A LETTA NON GLIELO HANO DETTO, MA IL GOVERNO CHE PRESIEDE E’ IN AGONIA

Pubblicato il 10 luglio, 2013 in Politica | Nessun commento »

A Letta non glielo hanno detto, ma il governo è in agonia

L’uomo è intelligente e scaltro. Ma ha pure il dovere di allontanare da sé l’amaro calice, finché può. E’ per questo che Enrico Letta, ostinato per contratto si potrebbe dire, prova ad andare avanti come può. Ma lui per primo è consapevole che con il passare dei giorni la vita del suo governo si accorcia.

La sentenza annunciata della Cassazione, mentre si attendeva il ricalcolo della pena – senza nessuna forzatura giuridica naturalmente – fidando, come tutti pacificamente ritenevano, che il processo a Berlusconi si sarebbe concluso  in autunno, getta una luce sinistra sulla sopravvivenza della maggioranza che prima del 30 luglio dovrà decidere che cosa fare. La metà di essa, rappresentata dal Pdl, sta chiedendosi se vale la pena assistere impassibile alla fine politica del suo leader ed accompagnarlo a Sant’Elena, oppure se reagire facendo saltare il banco con tutte le conseguenze possibili e perfino inimmaginabili al momento.

Del resto, si ragiona in queste ore, se il destino del governo è comunque segnato posto che il declassamento ulteriore di Standard & Poor’s, il divieto da parte della Commissione europea e del Fondo monetario internazionale di non toccare l’Iva e di abolire l’Imu, la legge di Stabilità che penalizzerà ancora di più famiglie ed imprese logoreranno la maggioranza fino a consumarla, tanto vale dare un calcio a tutto e poi ognuno, con le mani libere, si assumerà le proprie responsabilità.

Del resto se in Italia vi sono poteri che agiscono al di fuori del contesto emergenziale, non tenendo conto di quella che è la realtà ed invece di recare vasi a Samo, gettano quotidianamente benzina sul fuoco, il minimo che può accadere è ciò che si profila: lo sfascio. La cui drammaticità non sfuggirà a nessuno e della quale probabilmente si avrà piena contezza soltanto quando la situazione raggiungerà il limite estremo e non sarà possibile recuperarla: le elezioni saranno lo sbocco fatale, ad altissimo rischio di incostituzionalità con la legge vigente, che inevitabilmente si trasformeranno in un referendum pro o contro Berlusconi (anche se non dovesse essere candidato) e sulla sovranità nazionale ormai messa sotto i piedi da chiunque ritenga che l’Italia non è degna di far parte del club delle nazioni civili ed avanzate.

Letta fa certamente bene a ribellarsi all’ennesimo declassamento. Ma ormai non bastano più le parole. E’ ora di denunciare queste agenzie di rating che non rappresentano niente e nessuno e semplicemente fregarsene dei loro report come se non esistessero. Sarebbe anche bene se una qualche iniziativa venisse intrapresa a livello internazionale per sapere in nome e per conto di chi agiscono, al di là di ciò che ufficialmente rappresentano. Insomma, chi sono questi signori che giocando con i grafici mettono a dura prova le economie di mezzo mondo su cui gli speculatori poi intervengono come credono?

Per caso (chissà?), in questo contesto, s’innesta un processo di rottura della legalità democratica. Il “caso Berlusconi” è il potente detonatore della crisi del sistema. Possibile che non se ne tenga conto? Ed è possibile che lo stesso Pdl, al di là delle dichiarazioni di circostanza, non reagisca come dovrebbe? Può darsi che la misura sia questa volta davvero colma. E il governo, dunque, si abitui all’idea che i suoi  giorni sono contati. Gennaro Malgieri, Il Secolo d’Italia, 11 luglio 2013

BANDITI DI STATO, di Alessandro Sallusti

Pubblicato il 10 luglio, 2013 in Il territorio | Nessun commento »

Quella che vedete qui a sotto  è la storia in numeri della più grande persecuzione giudiziaria mai messa in atto al mondo contro un singolo uomo.

Nonostante siano numeri da fare paura e indegni di un paese civile, l’uomo, Silvio Berlusconi, ha resistito pur pagando prezzi politici, economici e personali rilevanti. Ciò non può essere solo frutto, come sostengono a sinistra, di sotterfugi e presunte leggi ad personam. Detto che sarebbe peraltro legittimo rispondere ad accanimento giudiziario con accanimento difensivo, è che evidentemente non una delle centinaia di accuse rivoltegli contro era fondata. Nessun criminale può farla franca se beccato in castagna. E allora ecco gli intrighi, le furberie per arrivare, dopo 18 anni, alla prima condanna (processo diritti Mediaset, sei anni con sospensione dell’agibilità politica).

Un passo indietro. Tutto iniziò nel 1994 con un avviso di garanzia (poi dimostratosi infondato) consegnato a mezzo stampa dal Corriere della Sera durante il G8 che si teneva a Napoli. E tutto potrebbe finire con l’intimazione fatta ieri dallo stesso Corriere della Sera alla Corte di cassazione di anticipare il verdetto finale sul caso diritti Mediaset. Già, perché rispettando tempi e procedure la sentenza sarebbe dovuta arrivare a settembre, fuori tempo massimo (non vi annoio con i tecnicismi) per provocare effetti definitivi sulla vita personale e politica di Berlusconi. E che fa la Corte? Ubbidisce al Corriere, organo della procura di Milano oltre che di quei tre o quattro poteri che ancora contano nel Paese (Fiat, Mediobanca, Banca Intesa) e a sorpresa anticipa (cosa senza precedenti) la sentenza al 30 luglio. In caso di conferma di condanna, dal 1° agosto Silvio Berlusconi sarà agli arresti e perderà i diritti politici, compresa la carica di senatore.

Accanimento con trucco, in combutta con giornali, banche e aziende che da sempre vanno a braccetto con la sinistra. Questo è quello che sta succedendo e questo a casa mia si chiama banditismo, una trattativa tra Stato (i magistrati) e privati molto più grave di quella tra Stato e mafia già nota alle cronache. Forse non è un caso che i due litiganti per il controllo del Corriere, Fiat e Della Valle, nelle ultime ore siano stati molto attivi, con pratiche inusuali, nei confronti di Napolitano, altro arbitro sulla cui imparzialità i dubbi sono sempre maggiori.

Non è più tempo delle parole, dei distinguo e delle cautele. Dei banditi stanno per sparare non solo al presidente Berlusconi ma a tutto il Pdl per impadronirsi di ciò che resta del Paese. Che facciamo, stiamo a guardare? Spero di no. Chi se ne frega della sorte di questo governo. Meglio lottare dall’opposizione che farsi spegnere in maggioranza. Alessandro Sallusti

…………………..Chissà cosa ne pensano i tanti peones che si ritrovano in parlamento, nelle regioni, nelle provincie, nei comuni,  solo grazie a Berlusconi e al suio carisma. Chissà se hanno voglia di andare all’opposizione e prima di andarci imparare a farla, e prima ancora imparare a soffrire le pene della opposizione che spesso significa vessazione, persecuzione, discriminazione. Francamente ne conosciamo pochi di quelli che attaccati al carro di Berlusconi hano fatto carriera,   che sarebbero in grado di passare dall’0altra parte della barricata. E’ più facile che ora gridino ma che quando si sarà consumato sino in fondo la vicenda personale di Berlusconi si arrangeranno per trovare il modo di riconvertirsi, redimendosi e ritrovandosi abtriebrlusconiani ante lietteram. Non è la prima volta che accade. La storia è piena di “ridenti” e di miracolati, dal post fascismo al postprimarepubblica, solo per ricordare due eventi  cronologicamente vicini a noi a seguito dei quali le metamorfosi politiche, anzi, diaimo meglio,  i cambi di casacca sono stati più numerosi delle stelle del firmamento. g.

ECCO L’ASSALTO GIUDIZIARIO A BERLUSCONI

Pubblicato il 10 luglio, 2013 in Giustizia, Politica | Nessun commento »

Persecuzione giudiziaria del Cav

DIBATTITO SUL CENTRODESTRA: ESISTE O NO?

Pubblicato il 8 luglio, 2013 in Politica | Nessun commento »

Un affezionato visitatore ci ha inviato un articolo di Claudio Cerasa, giornalista del Foglio di Ferrara, dal titolo provocatorio: il centrodestra non esiste. Nell’articolo Cerasa spiega perchè, a suo parere,  il centrodestra, almeno quello che oggi si identifica nel PDL, non esista e non lesina critiche al PDL, e sopratutto alla classe dirigente, non nascondendo di considerare Berlusconi il responsabile della situazione in cui versa il PDL e l’intero centrodestra. Pur condividendo molte delle considerazioni dell’articolista e molte delle critiche – in primo luogo quella che riguarda la classe dirigente spesso incolore e di poco spessore politico- nutriamo la speranza (che come è noto è l’ultima a morire) che il centrodestra sappia trovare in se la forza e la vitalità necessarie per uscire dall’attuale stato di incertezza che senza alcun infingimento riconosciamo essere vero. Ma non irreversibile. Così come ci chiede il nostro visitatore pubblichiamo l’articolo anche come stimolo ad un dibattito sul titolo dell’articolo che abbiamo trasformato in domanda: il centro destra esiste o no?

Al netto dell’eterno effetto doping Berlusconi, il Pdl, Forza Italia, o come si chiamerà, non è un progetto politico. Né tantomeno liberale.

Il centrodestra non esiste

Roma – A due mesi dalla nascita del governo Letta, e a poco più di tre mesi dalle ultime elezioni, si può dire con una buona dose di razionalità che il centrodestra italiano è una realtà politica che, con rispetto parlando, vive all’interno di una nuvola che riesce a non perdere quota solo grazie a uno stupefacente di nome Berlusconi. La diciamo grossa ma almeno così attiriamo la vostra attenzione e siamo certi che ci seguirete nel ragionamento.
Mettiamola così: i sedicenti liberali italiani, quelli che prima si sono ritrovati sotto le bandiere di Forza Italia, che poi sono passati sotto le bandiere del Pdl e che ora stanno tornando sotto le bandiere di Forza Italia, vivono da vent’anni sotto l’effetto del doping berlusconiano. Senza il doping, come si è visto alle ultime elezioni comunali, il centrodestra non esiste. Con il doping, come si è visto alle ultime politiche, il centrodestra riesce ancora a rimanere in gara ma solo perché il suo avversario ha passato tre mesi a darsi allegre e spensierate bottigliate in mezzo alle gambe (a meno che non siete tra quelli che credono davvero alla favola della straordinaria rimonta del Pdl alle ultime elezioni…).

Oggi però, vuoi per questioni anagrafiche vuoi per questioni di carattere giudiziario, l’eterna e irrisolta questione del che succede se il centrodestra dovesse improvvisamente ritrovarsi priva del suo capo, e dunque del suo doping, esiste più di prima, esiste ogni giorno di più, ed esiste, e preoccupa, perché, molto semplicemente, il Pdl senza Berlusconi non c’è: non c’è un progetto culturale credibile, non c’è un leader futuro plausibile, non c’è una struttura autonoma, non c’è una classe dirigente in grado di poter correre con le proprie gambe, non c’è un percorso tracciato da seguire, insomma, niente, il centrodestra non esiste, è sparito, puf. In questo deprimente quadro clinico, e per certi versi comico, pesa il fallimento del sogno liberale che ha permesso al centrodestra di crescere a metà degli anni novanta. Ma pesa ancora di più il modo in cui la corte di Berlusconi non è riuscita a  sottrarsi alla stessa patologia che negli anni ha colpito il centrosinistra: costruire la propria identità non attraverso la declinazione di proprie policy ma attraverso la pura e semplice e pigra contrapposizione a un altro progetto politico.

E qui arriviamo al secondo doping di cui ha usufruito in questi anni il centrodestra, doping gentilmente concesso dagli amici del centrosinistra. In nome della vecchia teoria della divisione degli elettori in grandi compartimenti stagni, non comunicanti gli uni con gli altri, il centrosinistra da anni evita con cura di “rubare temi” agli avversari, e così facendo, rivolgendosi dunque solo al proprio elettorato, ha regalato continuamente praterie politiche agli avversari, dando dunque così la possibilità al centrodestra di poter trasformare il proprio “no” (no alle patrimoniali, no a nuove tasse, no alla sinistra che vuol far piangere i ricchi”, “no a una sinistra che vuole spendere e spandere”) in un preciso progetto politico. Oggi questa rendita di posizione di cui ha goduto per anni il centrodestra comincia a perdere consistenza (complice il salutare scontro tra leader nel Pd), e il popolo della libertà, o come diavolo si chiamerà, deve dunque necessariamente trovare qualcuno che rileggitimi il centrodestra deleggittimando chi questo centrodestra lo ha portato alla situazione di oggi. A Berlusconi dunque serve una nuova corte dei miracoli, che riesca nell’impresa di creare attorno al suo leader un nuovo progetto, una nuova squadra. Pensare di riconquistare una parte del paese dicendo no imu, no iva, no comunisti, no Vendola è un insulto ai propri elettori.

Al centrodestra occorre una cura da cavallo per cominciare a correre senza doping. Servono nuovi leader, servono nuovi imprenditori, servono nuovi strumenti, nuovi centri studi, nuovi creativi, nuovi spin doctor (magari non quelli di Monti) nuove idee, nuove storie da raccontare, nuove strategie per rubare temi al Centrosinistra e per fare concorrenza già da oggi al prossimo probabile candidato premier del Pd, ovvero Matteo Renzi. O si fa così oppure, molto semplicemente, il popolo di Berlusconi prima o poi si ritroverà in overdose da doping, e regalerà il paese a Vendola e Fassina. Ne vale la pena? Claudio Cerasa, il Foglio.

ITALIA: ESAME DI MATURITA’

Pubblicato il 8 luglio, 2013 in Costume, Politica | Nessun commento »

La crisi italiana non è soltanto di competitività e di liquidità. È anche una crisi di fiducia. Il governo può e deve prendere misure per sostenere le imprese e favorire l’accesso al credito; ma la fiducia non può essere restituita per decreto.
Fa bene il capo dello Stato a richiamare l’attenzione sul «Paese che non si ripiega su se stesso», e sulle opportunità che lo attendono. Come ha detto Giorgio Napolitano, c’è un’Italia che resiste alla crisi e non si arrende all’idea che il futuro coincida con il destino; e c’è un mondo che guarda all’Italia come alla patria della creatività e della cultura, delle cose buone e delle cose belle. Il mondo globale è un fattore di crisi, perché il lavoro viene esportato, con la delocalizzazione, e importato, con l’immigrazione. Ma il mondo globale è anche una grande chance per il Paese dell’artigianato di qualità, della manifattura di pregio, del design, dell’arte, che non ha motivo di sottovalutarsi e deve spezzare la cappa di autolesionismo.

Per il suo richiamo alla coesione e alla fiducia, il presidente della Repubblica non poteva scegliere una circostanza più adatta del lancio dell’Expo 2015 – voluto da governi di ogni colore – e un luogo più indicato di Monza, alle porte di Milano. Per quanto tempo si sia perduto, l’Expo può ancora essere un grande successo. Intanto perché verte sul cibo – un settore di punta per il nostro export – e sullo sviluppo sostenibile, il che chiamerà in causa il volontariato, il no profit, le energie sociali e anche il ruolo della Chiesa cattolica, rigenerata dall’avvento di Papa Francesco. E perché l’Expo sarà per l’Italia una vetrina affacciata sul mondo di domani, sulla Cina, sull’India, sul Brasile, sull’Africa, sul nuovo Medio Oriente che uscirà da una travagliata stagione. Questa vetrina non poteva che essere a Milano, una metropoli che porta la vocazione alla centralità nel suo stesso nome: Mediolanum, la città che sta in mezzo. Finanza, editoria, design, moda, lirica, calcio, ospedali d’avanguardia, università d’eccellenza: Milano ha radici solide, come il Paese che rappresenterà nel 2015. L’importante è che l’Italia sappia ritrovare se stessa.

Molto dipende anche dal governo Letta. Un governo che non era nei desideri di nessuno, ma è l’unico possibile. Il Paese non reggerebbe all’ennesima legislatura perduta: le misure per rilanciare l’economia, le riforme per rendere la politica più efficiente e meno costosa, il semestre di presidenza Ue sono prove da non fallire. Enrico Letta sta confermando la sua competenza e la sua preparazione, ma deve andare oltre. Non si pretende da lui il carisma, che per le larghe intese sarebbe più di ostacolo che di aiuto. Guidare un governo però richiede comunque capacità di leadership. Un premier può essere tecnicamente bravissimo, ma se non «sente» il Paese, se non lo ascolta e non lo interpreta, se non va nelle aziende e nelle scuole, se si lascia trascinare dal gorgo dell’agenda istituzionale, non riuscirà a restaurare la fiducia che oggi manca. Napolitano chiede giustamente stabilità. E la stabilità dei governi dipende anche dalla loro capacità di entrare in sintonia con un Paese che mantiene fondamenta salde, ma ha bisogno di essere rinfrancato sulle proprie capacità di ripresa.Aldo Cazzullo, Il Corriere della Sera, 8 luglio 2013

LA PARALISI DEL FORMALISMO

Pubblicato il 7 luglio, 2013 in Politica | Nessun commento »

I giudici della Consulta i quali l’altro giorno hanno decretato che in pratica le Province possono essere abolite solo previa modifica della Costituzione, e non con un decreto legge del governo, quei giudici forse non lo sanno: ma essi hanno dato un contributo decisivo perché gli italiani si confermino ulteriormente in un giudizio ormai divenuto senso comune: «In Italia non è possibile cambiare nulla, non si può fare nulla. Siamo condannati alla paralisi».

Un giudizio che si ascolta sempre più spesso anche da chi fino a ieri non si stancava di sperare nella buona volontà e capacità dei ministri, del Parlamento, di qualcuno insomma, di riformare, di semplificare, abolire, qualcosa; di avviare il Paese su strade nuove. E invece no, in Italia non si può. Perché di fatto in Italia un vero potere di decisione non esiste. O meglio: sulla carta si può decidere qualunque cosa, dare vita a qualunque novità. Ma sulla carta: perché poi ogni decisione immancabilmente si arena, ogni novità si blocca, in attesa di un regolamento, di un parere, di una tabella tecnica, della riunione di un comitato, ma sopra ogni cosa in attesa del fatidico « esito del ricorso », suprema spada di Damocle perennemente agitata e perennemente sospesa su ogni atto della Repubblica.

In Italia il potere di chi governa sembra così risolversi, alla fine, quasi soltanto in un semplice potere di proposta. La quale diventa un comando effettivo ma solo se ottiene il placet successivo da parte del combinato disposto di alta burocrazia, codici, Costituzione e magistrature varie. Un insieme di forche caudine disposte ovviamente con le migliori intenzioni che però sortiscono pressoché regolarmente un solo risultato: in un modo o nell’altro quello di svuotare, attenuare, cancellare, il provvedimento di cui si tratta.

Conosco l’obiezione: «C’è poco da fare, è lo Stato di diritto. Nulla si può contro la legge. E se la legge prevede procedure, eccezioni, ricorsi, bisogna rassegnarsi». Certo. Ma è legittimo porsi almeno due domande: perché nessuno pensa – o, se ci pensa, riesce mai – a cambiare davvero le leggi e ancora oggi sembra che cambiare alcune parti della Costituzione equivalga alla fine del mondo? E ancora: perché nell’interpretazione di quelle esistenti sembra prevalere in così tanti casi il cavillo, la capziosità da leguleio, e quasi mai invece la sostanza delle cose e l’interesse collettivo? Il sospetto è facile ma inevitabile: perché è precisamente in questo modo che non solo possono sperare di avere la meglio tutti gli interessi particolari (lobby, corporazioni, potentati economici) abitualmente difesi da agguerritissimi studi legali o da influenti reti di relazioni, ma perché così difendono il loro ruolo e il loro decisivo potere d’interdizione coloro che occupano i gangli dell’alta burocrazia nonché della struttura giudiziaria (troppo spesso collegati anche per via di parentela o di assunzioni di familiari con gli interessi particolari di cui sopra).

La nostra democrazia è in una crisi profonda anche per questo: perché da troppo tempo al potere legittimo espresso dal Parlamento e dal governo – cui solo spetta di decidere in quanto espressione della volontà dei cittadini – si è sovrapposto di fatto un potere di veto, oligarchico e autoreferenziale, di natura castale. L’immobilismo di cui sta morendo l’Italia è il frutto avvelenato della scarsa funzionalità del potere democratico di decidere , cioè del potere della politica, e, viceversa, dell’eccessivo potere di veto delle oligarchie giuridico-amministrative. Ernesto Galli della Loggia, Il Corriere della Sera, 7 luglio 2013

…..Con tutto il rispetto per Galli della Loggia, che leggiamo sempre con piacere, ci sembra che abbia scpetrto l’acqua calda o, se si preferisce, abbia finito col dare ragione, tangta!, a Silvio Berlusconi che queste cose le dice da anni.

STOP ACCATTONI E BARBONI, MESSA CON IL BUTTAFUORI (COME PER LE DISCOTECHE….)

Pubblicato il 7 luglio, 2013 in Costume | Nessun commento »

Stop accattoni, messa con il buttafuori(ANSA) – VENEZIA, 7 LUG – Non uno ma addirittura due ‘buttafuori’ si sono alternati oggi davanti al Duomo di San Lorenzo, a Mestre, per evitare che i barboni e i mendicanti si presentassero durante le funzioni a molestare i fedeli chiedendo l’obolo. L’iniziativa di filtrare l’accesso è piaciuta ai parrocchiani, molti dei quali hanno espresso a mons. Fausto Bonini, fermo davanti al portone di ingresso, il loro appoggio.

Una sola eccezione: un uomo è entrato in chiesa e ha apostrofato il parroco gridando “razzista”.

……………..e Papa Francesco predica invano!

LE SENATRICI DEL PD CONTRO LE DONNE:VIETARE LA PUBBLICITA’ CON LE BELLE RAGAZZE

Pubblicato il 6 luglio, 2013 in Costume, Politica | Nessun commento »

Il Partito democratico  vuol proibire la gnocca

Vietata Belen in ogni sua apparizione. Oscurata Uma Thurman che si beve un’acqua tonica. Bruciata come una strega ogni immagine di Letitia Casta che reclamizzava un profumo di due stilisti italiani. Seppellito sotto colate di cemento lo spot di una marca di jeans girato da una sensualissima Megan Fox. Tremate, tremate, perché le cacce alle streghe sono tornate. A volere scatenare la nuova Inquisizione e fare  roteare come negli anni ‘50 le forbici della censura è un nutrito gruppo di senatrici del Partito democratico. Un drappello guidato da Silvana Amati, e con subito a ruota Manuela Granaiola, Daniela Valentini e il vicepresidente di palazzo Madama, Valeria Fedeli, che ha appena firmato un disegno di legge già incardinato dal titolo «Misure in materia di contrasto alla discriminazione della donna nelle pubblicità e nei media». Il titolo sembra generico, ma il contenuto non lo è affatto. L’obiettivo infatti è quello di vietare con pesanti sanzioni (fino a 5 milioni di euro) l’utilizzo del corpo della donna nella pubblicità televisiva o stampata (giornali e manifesti).

Siccome tutte e quattro le prime firmatarie avevano venti anni nel 1968, erano di sinistra e in prima linea a sventolare la bandiera della rivoluzione sessuale, per fare tornare l’Inquisizione nel secondo millennio provano a scegliere le parole adeguate. La sostanza è quella del rogo per tutte le pubblicità che utilizzano il corpo della donna. Ma certo scagliarsi contro «immagini che trasmettono, non solo esplicitamente, ma anche in maniera allusiva, simbolica, camuffata, subdola e subliminale, messaggi che suggeriscono, incitano o non combattono il ricorso alla violenza esplicita o velata, alla discriminazione, alla sottovalutazione, alla ridicolizzazione, all’offesa delle donne», è modo assai più elegante e consono ai tempi per accendere il fiammifero sotto quel cumulo di manifesti e celluloide.

Una Belen o una Uma Thurman sensuale in uno spot devono rassegnarsi al rogo perché «stereotipi di genere», che «restringono dunque il margine di manovra e le opportunità di vita di donne e ragazze, ma anche di uomini e ragazzi». Come avrebbe detto negli anni Cinquanta un Oscar Luigi Scalfaro pronto a coprire la balconata abbondante di una matrona in un ristorante romano, «pubblicità e media presentano il corpo femminile come mero oggetto sessuale, esistente per l’uso e per il piacere altrui». Così – dicono le Inquisitrici del Pd, «nelle adolescenti, nelle donne giovani», diventa epidemia «un’ossessiva attenzione al corpo che provoca manifestazioni di ansia e aumento di emozioni negative, riduce la consapevolezza dei propri stati interni». Di più – perché le inquisitrici Pd hanno a cuore soprattutto la salute – vedere una Belen con farfallina evidente «provoca anche conseguenze molto serie sul benessere psico-fisico delle persone che la subiscono: è infatti correlata a un aumento dei disturbi depressivi, delle disfunzioni sessuali, dei disordini alimentari».

È dunque Belen-pandemia, e di fronte ad emergenze di questo tipo le senatrici Pd sono pronte a trasformarsi in crocerossine e perfino in poliziotte della buon costume. A un solo grido: «oscurare, anzi vietare la gnocca». Si preparino i pubblicitari, perché la controriforma è pronta, e naturalmente l’oscuramento di gnocca ce lo chiede «l’Europa», pronta a metterci in mora se tergiversiamo ancora. Ecco la soluzione: «Inserire al codice delle pari opportunità un articolo 1 bis che disciplina il divieto di utilizzare l’immagine della donna in modo vessatorio o discriminatorio ai fini pubblicitari». Chi farà rispettare quel divieto? «Il ministro delle Pari opportunità, anche su denuncia del pubblico, di associazioni e di organizzazioni, nonché di ogni altra pubblica amministrazione che vi abbia interesse in relazione ai propri compiti istituzionali». Ad applicare le sanzioni ci penserà una apposita sezione-commissione «per il contrasto alla discriminazione della donna nella pubblicità e nei media», istituita all’interno della Autorità garante della concorrenza e del mercato, che avrà perfino poteri di censura preventiva. La commissione apporrà «un apposito bollino» a «certificare la conformità del messaggio pubblicitario a criteri di qualità e finalità socio-educative per linguaggio, immagini e rappresentazioni, in linea con i criteri di tutela della donna stabiliti dalla presente legge». Sarà quindi vietata «la trasmissione sui circuiti televisivi pubblici e privati sul territorio nazionale di pubblicità o messaggi pubblicitari che non hanno ottenuto il bollino di cui sopra». Oltre all’antitrust, anche i comuni potranno brandire la scimitarra della nuova inquisizione, «inibendo a monte l’affissione di pubblicità sessiste o discriminatorie, lesive della dignità delle donne». I manifesti delle varie Belen dovranno essere «coperti con una scritta adesiva, ben visibile, che recita: SANZIONATO».  Gli operatori pubblicitari che non rispetteranno i divieti di spot e manifesti saranno puniti «con l’arresto fino a tre mesi e con l’ammenda fino a 5 milioni di euro. Franco Bechis, Libero, 6 luglio 2012

…..A quando l’obbligo per le donne di indossare il burqa e il velo? Forse siamo alla regola del contrappasso come suggerisce Bechis quando richiama il 68 e lo slogan femminista del 2corpo è mio e me lo gestisco io”.  Forse, più verosimilmente, si tratta solo di una “vendetta” di donne -  magari brutte – contro donne belle che senza fare mercimonuio del loro corpo lo usano per pubblicizzare ciò che non può esserlo dagli uomini. Non meraviglia però che questo ridicolo e anche grottesco tentativo di ritorno al medioevo sia opera delle donne di sinistra: come diceva Prezzolini nessuno sa essere più conservatore dei falsi progressisti. Anche nel culto della bellezza. g.

LA SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE DI IERI: PROVINCIE “SALVE” E ITALIA PARALIZZATA

Pubblicato il 4 luglio, 2013 in Giustizia, Politica | Nessun commento »

La conferenza stampa dei ministri del governo Monti, Cancellieri e Patroni Griffi, sul riordino delle province: era il 31 ottobre 2012

Ne siamo certi: la Corte costituzionale avrà avuto le sue buone ragioni. Non per nulla molti davano per scontata la bocciatura sia della riforma delle Province contenuta nel decreto salva Italia, sia del successivo più morbido tentativo di riordino con l’accorpamento di alcuni enti. La Consulta ha ritenuto illegittimo il ricorso al decreto legge per interventi di tale portata, visto che quello strumento dovrebbe essere limitato ai casi di straordinaria necessità e urgenza.

Per avere una più completa conoscenza delle motivazioni bisognerà aspettare il deposito della sentenza. Certo, una riforma come l’abolizione delle Province, che doveva essere fatta più di 40 anni fa contestualmente alla nascita delle Regioni, non poteva essere ritenuta tanto impellente da giustificare un decreto. Anche se forse sarebbe il caso di ricordare il contesto in cui il decreto salva Italia vide la luce. C’era appunto, da salvare il Paese che in quel momento si trovava in una situazione così difficile da dover affidare il proprio destino a un governo tecnico, con la necessità di prendere nel giro di poche ore provvedimenti in grado di placare i mercati resi pazzi dalle furiose spallate della speculazione internazionale. Di più. Rimettere in carreggiata l’Italia era un passaggio cruciale per la sopravvivenza stessa della moneta unica, tanto erano drammatici i toni della lettera che il 5 agosto del 2011 arrivò all’Italia dalla Banca centrale europea.

Con suggerimenti di misure durissime da adottare immediatamente, e fra queste si citava proprio l’abolizione delle Province, sempre promessa da tutti i partiti ma mai realizzata. Alla luce dei fatti, quella riforma poteva essere o meno considerata urgente? Al di là del merito, comunque, la sentenza della Corte costituzionale conferma se ce ne fosse stato ancora il bisogno che l’Italia è un Paese in preda a una totale paralisi. Non c’è decisione che non corra il rischio di finire sotto la tagliola della Consulta, del Tar o del Consiglio di Stato. Può capitare indifferentemente alla riforma delle Province, come alla vendita di un immobile dell’Inps, o alla costruzione di un elettrodotto, oppure alla delibera di un’authority, quando non al licenziamento di un dipendente pubblico corrotto.

È successo perfino al taglio del 10 per cento degli stipendi dei magistrati, cassato dalla suprema Corte perché ledeva l’indipendenza dei giudici, Colpa di una legge scritta male, di una sciatteria burocratica, di un errore formale. Talvolta addirittura di una fantasiosa interpretazione delle norme. Una giustificazione c’è sempre. Fatto sta che non abbiamo più alcuna certezza: inutile lamentarsi del tempo biblico per fare un’opera pubblica, degli anni che necessari a risolvere un contenzioso, degli investimenti esteri sempre più impalpabili. Così non si va da nessuna parte. Ed è bene esserne tutti coscienti, giudici compresi. Sergio Rizzo, Il Corriere della Sera, 4 luglio 2013

………………Se non ci fosse la “firma” di Sergio Rizzo, autorevole fustigatore della “casta” e dei suoi privilegi insieme a GianAntonio Stella, questo commento alla sentenza di ieri della Consulta che ha di fatto annullato ogni intervento normativo sulle Provincie emanati dal Governo tra il 2011 e il 2012, potrebbe essere “”attribuito” a Berlusconi o qualche suo incaricato. E’ Berlusconi che da sempre denuncia le tante decisioni della Consulta che bloccano, annullandola,  l’attività dei governi e  del Parlamento, è Berlusconi che da sempre invoca una radicale riforma dei poteri di un organo che lungi dall’essere “tecnico” e quindi imparziale è sempre più “politico” quindi,  se non fazioso,  certamente di parte.  Ma Berlusconi è rimasto inascoltato in nome di una presunta e certa “autorevolezza” dell’organo di controllo della legittimità della Repubblica; ora che mettere in dubbio sia pure con molta cautela questa presunta e non cereta autorevolezza è un giornalista di sicura fede non berlusconiana qualcuno, lassù, in alto, sul Colle più alto che più alto non si può, prenderà atto di tale realtà e autorizzerà – proprio così: autorizzerà!- una non più rinviabile riforma costituzionale del sistema dei pesi e dei contrappesi, insieme all’altra riforma ormai ineludibile, quella della giustizia? Vedremo. g.

IL CASO SANTANCHE’: CHI PUO’ RILASCIARE LA PATENTE DI PRESENTABILE?

Pubblicato il 2 luglio, 2013 in Politica | Nessun commento »

Non si è ancora capito quale sia il peccato di Daniela Santanchè. La deriva bacchettona del Pd sta ormai arrivando al non senso.

Rosi Bindi all’ingresso dell’assemblea nazionale del P

E la questione del vicepresidente della Camera è lo specchio di un partito con il vizio di attribuire patenti morali, come se fosse una chiesa. È una sorta di talebanismo laico che come Bibbia o Corano usa le simpatie di Repubblica. È la storia che si ripete: il Pd che decide che qualcuno non è presentabile. Quello che si fatica a capire è perché. Visto che non ci sono motivi giudiziari alla fine tocca arrampicarsi sugli specchi. È antipatia? È troppo berlusconismo? È eccesso di presenzialismo in tv? È ostinazione nel difendere le proprie idee? È essere una donna con i tacchi? O essere una donna con le palle? Capite che queste obiezioni non reggono. È partigianeria? È rispondere a tono alle critiche? Tutti presunti difetti che non hanno impedito a Rosy Bindi di occupare la stessa poltrona. La pasionaria bianca avrà molte pecche ma nessuno ha mai considerato il suo ruolo da vicepresidente una bestemmia. La Santanchè è una tifosa? La Bindi peggio. Alla sinistra sta antipatica? Bene. A destra molta gente trova urticante la signora Boldrini, ma non è una buona ragione per battezzarla come impresentabile. Non è obbligatorio votarla. Nessun problema. Quello che però sta diventando il sintomo di una malattia è il vizio di mettere etichette. A quanto pare nel Pd e dintorni non riescono a farne a meno. Stanno arrivando al paradosso che, siccome non va bene a loro, una persona diventa eticamente inferiore, una da bannare, da marchiare, da distruggere. Il meccanismo è sempre lo stesso. È un coro che diventa infamia. È far passare una considerazione soggettiva come verità assoluta, senza dare spiegazioni. È colpire con un anatema gli avversari politici più fastidiosi o, semplicemente, meno disponibili ad abbassare la testa. Il Pd perdona solo chi sta a destra con un po’ di vergogna, con il senso di colpa, per sventura. Se uno mostra tutto l’orgoglio berlusconiano va allora punito. Va raccontato come impresentabile. Anche nel Pdl ci sono parlamentari che non si amano tra di loro, o che non amano i candidati alle varie poltrone. È una questione di concorrenza politica interna. Ci sta. Non è un bene del partito, ma almeno c’è una ratio.

La questione della vicepresidenza a Montecitorio, capite, non è più politica. Non è un problema di moderazione o di larghe intese. È qualcosa di più meschino. È la demonizzazione dell’avversario scomodo. È un gruppo di sacerdoti livorosi che si arroga il diritto di scomunicare chi con troppo orgoglio difende la propria diversità. È il peccato di berlusconismo aggravato. Ma fino a che punto si può governare con politici figli di questa cultura intollerante? Come si può governare con gente che fa le larghe intese per il bene comune ma poi disprezza i suoi partner di governo? È arrivato il momento per il Pd di fare scelte non ipocrite. Adesso hanno deciso di votare scheda bianca. Ed è un’altra vigliaccheria pilatesca. Se non vogliono governare con il Pdl facciano cadere il governo Letta. È più onesto. È più dignitoso. È più chiaro. Salvatore Tramontano, Il Giornale, 2 luglio 2013

……Siamo d’accordo. Ma il problema, comunque, resta. Ed è antico. La pretesa, oggi del PD, ieri del PCI e di tutti i suoi numerosi derivati, di “rilasciare” patenti,  ieri di legalità democratica, pardon antifascista, e quindi di legittimità politica, oggi di  agibilità politica, pardon, antiberlusconiana, è una componente di sempre del modo di fare dei comunisti e di tutti i loro “derivati”, rimasto immutato dopo la rovinosa caduta del “muro” e della dimostrata fallacità del sistema marxista, in tutte le sue sfaccettature e rimasto immutato anche dopo  la dimostrata immoralità di tanti esponenti comunisti per cui è venuta meno la cosiddetta e tanto vantata superiorità morale dei comunisti, post comnunisti e acomunisti di ogni genere e specie. Ora è il momento di Daniela Santanchè. Nei cui confronti si è sbizzarita il variopinto caravanserraglio dei tanti “migliori” o aspiranti tali, da tal Civati alla Sarracchiani che da qualche lustro passa il tempo ad emettere sentenze e giudizi, dall’alto di una non ancora dimostrata superiorità, intellettuale prima ancora che morale, non solo nei confronti della Santanchè, ma di chiunque altro stia “dall’altra parte” del cielo. Ciò è la dimostrazione, se pure ve ne fosse bisogno, che la pacificazione, quella in nome della quale è nato il governo delle larghe intese, che è in fondo il seguito di quello gestito da Monti e sostenuto anch’esso da PDL e PD, è ben lontana dall’essersi realizzata, nache perchè, come è nel costume dei seguaci di Lenin e di Stalin, essa in verità  è solo uno strumento cinicamente utilizzato per raggiungere i propri fini, che sono esattamente il contrario della “pacificazione”  che per esser tale dovrebbe, anzi,  deve fondarsi sul rispetto reciproco. Ma questo è un vsalore che davvero non appartiene nè mai apparterrà a quelli che della gogna per gli avversari hanno fatto da sempre la loro bandiera. g.