però soltanto sulla carta, giacché non venne più applicata; e così entrambi i partiti cantarono vittoria davanti al proprio elettorato.
Mezzucci, espedienti da magliaro. Ma in questo gioco illusionistico siamo noi i maestri, mica i norvegesi. Sicché, quando vi folgora l’annuncio dell’ultima rivoluzione normativa, mentre vi buca i timpani il coro contrapposto dei detrattori e degli entusiasti, sappiate che non è il caso di scaldarsi. In Italia la legge non è sempre una cosa seria. Il Corriere della Sera, 28 agosto 2013
.….Non è vero…quelle che impongono tasse, imposte, balzelli, non solo sono serie ma non hanno mai bisogno di regolamenti attuativi che rischiano di rimanere mai attuati. Queste leggi sono serissime e immediatamente esecutive, dal giorno stesso in cui vengono assunte, magari con la formula del decreto legge, da tutti deprecata ma da tutti utilizzata. Tanto a pagare sono i cittadini i cui lamenti, quelli si, restano inascoltati. g.
Se le cose continueranno a essere come sono oggi (ed è molto probabile), Berlusconi ha verosimilmente una sola via possibile per restare davvero al centro della vita politica italiana. Ma è una via che ha le tinte cupe dell’Apocalisse: andare ai «domiciliari», far saltare il governo, puntare al più presto alle elezioni anticipate con l’attuale legge elettorale, vincerle. Una via non solo carica d’incognite per lui temibilissime (a cominciare dalle reazioni del presidente della Repubblica per finire con le ripercussioni sull’immagine e sulla tenuta economica del Paese), ma interamente all’insegna del «tutto o niente». E il «tutto o niente», se può sedurre la psicologia del giocatore, può anche condurre lo stesso alla rovina totale.
Esclusa l’Apocalisse non resta che il Tramonto: a oltre 75 anni di età (ma anche a 45 forse non farebbe differenza) non si può fare il leader effettivo di un partito e di un Paese nelle condizioni in cui si troverebbe Berlusconi stando ai «domiciliari». Dunque il Tramonto. E con esso la domanda inevitabile: che effetto avrebbe la scomparsa del Sole sulle sorti del Pdl? È ragionevole pensare che l’effetto sarebbe la sua virtuale dissoluzione. Un partito personale ben difficilmente riesce a fare a meno del fondatore-padrone, e Berlusconi lascia dietro di sé il vuoto, a cominciare dall’assenza di qualunque meccanismo collaudato in grado di prendere decisioni minimamente vincolanti per tutti. Esito più probabile, pertanto, una rissa inconcludente e feroce di cacicchi e cacicche minacciati di disoccupazione, di tutti contro tutti, con implosione finale del Pdl.
Ma che ne sarà a questo punto della vasta area elettorale che per un ventennio si è riconosciuta nel Pdl? Oggi come oggi è difficile immaginare che essa possa essere riorganizzata e integrata da un’iniziativa che parta dal Centro. Che sia questa la sola ipotesi ragionevole non vuol dire che sia anche quella che si realizzerà. In realtà, infatti, se Berlusconi è al tramonto, sul Centro si direbbe che la luce del giorno non sia mai neppure spuntata. Dalla batosta elettorale in poi da lì non è venuto assolutamente niente; da quel giorno Casini, Monti e i loro parlamentari avvizziscono, tristemente appollaiati su un inutile dieci per cento, peraltro ormai ridottosi nei sondaggi a poco più della metà.
Il tramonto berlusconiano, insomma, rischia di corrispondere per milioni di elettori, per l’area dello schieramento politico non di sinistra che vede insieme la Destra e il Centro, e che si è soliti chiamare «moderata», a una profonda crisi di rappresentanza politica. È una crisi che viene da lontano, che caratterizza in un certo senso l’intera storia della Repubblica, anche se per mezzo secolo essa è stata tenuta celata dalla presenza surrogatoria del partito cattolico, della Democrazia cristiana. Ma se ci si pensa con attenzione – Dc a parte, che aveva natura e origine diverse, e a parte le formazioni monarco-fasciste ereditate dal passato precedente – una tale area in settant’anni non ha espresso che due formazioni significative: l’Uomo Qualunque (che visse una brevissima stagione dal 1944 al 1947) e Forza Italia. Diverse per consistenza e durata ma entrambe con un fondo comune: fatto di un’insuperabile gracilità organizzativa, della inconsistenza e della contraddittorietà della piattaforma politica, del loro carattere personalistico, di una più o meno strisciante tentazione populista. E al dunque sempre dando l’impressione di un che d’improvvisato e di provvisorio, di una certa labilità, di mancanza di radici; e sempre con una classe politica raccogliticcia e mediocre. Politicamente è questo tutto ciò che sono stati capaci di esprimere i moderati italiani.
Verrebbe quasi da concludere che dietro tali forze politiche non sia mai esistito e non esista ancora oggi alcun retroterra sociale. Ciò che però non è vero, naturalmente. Una società italiana moderata, un’Italia di centrodestra, esiste eccome. Ma il fatto si è che sia per abitudine che per vizio essa si tiene lontana dalla politica: non da ultimo per lo sciocco pregiudizio che se ne possa fare a meno, che la politica debba, e possa, ridursi alla buona amministrazione. La cultura e lo stile di vita di questa Italia moderata la spingono sì, poi, al coinvolgimento sociale, ma solo nella dimensione dell’associazionismo specifico (professionale e di scopo): assai meno la spingono a spendersi in quell’impegno generale nella società – tipicamente preliminare alla politica – per il quale essa non ha vocazione e non prova in genere alcun gusto. Infine, non prefiggendosi poi di cambiare il mondo, non credendolo né utile né possibile, e ricavando per giunta una certa soddisfazione dalla propria attività quotidiana, essa è perlopiù scettica verso tutte le «grandi cause» e le relative mobilitazioni. Salvo casi eccezionali non si sente a proprio agio con assemblee, comizi, ordini del giorno: tutte cose, invece, che fanno la delizia dell’Italia progressista.
Per una tale metà del Paese, così pervasivamente, antropologicamente, antipolitica, il rischio è quello di identificarsi solo nella contrapposizione alla sinistra, di essere sensibile solo a questa parola d’ordine: e di trovare leader esclusivamente capaci di vellicare questa contrapposizione. Laddove, viceversa, alla debole strutturazione politica attuale dell’Italia moderata si dovrebbe, e forse si potrebbe rimediare (cominciare a rimediare), cercando di darle un fondamento in strati culturali i quali, sia pure nascosti, probabilmente esistono al fondo di gran parte di essa. Se non altro come fantasmi di un passato lontano. Un certo senso dello Stato e dell’interesse pubblico, l’idea della Nazione come vincolo di solidarietà e scudo necessario nell’arena internazionale, e poi l’orizzonte della compostezza, del saper leggere e scrivere, del giocare pulito, e sopra e prima di tutto la necessità di essere liberi in modo non distruttivo. Illusioni? Anticaglie? E perché, le idee dei modernissimi intelligentoni di Scelta civica erano per caso più interessanti o più convincenti (alzi la mano chi ne ricorda qualcuna)? E forse sono oggi più profonde e lasciano meglio sperare quelle dell’onorevole Gennaro Migliore o dell’onorevole Pippo Civati? Il Corriere della Sera, 26 agosto 2013
……………Al netto di alcune considerazioni che hanno sapore di valutazioni del tutto personali, le preoccupazioni di Galli della Loggia intorno alla “solitudine” della larga, ampia, consistente area dei moderati italiani, forse, anzi senza forse, da sempre maggioritaria nel Paese, sono esatte e condivisibili. I moderati italiani, frettolosamente tipizzati solo come centrodestra, mai come in questo momento sono e si apprestano ad essere orfani di rappresentanza politica. La vicenda politica di Berlusocni che, comunque possa concludersi – speriamo al meglio per lui che non merita la gogna a cui lo si vuol destinare – di certo può considerarsi conclusa, senza che ci sia una classe dirigente, tanto meno un “capo” che possa raccoglierne il testimone per farsi – l’una o l’altro – interprete di questa grande anche se spesso etorogenea maggioranza relegata nel ghetto della contrapposizione a sinistra, come sottolinea Galli della Loggia, benchè abbia in sè tutte le ragioni e il bagaglio culturale per essere invece motore propulsore di una nuova civiltà italiana. Forse se una colpa va imputata a Berlusconi, al netto delle molte ragioni di gratitudine verso di lui per aver innalzato la bandiera della libertà quando essa stava per essere ammainata ad opera di un fondamentalismo etico assai discutibile, è quella di non aver pensato al “dopo” e ancor più di non neppure tentato di forgiare una classe dirigente, vera e coriacea, tanto quanto sarebbe necessario, oggi, per essere in grado di prendere il largo da sola nel grande mare del futuro. Nel quale rischiano di andare alla deriva sia l’Italia che i moderati. g.
Dietro ad ogni comportamento di un politico italiano, sia locale sia nazionale, si nascondono due modalità contrapposte: quella che potremmo definire la modalità del pubblico in antitesi alla modalità del privato. Purtroppo i due modi di essere, in questo nostro bipolarismo forzato, sono trasversali ai due grandi partiti.
Non è detto che un rappresentante del centrodestra non legiferi, ordini, ed esterni con la modalità del pubblico. Più raramente, ma avviene, alcuni rappresentanti di sinistra fanno invece propria la modalità del privato. In estrema sintesi la modalità del privato ritiene che, con tutti i loro difetti, le scelte dei singoli, compresi gli errori, siano da agevolare in un’ordinata e libera organizzazione dello Stato. Per uno sponsor della modalità del pubblico la norma e i suoi sacerdoti (funzionari e politici) sono invece comunque da preferire. Non pensiate che si stia parlando di filosofia. Ogni comportamento politico, anche il più insignificante, si può leggere in questa semplice contrapposizione.
Il caso di scuola è ovviamente quello fiscale. Anche se la bulimia normativa e burocratica è altrettanto pericolosa: regolare nel dettaglio il nostro vivere comune è l’altra faccia dell’oppressione fiscale. Ieri il ministro Delrio ha spiegato in quale direzione si dovrebbe rimodulare l’Imu: «Il nostro principio irrinunciabile è la redistribuzione della ricchezza, la giustizia sociale». L’obiezione più ovvia è che prima di distribuirla, è necessario crearla, la ricchezza. E il macigno delle imposte di fatto la distrugge. Si tratta di una confutazione tecnica, contabile. Ma non l’unica.
Il vero problema nell’affermazione di Delrio, peraltro considerato un ottimo amministratore locale, è piuttosto politico. La sua è la tipica posizione della modalità del pubblico. Il concetto stesso di re-distribuire implica che la distribuzione fatta dal mercato sia sbagliata, ingiusta, illecita o peggio, illegale. E che è necessario che qualcuno si occupi della buona e corretta re-distribuzione, appunto, di quanto erroneamente accumulato. E a farlo deve essere la politica e qualche illuminato funzionario pubblico. Ma dove sta scritto che ciò che ha stabilito il mercato sia emendabile da ciò che scrive un Parlamento? Le Camere nacquero storicamente proprio per il motivo opposto e cioè non permettere al sovrano di re-distribuire, in quel caso a proprio favore, ciò che la borghesia stava iniziando ad accumulare.
Bisognerebbe fare un passo indietro. E pensare all’imposizione fiscale come al modo che una società moderna ha di fornire servizi, ritenuti oggi essenziali, a coloro che non siano in grado di permetterseli. Si può anche immaginare una fetta di questa imposizione dedicata a quelle opere pubbliche e infrastrutture, che i singoli non avrebbero alcun interesse a finanziare. Punto.
La re-distribuzione del reddito non è un nobile ideale, ma un fantoccio ideologico. Almeno per coloro che hanno ben stampata in testa la modalità del privato. Ma soprattutto, negli anni, essa ha dimostrato di essere anche molto inefficiente. Dietro alla bandiera della re-distribuzione si consumano e si perpetuano le peggiori ingiustizie, che proprio essa vorrebbe cancellare. Quello che emerge chiaramente dal bilancio dello Stato è che l’enorme mole di quattrini sottratti dalle tasche dei contribuenti, riesce perfettamente nel suo intento di ridurre il reddito disponibile dei privati, ma nel contempo non riesce neanche lontanamente a soddisfare i bisogni essenziali dei più deboli. Abbiamo la tassazione più alta d’Europa e la spesa sociale pro capite più bassa, abbiamo le aliquote più penalizzanti dell’Occidente e gli investimenti pubblici più bassi nel vecchio Continente.
L’unico obbiettivo che la re-distribuzione raggiunge è quello di trasferire le risorse dai privati per elargirle diffusamente ai poteri pubblici. Non raccontiamoci palle.
Occorre combattere contro l’Imu, il rialzo dell’Iva, non solo per i 10 miliardi di euro che complessivamente valgono, ma per dare un primo forte segnale di discontinuità. La re-distribuzione dai ricchi ai poveri è l’ultimo, e neanche più originale, paravento dietro il quale la bestia statuale nasconde i suoi artigli per impossessarsi del nostro reddito e del nostro patrimonio.
Diffidate dagli sconosciuti che vengono a casa vostra per farvi del bene. Soprattutto se sul loro biglietto da visita c’è scritto: On… Nicola Porro, Il Giornale, 13 agosto 2013
…..Porro, ex vice direttore de Il Giornale e oggi conduttore di una trasmissione televisiva, Versus, rende di più e meglio quando scrive che quando parla, sia pure in veste di conduttore!
Il Corriere della Sera pubblica oggi una intervista “a tutto campo” all’on. Casini. Casini che già da settimane ammicca al centrodestra, specie dopo la separazione di fatto da Monti e, ovviamente, dopo la sconfitta di febbraio scorso, conferma i suoi ammiccamenti, pungolato dall’intervistatore che cita quanto scritto ieri da Galli della Loggia il quale dottamente ha evidenziato che nel mondo di oggi non v’è “campo” per posizioni terze rispetto allo schema bipolare che comne ovunque anche in Italia ha profondamente attecchito. Casini fa il mkea culpa per il futuro, si arrampica sugli specchi per il passato nel tentativo, puerile, di dimosrtrare che chi ha sbagliato è stato Berlusconi, riservando a se stesso il ruolo di chi ha dovuto soccombere rispetto alle decisioni di Berlusconi. Lo fa specie nel riuferimento al mnacato varo della riforma della giustizia dik cui fa carico al sol Berlusconi per aver pensato solo a leggi ad personam piuttosto che a una riforma vasta e complessiva. E’ un bugiardo Casini. Lui, Follini – finchè questi è rimasto nel partito di Casini-, Fini, e la stessa Lega hanno osteggiato qualsiasi ipotesi di riforma della giustizia, specie nel quinquennio 2001-2006, costringendo essi Berlusconi a scegliere la strada – sbagliata – delle leggi ad personam. Se una colpa si può e si deve fare a Berlusconi è quella di aver subito il ricatto dei suoi alleati praticando la politica andreottiana del “tirare a campare piuttosto che tirare le cuoia”: dinanzi ai dinieghi dei suoi alleati Berlusconi avrebbe dovuto mostrarsi ed essere statista e far cadere il governo mettendo i suoi alleati difronte al bivio: o riformare la giustizia e, ovviamente, tutte le strutture dello Stato, oppure andare a casa. Non lo fece e le conseguenze sono quelle che oggi sono sotto i nostri occhi: le macerie nelle quali è sprofondato il centrodestra benchè largamente maggioritario nel Paese, fra gli elettori, nella società. Naturalmente si può riprendere il discorso e il cammino, ma, per carità di patria, Casini non pontifichi. Non lo può fare dall’alto delle sue percentuali da prefisso telefonico. g.
Ecco l’intervista a Casini
Onorevole Casini, Ernesto Galli Della Loggia, sul Corriere, chiede a voi moderati non di sinistra di avere il coraggio di unirvi al Pdl e di rappresentare la «destra», ora che Berlusconi è destinato ad uscire di scena. Raccoglie l’appello?
«Che la democrazia dell’alternanza sia un fatto positivo in ogni Paese è innegabile. Ma se in Italia, dopo 20 anni, non ha funzionato un bipolarismo temperato, con un minimo comune denominatore tra i due poli, è stato proprio per la duplice criminalizzazione, di Berlusconi e dei comunisti. Si è preferito “non fare prigionieri” e così si è persa una grande occasione».
Non è responsabile anche il centro che ha deciso, nelle ultime elezioni di non schierarsi?
«Chi è senza peccato scagli la prima pietra, e forse è il caso che tutti ci asteniamo dalla tentazione. Ma un cattivo risultato non significa negare le nostre buone ragioni. La scorsa legislatura la sconfitta della destra è stata dovuta al fallimento del loro governo. E a sinistra hanno pervicacemente voluto l’alleanza con Sel, che si è infranta addirittura sul voto del capo dello Stato…».
Insomma, non è verso di voi che si deve puntare il dito…
«Ho cercato di moderare il centrodestra dall’interno, fino alla svolta del Predellino. Poi ho ritenuto più coerente una testimonianza solitaria. Ma va detto che se abbiamo vissuto un bipolarismo sbracato è anche per responsabilità di un Pd che, esclusa la parentesi veltroniana, non ha mai voluto avere “nemici” a sinistra. E anche oggi il fatto che Renzi sia diventato l’icona di Sel e di chi vuole sfasciare il governo Letta, deve far pensare».
Ma oggi appunto il quadro è cambiato: la condanna di Berlusconi lascia oggettivamente un vuoto a destra. Siete pronti a muovervi in quella direzione?
«Siamo pronti ad assumerci la responsabilità di scegliere. Ma oggi il Pdl non può sprecare l’occasione scegliendo una deriva avventurista».
Lei si è detto convinto che Berlusconi alla fine darà le dimissioni da senatore, lo pensa ancora?
«Sì, perché conosco la sua intelligenza e so che il presidente più longevo del Dopoguerra eviterà l’umiliazione di un voto che, al Senato, lo vedrebbe pesantemente sconfitto. Mi rendo conto che per lui è una prova dura, ma solitamente nelle circostanze difficili dà il meglio di sé. D’altronde è lui che ha chiesto di separare le sue vicende giudiziarie da quelle del governo, e che continua a sostenere Letta. Se dobbiamo andare verso il bipolarismo del futuro, e creare nuove convergenze in nome delle comuni appartenenze europee del Ppe, l’atteggiamento politico del Pdl in questo momento non può avere equivoci».
Insomma, se il Pdl sceglie la via del sostegno al governo potreste ritrovarvi presto insieme? Siete già in contatto con i vertici del partito?
«In questo momento è giusto e doveroso che il Pdl si stringa accanto a Berlusconi, gli dia la massima solidarietà. Poi è chiaro che dovrà aprirsi una riflessione in tutto il partito: so che alcuni stanno già pensando a come rimettersi in marcia, vedremo i fatti e le scelte».
Intanto però il Pdl chiede «agibilità politica» per il suo leader. Voi siete disponibili a qualche passo, qualche soluzione per venirgli incontro?
«Ci sono temi che sicuramente andranno affrontati, a partire dalla riforma della giustizia. Non parlo della sentenza della Cassazione, ma ho sempre detto e lo ribadisco che un certo accanimento giudiziario nei confronti di Berlusconi è difficile da negare. Ma se non si è fatta la grande riforma della giustizia, pur in presenza di una maggioranza enorme del centrodestra, è stato perché si è preferito inseguire, in modo disarmonico e spezzettato, i singoli procedimenti giudiziari in cui è stato coinvolto Berlusconi ».
Ma cosa fare nell’immediato per garantire, appunto l’«agibilità politica» per Berlusconi?
«Io sinceramente non capisco bene di cosa si stia parlando. Il tema della sentenza di Berlusconi non è eludibile. Bisogna prendere atto, con rispetto e senza giudizi sprezzanti, che la sentenza c’è stata e che avrà i suoi effetti. A parte che pretendere in questo momento la grazia o provvedimenti speciali serve solo a non ottenere nulla, ma concretamente, non vedo cosa ci si potrebbe inventare. Oltretutto, qualsiasi provvedimento parlamentare dovrebbe passare là dove il Pd ha una larga maggioranza: un Pd che è impensabile possa agire sfidando sentimenti, convinzioni e umori della propria base».
E se la soluzione fosse la discesa in campo di Marina Berlusconi?
«Il problema non sono le persone. Per mesi abbiamo chiesto a personalità influenti della società civile di partecipare, abbiamo esortato, pregato, figurarsi se mi scandalizza l’idea che una brava imprenditrice possa impegnarsi. Ma il punto è su quale linea politica si scende in campo».
Non teme che troppi nodi non sciolti per il Pdl, compreso quello sull’Imu, possano davvero portare a elezioni anticipate?
«Le elezioni anticipate non le indice il Pdl, ma Napolitano. Il quale ha detto e ripetuto che con questa legge non si va a votare. Quindi – in caso di crisi – si cercherebbe di formare un nuovo governo che, dovrebbero capirlo gli amici del Pdl, non sarebbe certo un ricostituente… Detto questo, è vero che il governo è nato anche sull’accordo per superare l’Imu nell’attuale forma, su questo nel Pdl hanno ragione. E sono possibili anche soluzioni intelligenti, come quella di una service tax che piace anche a un loro sindaco come Cattaneo. Un accordo andrà necessariamente trovato».Il Corriere della Sera, 12 agosto 2013
Sono centomila i «super-pensionati» che costano al sistema ben 13 miliardi di euro all’anno. Mercoledì il sottosegretario al Welfare, Carlo Dell’Aringa, rispondendo in commissione Lavoro della Camera a un’interrogazione di Deborah Bergamini (Pdl), ha rispolverato l’albo delle «pensioni d’oro», riaprendo il file delle polemiche.
Pensioni d’ora: quelli da 90mila euro al mese
La pensione più alta erogata dall’Inps ammonta a 91 mila 337,18 euro lordi mensili. Corrisponde al profilo di Mauro Sentinelli, ex manager e ingegnere elettronico della Telecom, che percepisce qualcosa come 3.008 euro al giorno, cui si sommano ai gettoni di presenza che prende come membro del consiglio di amministrazione di Telecom e presidente del consiglio d’amministrazione di Enertel Servizi Srl. Non poche medaglie al suo petto: è stato l’ideatore del «servizio prepagato Tim Card», una miniera di profitti per la sua azienda. Scorrendo la «top ten» previdenziale fornita dal sottosegretario, c’è un salto fra il primo e il secondo posto, che si «ferma» a 66.436,88 euro. Il titolare in questo caso non è noto, mentre al terzo posto con circa 51.781 euro, dovrebbe esserci Mauro Gambaro, ex direttore generale di Interbanca e di Inter Football Club, oggi advisor specializzato nel corporate finance e presidente del cda di Mittel management srl.
A seguire, Alberto De Petris, ex di Infostrada e Telecom, che porta a casa circa 51 mila euro, mentre a un’incollatura c’è probabilmente Germano Fanelli, fondatore della Octotelematics, che nel 2010 accumulava dieci incarichi differenti. Dal quinto a decimo posto della classica si resta nella fascia dei 40 mila euro, esattamente da 47.934,61 a 41.707,54 euro.In questo ambito dovrebbero ritrovarsi manager come Vito Gamberale, amministratore delegato di F2i, oppure Alberto Giordano, ex Cassa di Roma e Federico Imbert, ex JP Morgan. «Questi numeri – ha commentato Bergamini – dimostrano tutta la portata distorsiva di quel criterio retributivo dal quale ci stiamo fortunatamente allontanando grazie alle riforme pensionistiche degli ultimi anni. Benché gli interventi in materia siano particolarmente delicati, anche sul fronte della costituzionalità, e avendo cura di evitare qualsiasi colpevolizzazione verso i beneficiari di questi trattamenti, che li hanno maturati secondo le regole vigenti, è evidente che il tema coinvolge una questione di equità e di coesione sociale non più trascurabile dalle istituzioni, specialmente in un momento di grave crisi economica e di pesanti sacrifici per tutti».
E in effetti sono ancora troppe le pensioni da migliaia e migliaia di euro al mese pagate in Italia che non hanno alcun nesso economico con i versamenti effettuati. La deputata Giorgia Meloni (FdI) propone da tempo di fissare un tetto all’importo delle «pensioni d’oro», oltre il quale andare solo se nel tempo si sono pagati contributi che giustifichino tale importo. In questo modo si potrebbero risparmiare molti miliardi di euro. Il ministro del Lavoro, Enrico Giovannini, ha già risposto alla sollecitazione appena assunto l’incarico, osservando che il tema è giusto ma che i governi che in passato hanno provato a intervenire, anche fissando un semplice contributo di solidarietà, si sono scontrati con la Corte Costituzionale e col principio dei diritti acquisiti. Si può cambiare la Costituzione? Fonte: Il Corriere della Sera, 8 agosto 2013
.….Certo che si può….si deve cambiare tutto quel che occorre perchè si ponga fine a questa squalida vicenda per cui c’è chi percepisce 3mila euro al giornmo e chi deve vivere con 500 euro al mese. 13 miliardi di euro all’anno, il costo delle pensioni d’oro che la Corte Costituzionale preserva anche dal minimo contributo di solidarietà per tutelare se stessa visto che tra i pensionati d’oro ci sono i giudici, è pari ad alcuni punti di PIL e all’importo di tre anni di IMU sulla prima casa. Basta questo perchè il ministro Giovannini porti in Parlamento tutte le modifiche costituzionali necessarie perchè vengano rimodulate queste pensioni il cui importo, tra l’altro, non è legato esplicitamente ai contributi versati e poi vediamo chi in Parlamento si gira dall’altra parte. g.
Così come non c’è mai stata nessuna Seconda Repubblica, la condanna di Berlusconi non farà nascere la Terza. La Repubblica è una soltanto, sempre la stessa. Che cambino o meno uomini, partiti o leggi elettorali. Ed essendo la stessa, le sue tare e i suoi conflitti di fondo si perpetuano. Così è per lo squilibrio di potenza fra magistratura e politica, uno squilibrio che secondo molti, compreso lo scomparso presidente della Repubblica Francesco Cossiga, risale a molto tempo prima delle inchieste di Mani Pulite di venti anni fa.
Al momento, apparentemente, tutto è come al solito: con Berlusconi e la destra contrapposti alla magistratura e la sinistra abbracciata ai magistrati. Gli uni reagiscono a quella che ritengono una orchestrata persecuzione. Gli altri si aggrappano alla magistratura, un po’ per antiberlusconismo, un po’ perché una parte dei loro elettori considera i magistrati (i pubblici ministeri soprattutto) delle semi-divinità o giù di lì, e un po’ perché sperano in trattamenti «più comprensivi» di quelli riservati alla destra.
Ma lo squilibrio di potenza c’è (anche i magistrati più seri lo riconoscono) e, insieme alla grande inefficienza del nostro sistema di giustizia, richiederebbe correttivi. Una seria riforma della giustizia, del resto, l’ha chiesta anche il presidente della Repubblica, di sicuro non sospettabile di interessi partigiani.
Ma la domanda è: può un potere debole e diviso imporre una «riforma» a un potere molto più forte (e molto più unito) contro la volontà di quest’ultimo? Frugando in tutta la storia umana non se ne troverà un solo esempio.
La magistratura è l’unico «potere forte» oggi esistente in questo Paese e lo è perché tutti gli altri poteri, a cominciare da quello politico, sono deboli. Non permetterà mai al potere debole, al potere politico, di riformarla. Certo, si potranno forse fare – ma solo se i magistrati acconsentiranno – interventi volti ad introdurre un po’ più di efficienza: sarebbe già tanto, per esempio, ridurre i tempi delle cause civili. Ma non ci sarà nessuna «riforma della giustizia» se per tale si intende una azione che tocchi i nodi di fondo: separazione delle carriere, trasformazione del pubblico ministero da superpoliziotto in semplice avvocato dell’accusa, revisione delle prerogative e dei meccanismi di funzionamento del Csm, cambiamento dei criteri di reclutamento e promozione dei magistrati, riforma dell’istituto dell’obbligatorietà dell’azione penale, eccetera. La classe politica, in tanti anni, non è riuscita nemmeno a varare una decente legge per impedire la diffusione pilotata delle intercettazioni. Altro che «riforma della giustizia».
Il problema va aggredito da un’altra prospettiva. C’è un solo modo per porre rimedio allo squilibrio di potenza: rafforzare la politica. Ci si concentri su provvedimenti che possano ridare, col tempo, forza e legittimità al potere politico: una seria riforma costituzionale che renda più efficace l’azione dei governi, un radicale cambiamento delle modalità di finanziamento dei partiti, una drastica contrazione dell’area delle rendite politiche, delle rendite controllate e distribuite dai politici nazionali e locali (vera causa, al di là della demagogia, degli altissimi costi della politica).
Ci si concentri, insomma, su alcune cause certe della debolezza, e della mancanza di credibilità, che affliggono il potere politico. Solo così sarà possibile avviare un processo che porti ad annullare lo squilibrio di potenza. Anche se ci vorranno anni per riuscirci.
Al momento, dunque, non si può fare nulla in materia di giustizia? Qualcosa forse sì, ma richiede lungimiranza (perché i frutti si vedrebbero solo dopo molto tempo). Si affronti il problema là dove tutto è cominciato: si rivoluzionino i corsi di studio in giurisprudenza (e pazienza se i professori di diritto strilleranno). Si incida sulle competenze, e sulle connesse «mentalità», di coloro che andranno a fare i magistrati (ma anche gli amministratori pubblici). Si iniettino dosi massicce di «sapere empirico» in quei corsi. Si riequilibri il formalismo giuridico con competenze economiche e statistiche, e con solide conoscenze (non solo giuridiche) delle macchine amministrative e giudiziarie degli altri Paesi occidentali. Si addestrino i futuri funzionari, magistrati e amministratori, a fare i conti con la complessità della realtà. È ormai inaccettabile, ad esempio, che un magistrato, o un amministratore, possano intervenire su delicate questioni finanziarie o industriali senza conoscenze approfondite di finanza o di economia industriale. È inaccettabile che gli interventi amministrativi o giudiziari siano fatti da persone non addestrate a valutare l’impatto sociale ed economico delle norme e delle loro applicazioni. Il diritto è uno strumento di regolazione sociale troppo importante per lasciarlo nelle mani di giuristi puri.
Lo squilibrio di potenza permarrà a lungo. La politica, per venirne a capo, deve ispirarsi a una antica tradizione militare cinese. Le serve una «strategia indiretta». Sono sconsigliati gli attacchi frontali. Angelo Panebianco, Il Corriere della Sera, 6 agosto 2013
……………Ciò che scrive Panebianco è ispirato oltre che dalla conoscenza approfondita, da ottimo politologo qual’è, dei fatti, anche dal buon senso. Non solo! Anche dalla recente invettiva lanciata da una deklle fazioni della magistratura, Magistratura Democratica (sic!), all’indomani dell’auspicio formulato dal presidente della Repubblica di una sollecita e cmplessiva riforma del pianeta giustizia. Nessuno si azzardi, Parlamento compreso, a dar corso ad alcuna riforma che vada nella direzione di rivedere i meccanismi attuali di intervento della magistratura nella vita del Paese. E’ stato questo il succo dell’invettiva dei magistrati cosiddetti democratici, succo che conferma, ove ve ne fosse bisogna, che ha ragioneda vendere Panebianco quando scrive che la magistratura è nel nostro Paese l’unico potere forte, tanto quanto è debole, dall’altra parte, il potere politico. Non solo perchè la politica stessa si è autoindebolita, quant perchè in virtù di ciò il potere giudiziario, da Tangentepoli in poi, si è autoinsignito di ruoli che non gli appartengono. Ed ha ragione Panebianco quando afferma che solo se la politica saprà riformare se stessa riguadagnandosi rispetto e credibilità, e solo allora, si potrà procedere sula strada della riforma della giustizia e della sua riciollocazione nell’alveo naturale del sistema costituzionale del nostro Paese. Una prima occaisone la politica ce l’ha in queste ore e l’ha offerta la inopportuna intervista rilasciata alla stampa dal presidente del collegio della Cassazione che venerdì ha condannato Berlusconi. Nell’intervista il giudice ha anticipato, fatto del tutto inconsueto e fuori delle regole, le ragioni della condanna di Berlusconi, sproloquiando sul concetto del “non poteva non sapere” e su quello che invece “sapesse”. L’intervista ha provocato polemiche infuocate er ancora ne provocherà nelle prossime ore. Ebbene, mentre il primo presidente della Cassazione ha definito inopportuna l’intervisdt e il ministro Cancellieri ha chiesto informazioni e tre componenti laici del CSM hanno chiesto di aprire una praqtica a carico del giudice troppo loquace, si è registrato, da una parte, l’intervento del presidente dell’ANM il quale si è precipitato a sostenere che nulla v’è da rilevare sotto il profilo disciplinare a carico del giudice medesimo, dall’altra, il silenzio assordante di quanti, a sinistra, ogni qual volta da destra si “constesta”, anche a ragione come in questo caso, la magistratura, si strappano le vesti per “difendere”, ovunque e comunque, la magistratura. Ecco ciò che rende debole la politica e la pone in stato di sudditanza della magistratura. E sino a quando rimarrà tale stato di cose nel nostro Paese la riforma della Giustizia, la più ampia, e che è di certo la riforma più difficile ma anche la più urgente, anzi l’unrgenza assoluta, difficilmente potrà realizzarsi. g.
Per le auto blu è stato speso oltre un miliardo di euro nel 2012, con un calo di 128 milioni rispetto al 2011 (-12%) e – 26% rispetto al 2009. Sono i primi risultati del monitoraggio dei costi delle auto della PA realizzato da Formez PA per il Dipartimento della Funzione Pubblica, avviato nel mese di maggio 2013. La spesa totale sostenuta nel 2012 per la gestione del parco auto è stimata pari a 1.050 milioni di euro, 128 milioni in meno rispetto al 2011 (-12%). Le variazioni sono sostanzialmente analoghe nella PA centrale (circa 25 milioni di euro pari al -12,4%) e nell’Amministrazione locale (103 milioni di euro pari al -11,9%, equivalente). La gestione include le spese per acquisizioni in proprietà e noleggio, le spese ripartibili e non ripartibili e le spese per il personale dedicato, tra cui gli autisti. Rispetto alla spesa sostenuta dalle amministrazioni nel 2009, anno di riferimento per le nuove e più stringenti norme e direttive per il contenimento dei costi, la riduzione della spesa per le auto della P.A. nel 2012 è stata di 335,5 milioni di euro (-26,3%), 282,8 milioni di euro per le Amministrazioni locali (-27,0%) e 53,7 milioni di euro per l’Amministrazione centrale. Considerando la spesa per tipologia di auto, si può constatare che per le auto blu (ossia le vetture assegnate ad una persona sia in uso esclusivo che non esclusivo, le auto a disposizione degli uffici con autista e le vetture con e senza autista se di cilindrata superiore a 1.600 cc), il totale della spesa per il 2012 ammonta a circa 400 milioni di euro, con una riduzione di 72 milioni di euro rispetto all’anno precedente. La spesa per le auto cosiddette ‘ grigiè (vetture a disposizione degli uffici e servizi senza autista e auto con e senza autista inferiore ai 1.600 cc) è stata pari a 539 milioni di euro, con una riduzione di circa 55 milioni di euro rispetto al 2011. Fonte: agenzie di stampa
………………Naturalmente nessuno del “palazzo” si preoccupa più di tanto, nemmeno che quel che si spende per le auto della casta è pari ad un quarto dell’IMU sulla prima casa.