LO SFORMATO LEGISLATIVO:OVVERO LE LEGGI CHE LA GENTE NON CAPISCE

Pubblicato il 4 agosto, 2013 in Costume, Politica | Nessun commento »

D’estate, puntualmente, fioccano i divieti. L’ultima invenzione è il porto d’armi (pardon, di sigarette) in automobile, che ha impegnato in singolar tenzone le ministre Bonino e Lorenzin. Ma la pioggia di regole ci bagna tutto l’anno, e nessun ombrello è abbastanza largo da proteggerci. Nel 2007 la commissione Pajno ha fatto un po’ di conti: avremmo in circolo 21.691 leggi dello Stato. Tuttavia la stima è viziata per difetto, e non solo perché il trascorrere del tempo ci ha recato in dote nuovi acciacchi normativi. Dobbiamo aggiungervi le leggi regionali (all’incirca 30 mila). Quelle delle due Province autonome (il sito web della Provincia di Bolzano ne vanta oltre 2 mila). Nonché il profluvio dei regolamenti: 70 mila.

Troppo? No, è troppo poco. Nel Paese in cui perfino i carabinieri sono dotati di un ufficio legislativo, in questo Paese senza autorità ma con cento authority, le sartorie del diritto s’incontrano a ogni angolo di strada, e ciascuna ha un abito normativo che ci cuce addosso. Il 18 luglio il Garante della privacy ha varato un provvedimento sulle intercettazioni: 41.196 caratteri. Il 4 luglio ne aveva licenziato un altro sul contrasto allo spam: 7.767 parole. Risale invece a maggio il regolamento della Banca d’Italia sulla gestione collettiva del risparmio: 171 pagine. Senza contare statuti e regolamenti comunali (a Parma ce n’è uno sulla Consulta del verde, un altro dedica 14 articoli al Castello dei burattini). O senza ricordare le mitiche ordinanze dei sindaci-sceriffi, dal divieto della sosta di gruppo in panchina (Voghera) a quello dei bagni notturni (Ravenna), fino al divieto d’imbrattare i cartelli di divieto.

Ma di che pasta è fatto questo sformato normativo? Proviamo ad assaggiare il menu del governo Letta, accusato ingiustamente di battere la fiacca, mentre ha messo in forno 20 provvedimenti negli ultimi 30 giorni. Il più importante è il «decreto del fare», dove figura un capitolo sulle semplificazioni burocratiche. Vivaddio, era ora. Peccato tuttavia che per semplificare il decreto spenda 93 commi, oltretutto scritti nel peggior burocratese. Così, il comma 1 dell’articolo 52 si suddivide in 11 punti contrassegnati in lettere (dalla A alla M); la lettera I s’articola poi in 3 sottopunti, numerati con cifre arabe come gli articoli; e il sottopunto 2 si scinde in altri 2 sotto-sottopunti, ciascuno distinto da una lettera.

Diceva Seneca: la legge dev’essere breve, affinché possa comprenderla pure l’inesperto. E Tacito, a sua volta: quando le leggi sono troppe, la Repubblica è corrotta. Ecco, è questo doppio male che in Italia offusca il senso stesso della legalità. Sono le 63 mila norme di deroga, che mettono in dubbio la residua sopravvivenza della regola, con buona pace del principio d’eguaglianza. Sono i 35 mila reati che ci portiamo sul groppone, e che la Cancellieri non ha mai cancellato. Sono i 66 mila detenuti stipati in 47 mila posti letto, al cui destino il nostro Parlamento è indifferente, mentre viceversa grazia i colpevoli di stalking o di abuso di ufficio, con un emendamento approvato l’altroieri. Ed è, in ultimo, l’incertezza del diritto, che trasforma ogni poliziotto in giudice, ogni giudice in un legislatore. Perché in questo caso funziona un paradosso: le troppe leggi s’elidono a vicenda, dal pieno nasce il vuoto. E nel deserto dei valori torreggia uno Stato ficcanaso, che adesso vorrebbe perfino mandare a scuola chi possiede un cane, per insegnargli la buona educazione. Che maleducato. Michele Ainis, Il Corriere della Sera, 4 agosto 2013

COSI’ INFANGAVA BERLUSCONI IL GIUDICE CHE L’HA CONDANNATO

Pubblicato il 3 agosto, 2013 in Giustizia, Politica | Nessun commento »

Questo è l’articolo più difficile che mi sia capitato di scrivere in 40 anni di professione. Un amico magistrato, due avvocati, mia moglie e persino il giornalista Stefano Lorenzetto mi avevano caldamente dissuaso dal cimentarmi nell’impresa. Ma il cittadino italiano che, sia pure con crescente disagio, sopravvive in me, s’è ribellato: «Devi!».

Il presidente della sezione feriale della Cassazione Antonio Esposito

Dunque eseguo per scrupolo di coscienza.
In una nota diramata dal Quirinale dopo la condanna definitiva inflitta a Silvio Berlusconi, il capo dello Stato ci ha spiegato che «la strada maestra da seguire» è «quella della fiducia e del rispetto verso la magistratura». Ebbene, signor Presidente, qui devo dichiarare pubblicamente e motivatamente che fatico a nutrire questi due sentimenti – fiducia e rispetto – per uno dei giudici che hanno emesso il verdetto di terzo grado del processo Mediaset. Non un giudice qualunque, bensì Antonio Esposito, il presidente della seconda sezione della Corte suprema di Cassazione che ha letto la sentenza a beneficio delle telecamere convenute da ogni dove in quello che vorrei ostinarmi a chiamare Palazzo di Giustizia di Roma, e non, come fa la maggioranza degli italiani, Palazzaccio.
Vado giù piatto: ritengo che il giudice Esposito fosse la persona meno adatta a presiedere quell’illustre consesso e a sanzionare in via definitiva l’ex premier. Ho infatti serie ragioni per sospettare che non fosse animato da equanimità e serenità nei confronti dell’imputato. Di più: che nutrisse una forte antipatia per il medesimo, come del resto ipotizzato da vari giornali. Di più ancora: che il giudice Esposito sia venuto meno in almeno due situazioni, di cui sono stato involontario spettatore, ai doveri di correttezza, imparzialità, riserbo e prudenza impostigli dall’alto ufficio che ricopre.
Vengo al sodo. 2 marzo 2009, consegna del premio Fair play a Verona. L’avvocato Natale Callipari, presidente del Lions club Gallieno che lo patrocina, m’invita in veste di moderatore-intervistatore. È un’incombenza che mi capita tutti gli anni. In passato hanno ricevuto il riconoscimento Giulio Andreotti, Ferruccio de Bortoli, Pietro Mennea, Gianni Letta. Nel 2009 la scelta della giuria era caduta su Ferdinando Imposimato, presidente onorario aggiunto della Cassazione. Nell’occasione l’ex giudice istruttore dei processi per l’assassinio di Aldo Moro e per l’attentato a Giovanni Paolo II giunse da Roma accompagnato da un carissimo amico: Antonio Esposito. Proprio lui, l’uomo del giorno. Col quale condivisi il compito di presentare un libro sul caso Moro, Doveva morire (Chiarelettere), che Imposimato aveva appena pubblicato.
Seguì un ricevimento all’hotel Due Torri. E qui accadde il fattaccio. Al tavolo d’onore ero seduto fra Imposimato ed Esposito. Presumo che quest’ultimo ignorasse per quale testata lavorassi, giacché nel bel mezzo del banchetto cominciò a malignare, con palese compiacimento, circa il contenuto di certe intercettazioni telefoniche riguardanti a suo dire il premier Berlusconi, sulle quali vari organi di stampa avevano ricamato all’epoca della vicenda D’Addario, salvo poi smentirsi. Il presidente della seconda sezione penale della Cassazione dava segno di conoscerne a fondo il contenuto, come se le avesse ascoltate. Si soffermò sulle presunte e specialissime doti erotiche che due deputate del Pdl, delle quali fece nome e cognome, avrebbero dispiegato con l’allora presidente del Consiglio. A sentire l’eminente magistrato, nella registrazione il Cavaliere avrebbe persino assegnato un punteggio alle amanti. «E indovini chi delle due vince la gara?», mi chiese retoricamente Esposito. Siccome non potevo né volevo replicare, si diede da solo la risposta: «La (omissis), caro mio! Chi l’avrebbe mai detto?».
Io e un altro commensale, che sedeva alla sinistra del giudice della Cassazione, ci guardavamo increduli, sbigottiti. Ho rintracciato questa persona per essere certo che la memoria non mi giocasse brutti scherzi. Trattasi di uno stimato funzionario dello Stato, collocato in pensione pochi giorni fa. Non solo mi ha confermato che ricordavo bene, ma era ancora nauseato da quello sconcertante episodio. Per maggior sicurezza, ho interpellato un altro dei presenti a quella serata. Mi ha specificato che analoghe affermazioni su Berlusconi, reputato «un grande corruttore» e «il genio del male», le aveva udite dalla viva voce del giudice Esposito prima della consegna del premio.
Non era ancora finita. Sempre lì, al ristorante del Due Torri, il giudice Esposito mi rivelò quale sarebbe stato il verdetto definitivo che egli avrebbe pronunciato a carico della teleimbonitrice Vanna Marchi, la quale pareva stargli particolarmente sui didimi: «Colpevole» (traduco in forma elegante, perché il commento del magistrato suonava assai più colorito). Infatti, meno di 48 ore dopo, un lancio dell’Ansa annunciava da Roma: «Gli amuleti non hanno salvato Vanna Marchi dalla condanna definitiva a 9 anni e 6 mesi di reclusione emessa dalla seconda sezione penale della Cassazione». Incredibile: la Suprema Corte, recependo in pieno quanto confidatomi due giorni prima da Esposito, aveva accolto la tesi accusatoria del sostituto procuratore generale Antonello Mura, lo stesso che l’altrieri ha chiesto e ottenuto la condanna per Berlusconi. Ma si può rivelare a degli sconosciuti, durante un allegro convivio, quale sarà l’esito di un processo e, con esso, la sorte di un cittadino che dovrebbe essere definita, teoricamente, solo nel chiuso di una camera di consiglio?
Capisco che tutto ciò, pur supportato da conferme testimoniali che sono pronto a esibire in qualsiasi sede, scritto oggi sul Giornale di proprietà della famiglia Berlusconi possa lasciare perplessi. Ma, a parte che non mi pareva onesto influenzare i giudici della Suprema Corte alla vigilia dell’udienza, v’è da considerare un fatto dirimente: alcuni dettagli dell’avventura che m’è capitata a marzo del 2009 li avevo riferiti nel mio libro Visti da lontano (Marsilio), uscito nel settembre 2011, dunque in tempi non sospetti, considerato che la sentenza di primo grado a carico di Berlusconi è arrivata più di un anno dopo, il 26 ottobre 2012, ed è stata confermata dalla Corte d’appello l’8 maggio scorso. Senza contare che il collegio dei giudici di Cassazione che ha deliberato sul processo Mediaset è stato istituito con criteri casuali solo di recente.
A pagina 52 di Visti da lontano, parlando di Imposimato (che non ha mai smentito le circostanze da me narrate), scrivevo: «Una sera andai a cena con lui dopo aver presentato un suo libro. Debbo riconoscere che sfoderò un’affabilità avvolgente, nonostante le critiche che gli avevo rivolto. Era accompagnato dal presidente di una sezione penale della Cassazione sommariamente abbigliato (cravatta impataccata, scarpe da jogging, camicia sbottonata sul ventre che lasciava intravedere la canottiera). Il quale, forse un po’ brillo, mi anticipò lì a tavola, fra una portata e l’altra, quale sarebbe stato il verdetto del terzo grado di giudizio che poi effettivamente emise nei giorni seguenti a carico di una turlupinatrice di fama nazionale. Da rimanere trasecolati».
Allora concessi al mio occasionale interlocutore togato una misericordiosa attenuante: quella d’aver ecceduto con l’Amarone. Da giovedì sera mi sono invece convinto che, mentre a cena sproloquiava su Silvio Berlusconi e Vanna Marchi, era assolutamente lucido nei suoi propositi. Fin troppo
. Stefano Lorenzetto, 3 agosto 2013

……Lorenzetto è un giornalista che scrive per molte testate, è famoso sopraqtutto  per le  interviste a personaggi influenti della politica, dello spettacolo, della cultura,  spesso divenute libri. E’ difficile immaginare che  quanto denuncia oggi sul giudice che ha giudicato e condannato Berlusconi se lo sia inventato. E se non se lo è inventato è abbastanza lecito nutrire dubbi sulla terzietà almeno di questo giudice, il più influente perchè presidente  del collegio che ha condannato Berlusconi. E se dubbi ci sono ci pare che qualcuno che ne abbia autorità e poteri  debba accertare la verità e nel caso disporre un nuovo processo con giudici sicuramente terzi. g.

LA CONFUSIONE E LE INEFFICIENZE

Pubblicato il 20 luglio, 2013 in Politica | Nessun commento »

Dal male nasce il bene, recita un vecchio proverbio. Il male è il caso Shalabayeva: una vicenda che ci ha fatto diventare rossi di vergogna. Il bene alberga nel dibattito che ne è scaturito, scoperchiando il vaso di Pandora dei rapporti fra politica e amministrazione. Però anche dal bene può nascere il male. Succede quando le diagnosi si rivelano fallaci, quando perciò le terapie possono infliggere il colpo di grazia all’ammalato, invece di guarirlo.

Ma perché, non è forse vero che in Italia l’alta burocrazia ha troppi poteri? Certo che sì, e l’espulsione di quella giovane mamma con la sua bambina – decretata dopo un giro di valzer fra dirigenti del ministero dell’Interno e della Polizia di Stato – ne costituisce la prova provata. Le opposizioni hanno reagito chiamando a risponderne il ministro, secondo le regole della democrazia parlamentare; dimenticando che una crisi di governo, mentre tutto il Paese è in crisi, sarebbe una sciagura. Per un momento l’ha dimenticato anche il Pd, benché questo partito esprima il presidente del Consiglio. Poi Napolitano ha richiamato tutti alla realtà, e almeno per adesso il pericolo parrebbe scongiurato. Però alla fine della giostra resta un delitto senza un assassino. E in secondo luogo rimane in circolo il sospetto – di più, la convinzione – che ministri e ministeri vivano in stanze separate. Da qui la debolezza dei governi, da qui l’arroganza delle burocrazie. Da qui, in breve, l’esigenza di mettere un guinzaglio politico al collo dei grand commis di Stato.

Errore: è casomai l’opposto che dovremmo fare. Se la dirigenza amministrativa ha ormai usurpato le funzioni del governo, se blocca qualunque taglio alla spesa pubblica per non cedere quote di potere, se una circolare vale più di cento leggi, se insomma chi decide non è più l’eletto bensì il burocrate negletto, ebbene tutto questo accade per un eccesso di contiguità – non di separatezza – fra politica e amministrazione. Ma la colpa è dei partiti, del loro pantagruelico appetito. Hanno divorato il Parlamento, annullandone l’autonomia costituzionale. Poi hanno divorato gli apparati burocratici, distruggendone l’imparzialità prescritta dall’articolo 97 della Carta. Lo hanno fatto pretendendo di scegliersi capi e sottocapi attraverso lo spoils system : una razzia benedetta da una legge del 1997, allargata da un altro intervento normativo nel 2002, arginata a fatica dalla Consulta in numerosissime pronunzie. Ma il dirigente selezionato per meriti politici diventa giocoforza un politico lui stesso, acquista l’autorità per governare in luogo del governo, si sostituisce legittimamente al suo ministro. E infine assiste con un ghigno al suicidio dei partiti: divorando tutto, hanno divorato anche il proprio potere.

Morale della favola: fuori la politica dall’amministrazione. E fuori anche dalla giurisdizione: che altro sono le correnti della magistratura se non partiti in toga? Servono perciò riforme, come ha ammonito ancora ieri il capo dello Stato. Per sottrarre, tuttavia, non per aggiungere. Servono riforme che sappiano amputare gli artigli dei politici. Che svuotino il gran mare delle leggi, dove ogni burocrate trova sempre un’onda compiacente su cui galleggiare. Che cancellino le zone franche della responsabilità amministrativa e giudiziaria. Che disarmino le troppe camarille in marcia sulle rovine del Paese. Insomma usate le forbici, per favore. Le forbici. Michele Ainis, Il Corriere della Sera, 19 luglio 2013

………Non bastano le forbici. Ocorre l’accetta e ben affilata.

GIUSTIZIA A GOGO’

Pubblicato il 19 luglio, 2013 in Giustizia | Nessun commento »

Il Gip di Milano, dopo solo due giorni di carcere, ha mandato agli arresti domiciliari a casa sua, l’assassino della ragazzina di appena 17 anni, travolta dall’auto dell’uomo, che nè si fermò per prestare soccorso, e che per sfuggire alla cattura nascose l’auto. Quando il cerchio delle indagini stava per chiudersi intorno all’uomo, consigliato dai suoi avvocati, si è costituito, dichiarandosi pentito e per questa ragione è stato “premiato” con i domicialiari…tanto, come dice il proverbio, avrà pensato il Gip di Milano, “chi muore giace, e chi vive di dà pace”. Siamo  noi che non ci diamo pace del fatto che la giustizia sia così male  amministrata in questo Paese, per cui  l’assassino di una giovinetta,  stroncata all’alba della vita,  può tornarsene  a casa dopo poche ore di carcere  e fra qualche mese se la caverà con un paio d’anni, pena sospesa, e il ricordo della giovinetta rimarrà solo nel dolore dei suoi genitori che ogni giorno si domenderanno, finchè avranno vita: perchè!?!?.  Già, perchè a Milano si danno sette anni di carcere a chi avrà pure fatto un brutto mestiere – il magnaccia- ma non ha ucciso nessuno e verso chi uccide si usa tanta magnanimità sotto forma di formale applicazione della legge per cui l’omissione di soccorso non viene considerato reato da carcere? Ci domandiamo: se la giovinetta uccisa fosse stata figlia di quel magistrato  tanto scrupolosamente attento ai diritti dell’assassino, e non alla vita interrotta della giovinetta di 17 anni, quello stesso magistrato si sarebbe comportato allo stesso modo? C’è qualcosa di sbagliato nella giustizia del nostro Paese ma guai a chi lo dice e lo scrive. Noi lo scriviamo perchè lo pensiamo e ne siamo tanto fermamente convinti da considerarla la vera emergenza di questo Paese . g.

ASSOLTO IL GENERALE MORI, ENNESIMA CAPORETTO DELLA PROCURA DI PALERMO

Pubblicato il 17 luglio, 2013 in Giustizia, Politica | Nessun commento »

Crolla il teorema contro Mario Mori, il generale dei carabinieri accusato insieme al colonnello Mauro Obinu di non aver arrestato il boss Bernardo Provenzano nel ‘95, consentendogli così di restare latitante.

Entrambi erano imputati per favoreggiamento aggravato alla mafia, ma sono stati assolti “perché il fatto non costituisce reato”.

I giudici hanno inoltre trasmesso i verbali delle dichiarazioni di Massimo Ciancimino e del colonnello Michele Riccio, i grandi accusatori che di fatto non sono stati considerati attendibili.

Non si arrendono però i pm palermitani Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia. “È una sentenza che non condividiamo e che impugneremo sicuramente”, ha detto Di Matteo. “Siamo amareggiati. Adesso si tratta di capire i punti di vista di chi, come il tribunale, ha analizzato le carte. In tutti i processi si può vincere e si può perdere ma sono importanti le motivazioni”, ha commentato invece il procuratore aggiunto di Palermo Vittorio Teresi, “Bisogna vedere il ragionamento che hanno fatto i giudici per ritenere non credibili Riccio e Ciancimino. Non conosco quale sia questa riflessione. Massimo Ciancimino è un testimone, comunque, che nel processo Stato-mafia non ha la centralità che aveva in questo dibattimento”.

Il processo di primo grado è durato poco più di cinque anni: il 18 giugno 2008 quando il gip accusò Mori, ex capo del Ros ed ex direttore del Servizio segreto civile, e Obinu del mancato blitz di Mezzojuso. Per la Dda di Palermo, infatti, il boss Bernardo Provenzano – già latitante – poteva essere catturato il 31 ottobre 1995: la sua posizione sarebbe stata rivelata dal confidente Luigi Ilardo al cononnello Michele Riccio. Mori e gli altri alti ufficiali del Ros hanno sempre sostenuto però che il colonnello non aveva mai parlato con chiarezza della presenza di Provenzano e che anzi proprio Riccio evitò l’intervento per non mettere in pericolo l’informatore Ilardo. Secondo l’accusa comunque Mori e Obinu hanno evitato ulteriori indagini che avrebbero portato all’arresto nell’anno successivo. Mori, del resto, era già stato processato per favoreggiamento in relazione al caso del covo di Riina, che non venne perquisito per diciotto giorni dopo la cattura del “capo dei capi” avvenuta il 15 gennaio del 1993. Anche in questo caso il generale fu assolto insieme al “capitano Ultimo” nel 2006. Fonte: Il Giornale, 17 luglio 2013

……………….Giustizia è fatta. Per l’ennesima volta le disinvolte tesi della Procura di Palermo sono naufragate miseramente dinanzi alla inconsistenza delle prove e sopratutto dei testi: il mafioso Ciancimino junior e un ufficiale dell’Arma roso da gelosia e desiderio di  vendetta  nei confronti dei suoi commiliotni e del suo comandante,  il generale Mori, assolto dall’accusa infamante di aver aiutato la mafia, lui, un ufficiale che ha servito l’Arma e il Paese con fedeltà e abnegazione per decenni. Non possimao che esere felici, non solo per L’Arma ma anche per i Valori che essa da sempre interpreta e rappresenta: lo Stato, la Nazione, il Popolo. g.

DA CALDEROLI AL KAZAKISTAN: MA QUALI DIRITTI CIVILI, SI TENTA SOLO DI FAR CADERE IL GOVERNO

Pubblicato il 16 luglio, 2013 in Politica, Politica estera | Nessun commento »

Diritti civili? Balle. Della sorte della moglie e del­la­figlia del dissidente kazako Ablyazov non im­porta a nessuno di coloro che in queste ore si stracciano le vesti per la loro espulsione, con rimpatrio, decisa in modo veloce e un po’ ambiguo dalle autorità italiane con il pretesto di documenti falsi. Non fac­ciamo i finti tonti. L’obiettivo della rivolta presunta civile capitanata, guarda caso, da Repubblica , non è la sicurezza di mamma e figlia, alle quali peraltro in Kazakistan nessu­no ha intenzione di torcere un capello e che vivono libere a casa loro. Lo scopo è fare più casino possibile per fare salta­re in aria il nostro governo,quell’asse Letta-Alfano che do­po il caos uscito dalle urne ha sbarrato la strada prima a Ber­sani e poi a Renzi. Fuori dal tempio il Pdl, e poi vada come vada, o per via elettorale o con ribaltoni parlamentari. Si spiega così l’assalto ad Angelino Alfano, ministro dell’In­terno e quindi possibile colpevole di un presunto pastic­cio: dimettiti, ha ordinato ieri il direttore della Repubblica in lacrime per la sorte delle due donne, ma soprattutto ben consapevole che «no Alfano, no governo». Allo scopo si sta piazzando la ben nota artiglieria mediatica e già si chiama in causa Silvio Berlusconi (senza non c’è gusto,allo scanda­lo manca il quid).
Le cose stanno così. In Kazakistan, Paese che trasuda di gas e petrolio, c’è un presidente, Nazarbaev, che in queste ore viene fatto passare per un pericoloso dittatore amico di Berlusconi ma che in realtà, anche se nessuno lo scrive, è stato ed è riverito e ricevuto da tutti i leader del mondo, da Cameron a Barroso, dalla Merkel a Obama, senza che que­sto abbia mai destato scandalo. Un suo ex ministro, Abl­yazov, lo ha tradito ed è in fuga per il mondo inseguito da tre mandati di cattura internazionali per truffe e reati con­tro lo Stato (non solo il suo). In Italia, da qualche giorno, i soliti giornali lo dipingono per quello che non è, un povero oppositore perseguitato politico. Sua moglie e sua figlia cercano, legittimamente, di stargli vicino usando trucchet­ti vari. Di recente si trovavano Italia, probabilmente (lo ac­certeremo) con documenti non regolari. Da qui l’espulsio­ne.
Per questo dovrebbe cadere il governo italiano? Non scherziamo. Sono kazaki loro, non nostri, che ne abbiamo già abbastanza. E non sarà neppure un orango a fare cade­re Calderoli da vicepresidente del Senato. Un Parlamento che ha sopportato lo spergiuro Fini presidente della Came­ra e non ha preteso le dimissioni di tutto il governo Monti per il casino dei nostri marò può farsi intimorire dal diretto­re di Repubblica o dai lamenti moralisti per una battuta? Alessandro Sallusti, Il Giornale, 16 luglio 2013

DIBATTITO SULLA DESTRA: PERCHE’ RIESUMARE AN E’ LA RISPOSTA SBAGLIATA

Pubblicato il 15 luglio, 2013 in Politica | Nessun commento »

La Destra in Italia non ha ancora reciso il cordone ombelicale né con un’ideologia passatista che la vincola all’autoreferenzialità e la condanna all’autoesclusione, né con il sistema partitocratico che l’accomuna a un modello di potere fallito e odiato impedendole di confrontarsi in modo diretto con i problemi reali degli italiani.

È la conclusione a cui sono pervenuto sabato a Orvieto a un incontro promosso da Francesco Storace. A Palazzo dei Capitani del Popolo era come se il tempo si fosse fermato e se non ci si affacciasse alla finestra del vissuto e della quotidianità delle persone che incarnano l’Italia.

Non sono mancati interventi critici che hanno invocato una prospettiva di apertura al Centro e di sano realismo politico (La Russa, Alemanno e Malgieri), ma la lingua veicolare odorava di società chiusa su se stessa dove si rievocano stereotipi e ci si culla nella nostalgia immaginando che il futuro migliore corrisponda al ritorno al passato. Una scelta che per la gran parte degli oratori si traduce nella riesumazione di An, individuandola come l’unica scelta obbligata in parallelo alla decisione di Berlusconi di riesumare Forza Italia, adducendo come valore aggiunto l’attrazione irresistibile del tesoretto della Fondazione, stimato in 500 milioni. Più che un confronto su come risollevare le sorti dell’Italia, è stato un mercanteggiamento su come ricomporre le varie anime del popolo della Destra, relegando in secondo piano la ragione vera per la quale io e altri che non apparteniamo alla Destra avevamo volentieri accettato l’invito di Storace: l’emergenza nazionale legata alla più grave crisi economica, politica e sociale dal dopoguerra.

Lo scenario che abbiamo di fronte mostra due visioni contrapposte: da un lato coloro che promuovono l’ideologia del globalismo e la dittatura finanziaria e multiculturalista, che liquida lo Stato nazionale, mette al centro la moneta, le banche e i mercati, scardina la famiglia naturale e legittima il matrimonio omosessuale, favorisce l’immigrazionismo e l’islamismo; dall’altro chi crede che la persona sia al centro di tutto quale depositaria di valori inalienabili alla vita, alla dignità e alla libertà, che la famiglia naturale sia il fulcro della società e che la comunità locale sia l’ambito ideale dell’organizzazione e dell’amministrazione della collettività, salvaguardando lo Stato come espressione della sovranità e solidarietà di un popolo che condivide storia, benessere e civiltà. Le Europee 2014 metteranno a nudo l’essenza di questi schieramenti: da un lato chi è favorevole alla dittatura europea che eliminerà ogni residua traccia di sovranità italiana nel nome del globalismo e del multiculturalismo, dall’altro chi è favorevole al riscatto della nostra sovranità monetaria, legislativa, giudiziaria e nazionale per salvaguardare la nostra civiltà.

Al centro la questione monetaria. Nell’intervista concessa al Giornale, alla domanda «Qual è secondo lei la causa di tutti i mali?», Berlusconi ha risposto: «I mai sono tanti e antichi. Certo, in questa situazione pesa il fatto che dobbiamo affrontare i nostri problemi usando una moneta che è come se fosse una valuta straniera, visto che non possiamo fare alcuna politica monetaria: questo è il quadro strettissimo in cui ci muoviamo». Allora affrontiamo questa indubbia causa dei nostri mali rivendicando ad alta voce e in modo finanziariamente irreprensibile l’uscita dell’Italia dall’euro. Creiamo il fronte della sovranità monetaria e nazionale facendo convergere l’impegno di tutti i soggetti politici e delle persone di buona volontà nell’obiettivo di salvare gli italiani. Facciamolo con una Costituente che parta dalla certezza dei valori in cui crediamo e della proposta politica. Organizziamo delle primarie che individuino chi darà il volto alla missione che suggerisco di chiamare «Prima gli italiani», nel senso che gli italiani devono venire prima dell’euro, delle banche, dei mercati, dello spread, del debito pubblico, del Pil, degli immigrati e delle moschee. Magdi Cristiano Allam, Il Giornale, 15 luglio 2013

LA BUROCRAZIA ITALIANA, OVVERO LA RAGNATELA DEL NON FARE, di Angelo Panebianco

Pubblicato il 14 luglio, 2013 in Costume, Politica | Nessun commento »

All’apparenza non ci sono spiragli. Il processo di affondamento dell’economia italiana non appare arrestabile. Alberto Alesina e Francesco Giavazzi ( Corriere , 12 luglio) hanno ben riassunto la situazione. Per bloccare il declino occorrerebbe tagliare tasse e spesa pubblica. Invece, la spesa continua a crescere e le tasse pure. La società affonda lentamente, imprigionata in un triangolo della morte ai cui tre lati stanno, rispettivamente, le tasse, già altissime, in aumento, la spesa pubblica in aumento e la burocratizzazione (l’oppressione del corpo sociale mediante soffocanti lacci e lacciuoli regolamentari), anch’essa in aumento. Quest’ultimo aspetto, la burocratizzazione, merita uguale attenzione degli altri due (tasse e ampiezza della spesa pubblica) con cui ha una stretta connessione.

Al centro del triangolo c’è un ragno velenoso, forse immortale, quasi certamente immodificabile: la macchina amministrativa pubblica in tutte le sue ramificazioni, centrali, periferiche, eccetera. Una macchina che, mentre impone le sue regole asfissianti al corpo sociale, blocca (coadiuvata da magistrature amministrative che sono, anch’esse, organi vitali dello stesso ragno) ogni possibilità di rovesciare il trend di espansione della spesa pubblica e delle tasse. Spesa pubblica e tasse che forniscono il nutrimento al ragno.

Guardiamo al terzo lato del triangolo, la burocratizzazione. Tutti protestano da anni, in tutti i comparti sociali, per l’eccesso di burocrazia, nessuno riesce a fare niente per limitarla: a ogni passo che, con grandi sforzi, viene fatto per semplificare, ne seguono dieci che ricomplicano di nuovo tutto. La burocratizzazione crea una ragnatela normativa che, mentre soffoca la società, funziona da rete di protezione contro qualunque velleità di tagliare o razionalizzare la spesa. In ogni settore della vita sociale c’è stata, c’è, continuerà a esserci, una proliferazione continua di norme ingarbugliate che appaiono prive scopo, di razionalità e di logica alle vittime ma che uno scopo ce l’hanno: servono all’autoriproduzione degli apparati burocratici. Si pensi a tutti gli interventi amministrativi in quel ramo che potremmo chiamare «industria della lotta agli abusi».

Ampia parte delle normative da cui siamo torturati è prodotta in nome della lotta contro potenziali abusi. Peccato che ottenga esiti opposti. Perché i furbastri e i maneggioni non sono affatto intimiditi da procedure astruse (anzi, sguazzano meglio quanto più regole e procedure sono complicate). Tutti gli altri invece ne sono oppressi e angariati.

Ad alimentare la burocratizzazione che colpisce e avvolge nelle sue spire imprese, università, professioni, eccetera, ci sono interessi e mentalità. Gli interessi sono tanti. Come ha osservato Mario Deaglio ( La Stampa , 10 luglio), più complesse sono regole e procedure, più contenziosi ci sono e più lavoro c’è per ogni tipo di mediatori professionali (avvocati, commercialisti, eccetera). E ci sono, soprattutto, gli interessi dei burocrati e dei loro uffici che dimostrano così di essere vivi e indispensabili nel ruolo di «controllori» del corpo sociale. Tutto ciò comporta, per le vittime, costi materiali altissimi e un enorme spreco di tempo e di energie. Denaro, tempo e energie distolte dalle altre attività.

Oltre agli interessi, ci sono le mentalità, forgiate da competenze e esperienze. Nessuno ne avrà mai la forza politica ma sarebbe vitale eliminare il predominio dei giuristi nell’amministrazione. Occorrerebbe impedire a chiunque di accedere ai livelli medio-superiori di una qualsivoglia amministrazione pubblica nazionale o locale (e anche delle magistrature amministrative, dal Consiglio di Stato alla Corte dei conti) se dotato solo di una formazione giuridica. Servirebbero invece specialisti addestrati a valutare l’impatto – effetti e costi economici e sociali – di qualunque norma e procedura. Specialisti nel semplificare anziché nel complicare. Meglio se potessero anche vantare lunghi soggiorni di formazione presso altre amministrazioni pubbliche europee e occidentali.
Irrealizzabili fantasie, naturalmente.

La macchina amministrativa è così potente (la sua forza sta nella impersonalità: non c’è una testa che possa essere tagliata) da farsi beffe di qualunque denuncia e di qualunque protesta. La politica (non fa differenza che al governo ci sia Berlusconi oppure Monti oppure Letta) è impotente. Anche ammesso che abbia voglia di provarsi a rimediare, può ben poco contro la forza del ragno. I politici, in realtà, sono un po’ complici e un po’ ostaggi. Per governare (per quel poco che possono governare) hanno bisogno di non inimicarsi l’amministrazione, e soprattutto i suoi vertici. I politici contano, ma meno di quanto pensi il grande pubblico. Funzionano però benissimo come parafulmini. Gli attacchi ai politici di governo per tutto ciò che non riescono a fare non sfiorano nemmeno la macchina amministrativa sottostante, la quale procede, indifferente a tutto e a tutti, con i suoi ritmi, le sue inerzie, le sue opacità, le sue regole interne. L’importante è che nessuno riesca a mettere zeppe capaci di invertire la tendenza della spesa pubblica a crescere (spingendo così sempre più in alto i livelli di tassazione) o a spezzare le catene burocratiche che opprimono la società.

Il sociologo Max Weber, all’inizio del Novecento, pensava alla burocrazia come a una «gabbia d’acciaio» che avrebbe alla fine prodotto la pietrificazione delle società occidentali, ne avrebbe prosciugato ogni energia, ne avrebbe svuotato l’anima. In quei termini, la profezia di Weber non si è ancora realizzata. In Italia, però, i segnali ci sono tutti. Angelo Panebianco, Il Corriere della Sera, 14 luglio 2013

………Dimentica Panebianco un ultimo eclatante esempio della politica che si intreccia con la burocrazia per rinviare le decisioni. E’ quello della nomina di una commisisone di cosiddetti  saggi (burocrati!) incaricati  di un lavoro che spetta alla politica, cioè alla sua espresisone più istituziionalemtne alta, cioè il Parlamento. Invece quest’ultimo, complici governo e partiti, è stato esautorato a favoe dei saggi che intanto che si ascoltano rinviano. E intanto le riforme e il Paese aspettano. g.

L’INSUPERABILE TABU’ ITALIANO: RIDURRE LE SPESE

Pubblicato il 13 luglio, 2013 in Economia, Politica | Nessun commento »

La scorsa settimana Enrico Letta, al termine del vertice europeo, ha comunicato di aver ottenuto un grande successo: maggior flessibilità per i nostri conti pubblici. Poiché il governo Monti – ipotizzando di continuare a far pagare l’Imu a tutti e di aumentare l’Iva a luglio – prevedeva per il 2013 un deficit del 2,9%, maggior flessibilità dovrebbe significare poter oltrepassare, almeno temporaneamente, il limite del 3% imposto dalle regole europee. Altrimenti dove sarebbe la maggior flessibilità? Poche ore dopo il ministro Saccomanni ha spiegato che sarà assai difficile trovare lo spazio per evitare un aumento dell’Iva o per eliminare definitivamente l’Imu sulla prima casa. Non sorprende che tanti cittadini siano confusi e non capiscano che cosa intenda fare il governo.

Proviamo a capire. Se veramente, come sostiene Letta, l’Unione Europea ci avesse concesso più spazio sul deficit, allora potremmo non solo evitare l’aumento dell’Iva e cancellare l’Imu sulla prima casa, ma anche cominciare a ridurre le tasse sul lavoro. Se non lo si può fare significa che quella flessibilità non c’è (come dice Saccomanni), o che il governo pensa di usarla non per ridurre la pressione fiscale, ma per aumentare le spese. Infatti si è subito cominciato a parlare di «investimenti pubblici produttivi». Di tutto l’Italia ha bisogno tranne che di più spesa pubblica. I consumi delle famiglie sono scesi del 6% in due anni (2012-13). Nel medesimo periodo la spesa delle amministrazioni pubbliche al netto degli interessi è salita dal 45% del Prodotto interno lordo al 45,8 (era il 41,4% dieci anni fa). L’Italia ha bisogno di meno tasse sul lavoro per far crescere l’occupazione, e meno tasse sui consumi per far ripartire la domanda. Aumentare la spesa pubblica significa che prima o poi le tasse dovranno crescere ancora di più.

Dall’esperienza dei Paesi europei che negli ultimi tre anni hanno cercato di uscire dalla crisi tagliando il debito e ricominciando a crescere, si impara una lezione molto chiara. L’Irlanda, che ha corretto i conti soprattutto riducendo le spese, ha ricominciato a crescere: la stima per quest’anno è un aumento del prodotto pari all’1,3%. L’Italia invece si è limitata ad aumentare la pressione fiscale senza far nulla per ridurre le spese delle amministrazioni pubbliche, che anzi continuano a crescere. Risultato, non riusciamo ad uscire da una recessione profonda: la stima per quest’anno è un’ulteriore contrazione del reddito pari all’1,9%. Non bisogna quindi sorprendersi se Standard & Poor’s giudichi l’Irlanda, che pure ha un debito elevato quasi quanto il nostro (ma in discesa), più affidabile dell’Italia.

Continuiamo a commettere il medesimo errore: lo fece il governo Monti due anni fa e, se non si tagliano le spese, lo ripeterà Letta oggi. Non siamo capaci di varare un piano credibile di radicale riduzione delle uscite, quindi ci affidiamo all’aumento della pressione fiscale. Le agenzie di rating, e soprattutto i mercati, capiscono che limitandosi ad aumentare le tasse la crisi non si risolve e ci obbligano a fare di più. E la sola cosa che finora i governi hanno saputo fare è stato incrementare ancor più la pressione fiscale, peggiorando la situazione. È un circolo vizioso che sta distruggendo l’economia. Il Corriere della Sera, 13 luglio 2013, Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

……………..A dire il vero Alesina e Giavazzi, sopratutto il secondo, queste osservazioni, sensate, le facevano già all’epoca del governo Monti che ci subissò di tasse senza tagliare una sola spesa. Anzi Giavazzi fu chiamato a far parte di una delle tante commissioni  preposte allo scopo e guidate da Bondi, l’ottantenne che salvò la Parmalat e da allora passa per il salvatore di tutto e da tutto, anche dai terremoti, tant’è che lo hanno mandato anche a Taranto per salvare l’Ilva….Ebbene anche Giavazzi alla fine del govenro Monti non potè iscrivere sul suo curriculum alcunchè di  positicvamente conseguito in materia di riduzione della spesa pubblica  di cui tutti parlano, alternativamente alla sempre dichiarata guerra alla evasione fiscale, e che rimane, la riduzone della spesa pubblica improduttiva,  il grande tabù intoccabile del nostro Paese. Lo ricertificano di nuovo Alesina e Giavazzi dalle colonne autorevoli del Corriere della Sera, le stesse che provocando, secondo taluni,   lo tsunami dell’accelerazione giudiziaria in danno di Belrusocni, contribuisce, di fatto, a creare le condizioni perchè la casta dei politici, in complicità con tutte le altre caste italiane, continui a salvaguardare la intoccabilità delle spesa pubblica, anzi a creare ulteriori spazi di spesa – è di poche ore fa la creazione dell’ennesima e costosissima Autority, quella dei Trasporti-  che deterinano le ragioni di ulteriori salassi fiscali, diretti e indiretti, entrambi in accelerata dirittura di arrivo. Con buona pace di esperti ed economisti, compresi Alesina e Giavazzi. g.

LA GIUDICE CHE E’ UN FULMINE CON BARLUSCONI LASCIA LIBERO UNO STUPRATORE

Pubblicato il 11 luglio, 2013 in Giustizia, Politica | Nessun commento »

Licenziate questa toga: per condannare Berlusconi si è scordata uno stupratore

Il giudice di Milano Alessandra Galli

I tromboni di sinistra, gli italici manettari, i frequentatori assidui dell’antiberlusconismo militante ripetono ai quattro venti che no, non è mica vero che la giustizia si accanisce contro Silvio Berlusconi e che i tempi della pronuncia in Cassazione sul caso Mediaset sono stati affrettati. Secondo l’intellighenzia forcaiola è prassi che un processo sul punto di essere prescritto venga affidato alla sezione feriale della Suprema Corte. Per carità, è vero, può anche essere la prassi. Ma in questo caso è una prassi quantomeno sospetta. E peccato, però, che a distruggere il pensiero di chi sostiene che non ci sia alcuna “doppia velocità” nel sistema-giustizia (solitamente pachidermico, rapido invece quando c’è di mezzo il Cav) ci sia l’emblematico caso della signora Alessandra Galli, della corte d’Appello di Milano. Efficientissima quando di mezzo c’è l’ex premier, lentissima in altri (gravi) casi.

Giudice saetta – La Galli è la toga che ha diretto a piè sospinto il processo d’appello Mediaset contro Berlusconi, e che lo scorso 8 maggio nell’aula della seconda sezione penale lesse il dispositivo della sentenza che confermava in toto la condanna al Cav per frode fiscale (la ricordiamo: quattro anni di carcere e cinque di interdizione dai pubblici uffici). Si tratta della sentenza su cui il prossimo 30 luglio dovrà decidere la Cassazione. Sempre la Galli contribuì a velocizzare il processo spedendo gli ufficiali in ospedale per le celeberrime visite fiscali a Silvio ricoverato per l’uveite; sempre lei rifiutò più volte il rinvio delle udienze per impegni elettorali e – particolare piuttosto significativo – depositò le motivazioni della condanna nel termine minimo previsto dal codice (quindici giorni), un termine che non viene rispettato praticamente mai. Ricordiamo infine come con la medesima solerzia, proprio dalla “sua” Corte d’Appello di Milano, pochi giorni fa sia scattato l’allarme sulla possibile prescrizione di Berlusconi, allarme recepito – via Corriere della Sera – dalla Cassazione.

Stupratore in libertà – Velocissima quando c’è da infilzare il leader del Pdl, dunque, ma come detto immobile quando sul banco degli imputati ci sono altri figuri. Uno stupratore, per esempio. Già, perché il giudice Galli doveva scrivere le motivazioni di un altro processo, meno noto, in cui l’imputato era accusato di stupro. Un dentista drogava le sue pazienti e abusava di loro: fu il figlio a scoprirle le immagini delle sue vittime, raccolte sul computer del dentista violentatore. L’uomo, il 12 luglio del 2012, ha dichiarato il dentista colpevole del reato di violenza sessuale aggravata: sette anni di carcere. E’ passato un anno esatto da quella pronuncia, e lo stupratore è ancora a piede libero. Il motivo? Manca il giudizio in Cassazione. E perché? Perché il processo in Cassazione non si può tenere se le motivazioni della condanna emessa in appello non sono state depositate. E non sono state depositate: né dopo i 15 giorni che sono stati sufficienti per scrivere le motivazioni della condanna del Cav, né nei sessanta o novanta giorni che per il codice di procedura penale sono il limite di ritardo invalicabile. Le motivazioni le doveva scrivere il giudice Galli, celere solo quando c’è di mezzo Berlusconi. Non con gli stupratori. Libero, 12 luglio 2013

…..Ci pare superfluo ogni commento.