Auletta della Commissione di vigilanza Rai, al secondo piano di Palazzo San Macuto alle due del pomeriggio. Le agenzie di stampa hanno informato da poco il Paese e il Palazzo del cambio di cavallo del cavaliere Berlusconi per il gran premio di Roma: il servitore dello Stato Guido Bertolaso è rientrato in scuderia e al suo posto c’è l’imprenditore Alfio Marchini.
Lì dentro, mentre Antonio Campo Dall’Orto illustra la nuova Rai renziana, Maurizio Lupi, uno dei leader del nuovo centrodestra e già attore della prima diaspora berlusconiana, bofonchia per ciò che ascolta e ancora di più per le interpretazioni che sono state date alla «mossa del Cav». Ce l’ha soprattutto con Pier Ferdinando Casini, che – rimasto ai margini – sollecita Berlusconi a riprendere il rapporto con Renzi. «Pier Ferdinando – sospira Lupi che si è dato molto da fare per la svolta – al solito non ha capito niente. Marchini è una candidatura che serve a rendere più forte il centro del centrodestra. Per permettergli di esercitare un’egemonia sul centrodestra. Ma, appunto, parliamo di centrodestra. È un altro passo, come la candidatura di Parisi a Milano, per costruire un’alternativa al Pd di Renzi».
E per essere ancora più convincente l’ex ministro del governo Renzi, che non ha mandato ancora giù il suo siluramento, ipotizza un orizzonte temporale per il licenziamento del premier, o meglio, per individuare la data in cui le strade dell’attuale inquilino di Palazzo Chigi e di una buona parte dei «centristi», si divideranno. «Noi – spiega – abbiamo un patto con Renzi per le riforme: al referendum di ottobre, comunque vada, quel patto si scioglie. A quel punto, fatte o non fatte le riforme, dovremo ragionare sul futuro. Alfano? Lo convinco io con le buone… E comunque a Milano siamo con Parisi e il centrodestra; a Roma con Marchini e con Forza Italia ma sempre alternativi al Pd; ed è probabile che a Napoli lasceremo la Valente per andare con Lettieri. E ora speriamo che su Marchini arrivi pure Storace. Tutto questo vorrà pur dire qualcosa, o no!?».
Più chiaro di così. Il puzzle è composto. Se nelle grandi città i «centristi» sono avversari del Pd, se addirittura c’è un preavviso di licenziamento al premier e se, ancora, a Roma dietro a Marchini c’è pure il «destrissimo» Storace, ci può ancora essere qualche dubbio sul segno della «svolta» del Cav? Più che una sfida alla Meloni, come titola qualche giornale, la mossa di Marchini è una sfida a Renzi. Una mossa che potrebbe esser stata suggerita da un qualsiasi trattato di strategia militare o presa pari pari da una puntata di House of Cards, la famosa serie televisiva sugli intrighi della politica americana: se l’obiettivo primario di Renzi è sempre stato quello di sfondare al centro, di conquistare l’elettorato moderato del centrodestra, Berlusconi, con le operazioni Parisi e Marchini, punta a presidiare quel segmento elettorale, a togliere ossigeno al premier. Anzi, a spostare il confine dell’Italia rappresentata dal centrodestra ancora più in là, per renderla maggioritaria. Ora sta a Salvini e alla Meloni capire e assecondare questa strategia. «Si debbono mettere in testa – spiega il coordinatore di Fi nel Lazio, Fazzone, uno dei sostenitori della mossa del cavallo di Berlusconi – che il centrodestra per vincere deve avere non solo una destra al 20%, ma anche un centro al 20%». «Io, che pure ero per la Meloni – racconta il capogruppo dei senatori Romani – quando il presidente ci ha informato dell’operazione Marchini, gli ho detto che era un genio. Casini quando dice che dobbiamo andare con Renzi non ha capito una sega».
Già, l’operazione Marchini non nasce come un addio al centrodestra, ma come uno strumento per renderlo più competitivo. È speculare a quella di Parisi a Milano: i tre partiti storici del centrodestra più un outsider della società civile, che deve ricondurre a casa parte della diaspora centrista, ma soprattutto deve riconquistare al voto quell’elettorato che non si sente più rappresentato dai partiti (in ogni sondaggio il 40-45%). Lo slogan dell’imprenditore romano «fuori dai partiti», che ha fatto inorridire anche mezza Forza Italia, in realtà sembra copiato al Cavaliere. Inoltre la «mossa» di Berlusconi è quella che più mette in pratica le regole del sistema a doppio turno con ballottaggio in uno scenario tripolare: l’identikit del candidato perfetto in un sistema del genere, infatti, è quello di un nome che non solo deve raggiungere il ballottaggio, ma che al secondo turno deve conquistare la maggior parte dei voti del concorrente che resta fuori. Visto che il candidato da battere a Roma è quello del M5s è evidente che il centrodestra deve presentare per vincere una personalità come Marchini, che arrivi al ballottaggio ma che poi abbia un minimo di fascino anche per l’elettore di sinistra. «Se io al ballottaggio mi trovassi a scegliere tra la Raggi e Marchini – diceva qualche giorno fa Ugo Sposetti, senatore del Pd ed ex-tesoriere dei Ds – non potrei che scegliere Marchini».
Discorsi che in questi mesi Berlusconi ha sempre fatto e su cui gli altri leader del centrodestra erano d’accordo. Non per nulla il primo candidato di Salvini per Roma era proprio l’imprenditore romano. Poi, gli egoismi di partito, le ambizioni personali, la competizione sulla leadership, hanno preso il posto di questi ragionamenti fino a quando il Cav deluso e incavolato – come ha detto lui stesso – «è ritornato al punto di partenza». Ecco perché Salvini e Meloni possono usare gli argomenti che vogliono per criticare la mossa Marchini, ma non possono dire che si tratti di un accomodamento con Renzi. Come pure gli orfani del Nazareno, prigionieri dei loro ricordi, nelle loro elucubrazioni non possono parlare di ritorno a Renzi. Semmai è l’esatto contrario: è la mossa che mette nei guai il premier. Lo hanno capito i suoi più irriducibili avversari, cioè i suoi oppositori di sinistra. «Con questa mossa – osserva Alfredo D’Attorre, fuoriuscito dal Pd per costruire un partito più a sinistra – Berlusconi si rafforza nell’elettorato moderato e toglie spazio a Renzi che per vincere dovrà tornare a parlare con noi». «Il Cavaliere rinforzando l’ala di centro del centrodestra – spiega un’altra voce critica come Massimo Mucchetti – ha messo in crisi la strategia del partito della Nazione, ha posto una barriera alle mire di Renzi sull’elettorato moderato». Senza contare che le operazioni di Roma e Milano, in una fase discendente del renzismo, dimostrano che il centrodestra, soprattutto la sua gamba di centro, è tornato ad avere appeal: Parisi, Passera, Marchini e magari un domani Della Valle, sono i segnali di una ritrovata attenzione che possono fare effetto sull’opinione pubblica. Echi di questa metamorfosi si ritrovano anche nell’area di Verdini. «Solo chi è miope – confida Enrico Piccinelli, una delle teste pensanti dei verdiniani – pensa che l’operazione Marchini aiuti Renzi. Semmai il Cav gli ha messo un bastone in quel posto: ora sarà ancora più difficile per Renzi conquistare l’elettorato moderato. E a noi per alcuni versi sta bene (Denis aveva caldeggiato l’ipotesi), visto che anche noi siamo interessati a stare dentro un’area centrale che tratti con l’alleato Lega con forza e alla pari. Ma se questo esagera sia pronta a guardare dall’altra parte». Appunto, è il ritrovato appeal che aumenta il campo di attrazione del centrodestra: tant’è che sul «territorio» – per usare il politichese – sono molte le situazioni in cui «i fuoriusciti» non rispettano il patto siglato da Verdini con il vicesegretario del Pd Guerini. «Io a Napoli – fa presente il verdiniano Falanga – appoggio Lettieri».
Su questo dovrebbero riflettere la Meloni e Salvini. Sulla centralità che ha riconquistato un centrodestra, che tornerà unito sul «No» alle riforme di Renzi nel referendum di ottobre. Berlusconi spera che i suoi alleati mettano da parte i rancori e, soprattutto, l’illusione di un’alleanza con i grillini, che è un movimento nato per stare da solo. E che ritornino sui loro passi. «Spero che la Meloni ci ripensi, che dia un contributo all’unità del centrodestra a Roma»: quella frase con cui il Cav ha concluso l’annuncio del suo appoggio a Marchini non era una frase di rito. Tutt’altro: un auspicio. Augusto Minzolini, 30 Aprile 2016
…….Le amministrative del prossimo 5 giugno sono una scadenza strategica per tutti, sia per il governo, leggi Renzi, sia per le opposizioni, tutte. Per il centrodestra rappresentano l’ultima spiaggia se non vuole ridursi a mera rappresentanza nonostante nel Paese continui ad essere maggioranza. Il voto di Roma, poi, appare se è possibie ancor più strategico che nelle altre grandi città dove sivota, Milano, Napoli, Torito, Bologna. A Roma, dopo lo scandalo scoppiato nelle mani di Marino ma che ha coinvolto un pò tutti. Il voto di Roma e le polemiche che sono scoppiate nel centro destra, con Salvini e Meloni che dopo aver scelto Bertolaso lo hanno abbandonato, e dopo la scelta finale di Berlusconi di affidarsi a Marchini, sua prima scelta, condivisa da Salvini e ostacolata da Meloni, sarà un banco di prova importante quanto nevitabile per verificare quanto e come sia ancora possibile ched in un futuro confronto “politico” con Renzi, che nonostante le sue conclamate ceetezze appare sempre più in affanno, possa vederlo vincente e tornare al governo della Nazione dopo le intemerate renziane destinate a lasciare dietro di sè più macerie di quante ne abbia trovate. g.