SEPPELLITO DALLE URNE, IL NOVECENTO SALUTA, di Pierluigi Battista.

Pubblicato il 11 luglio, 2016 in Costume, Cultura | Nessun commento »

Una delle ragioni dello sbandamento frastornato delle élites dopo il voto sulla Brexit è che la cultura politica del Novecento, quella in cui appunto si sono formate in grande maggioranza le classi dirigenti dell’economia, della politica, della cultura, del giornalismo, della tecnocrazia, è stata irreversibilmente e ingloriosamente seppellita nelle urne di quasi tutto il continente. Non è solo il passaggio, caro ai politologi, da un sistema bipolare a uno sempre più tripolare, ma qualcosa di più profondo e radicale: la secessione culturale e psicologica che ormai un terzo stabile dell’elettorato europeo (e americano) ha consumato nei confronti delle famiglie politiche e ideologiche in cui si è strutturato il Novecento del dopoguerra, quella del socialismo declinato in tutte le sue variopinte denominazioni, e quella della liberaldemocrazia e del popolarismo, anch’essa variegata e multiforme, ma destinata a presidiare il lato moderato e di centrodestra del sistema politico.

Quell’ordine è crollato, e con esso la distribuzione tradizionale dello spazio politico in una destra e una sinistra separate da confini netti. In Spagna Podemos, sebbene sconfitta, erode il Partito socialista fino a tallonarlo e con Ciudadanos che morde i Popolari raggiunge un discreto 35 per cento che fugge dai partiti tradizionali. In Francia la Le Pen è attestata stabilmente a oltre il doppio dei consensi riscossi da suo padre Jean-Marie. In Italia il trionfo dei 5 Stelle, con l’aggiunta della Lega, smentisce chi parlava di un fenomeno effimero. In Germania ciò che dovrebbe essere un’eccezione, la Grande Coalizione, rischia di diventare la condizione permanente dell’assetto politico, e le prossime elezioni ci diranno se la malattia nel frattempo non si sia aggravata. In Grecia Tsipras ha annullato il partito socialista. In Austria il candidato estremista devasta i Popolari e per contrastarlo ci vuole la grande alleanza della paura (e pure qualche manomissione nelle schede) che elegge un Verde a suo salvatore. In Olanda il bipolarismo è finito. In Inghilterra, patria della democrazia dell’alternanza bipartitica, vince la Brexit osteggiata dai Conservatori e (più blandamente) dai Laburisti. Negli Usa il fenomeno Trump (e anche Sanders nel campo opposto) infligge duri colpi alla tradizione repubblicana.

Nel frattempo le élites si baloccano impotenti deplorando il «populismo» e recriminando sul «popolo bue». E il Novecento, tristemente, saluta. Pierluigi Battista, Il Corriere della Sera, 11 luglio 2016

ALBERTAZZI, QUELL’ODIO INCIVILE DELL’ISTITUTO PARTIGIANO, di Giovanni Belardelli.

Pubblicato il 19 giugno, 2016 in Costume, Politica | Nessun commento »

Sul sito dell’Istituto bergamasco per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea fa mostra di sé una critica post mortem a Giorgio Albertazzi che lascia senza parole, fin dal titolo: «Un bastardo che ci lascia». Ecco il testo: «Increduli e sgomenti per gli elogi e il cordoglio che si alzano — anche da parte delle più alte cariche dello Stato — in occasione della morte dell’attore Giorgio Albertazzi, vogliamo ricordarne la figura di milite della Tagliamento, di feroce rastrellatore di partigiani e civili, dal Grappa alla Valcamonica. In occasione dell’anniversario delle bombe di Piazza della Loggia ci pare doveroso sottolineare che quella orribile strage è opera dei figli e nipoti di quella splendida figura di italiano, che in questo smemorato paese si tende ad onorare. Che ognuno, per favore, pianga i suoi di morti». Il testo è firmato dagli organi direttivi dell’istituto, inserito in quella rete di istituti per la storia della Resistenza che rappresenta, grazie anche a finanziamenti pubblici, la maggiore struttura nel campo della ricerca storica al di fuori dell’università. Si tratta di istituti impegnati anche in varie attività educative: dall’aggiornamento degli insegnanti a iniziative nelle scuole, mostre, convegni ecc. Ma non si capisce quale mai attività educativa possa svolgere un istituto come quello bergamasco. Il punto non è, ovviamente, che si ricordi il fatto che il ventenne Albertazzi, come altri suoi coetanei, avesse servito nelle formazioni della Rsi. Le guerre civili, è perfino banale ricordarlo, sono tali appunto perché esistono due schieramenti che ferocemente si affrontano. E spesso, come fa dire Calvino a un partigiano nel romanzo Il sentiero dei nidi di ragno, «basta un nulla, un passo falso, un impennamento dell’anima, e ci si trova dall’altra parte». Ciò che è inqualificabile, piuttosto, è che un’istituzione che dovrebbe essere volta ad attività educative e di ricerca possa produrre un testo improntato all’odio, come quello citato. Giovanni Belardelli, Il Corriere della Sera, 19 giugno 201

…..Si, è vero, Gorgio Albertazzi giovanissimo “scelse l’altra parte”, cioè la RSI di Mussolini nel 1943, e alla fine della guerra fu imprigionato e condannato a morte e salvato dall’amnistia Togliatti. Ed è anche vero che mai Albertazzi rinnegò quella scelta, sebbene mai più si interessò di politica e le poche volte nella sua lunga e straordinaria vita di artista leggendario del nostro Teatro che dedicò qualche parola a gli eventi di allora, non ebbe mai parole di recriminazione ma neanche di rimpianto. Ed è anche vero che Albertazzi non fu l’unico allora a scegliere quella strada, tantissimi furono i giovani che nel 1943  furono “i balilla che andarono a Salò″ come titola Carlo Mazzantini, scrittore e giornalista approdato al’altra paete della sponfa del fiume, cioè nella sinistra comunista,  i suoi ricordi commoventi e onesti dei tanti suoi coetanei che scelsero l’altra parte. S ne potrebbero citare a centinaia, tra i più o meno noti e i tanti meno noti che infoltirono i ranghi dell’esercito di Salò. Ne ricordo due. Dario Fò e Walter Chiari. Il secondo come Albertazzi mai rinnegò o maledisse la scelta fatta a 20 anni, il primo con la stessa virulenza della prima fece la seconda di scelta, quella comunista a cui è rimasto fedele, facendosene alacre vessillo. Ma può la scelta fatta a 20 anni, essere ragione,  70 anni dopo la fine della guerra e le tante parole spese a proposito della riconciliazione nazionale, per rivolgere a chi non può più difendersi gli insuti che un istituto dedito alla ricerca storica  rivolge ad Albertazzi dopo la  sua morte con una violenza e una cattiveria che nulla può giustificare? Assolutamente no, per cui ha ragione Belardinelli a definire inqualificabile ciò che ha scritto l’istituto storico di Bergamo nei confronti di Albertazzi. E quindi  nei confronti dei tanti ragazzi, i balilla di Salò, che non ebbero la fortuna di sopravvivere e che sul campo lasciarono la loro giovinezza sacrificata per un ideale che sebbene “perdente” era il loro Ideale.  g.

SE LA POLITICA SPEGNE “VIRUS” E “BALLARO’ ” di Pierluigi Battista

Pubblicato il 16 maggio, 2016 in Costume, Cultura, Politica | Nessun commento »

Un po’ ci avevamo creduto. Davvero abbiamo pensato che nel suo slancio rottamatore, nel suo ripudio della vecchia politica, nel suo afflato liberalizzatore, Matteo Renzi volesse mantenere la promessa di farla finita con la politica e i partiti che occupano militarmente la Rai, con il governo e il Parlamento che lottizzano, con la tv pubblica che prende ordini dal suo «editore di riferimento». Per un momento, ma solo per un momento per carità, abbiamo creduto addirittura alla tentazione renziana di una sia pur parziale privatizzazione della Rai, prologo di un ripensamento sul ruolo del servizio pubblico televisivo che potesse legittimare il pagamento della tassa che i cittadini sono costretti a sborsare anche se non desiderano guardare programmi della tv di Stato. Niente, c’eravamo sbagliati anche questa volta. L’occupazione di Viale Mazzini ha continuato a essere lo sport più praticato a Palazzo Chigi.

La politica si è ripresa i suoi diritti. Per il resto, pagare il canone in silenzio, per foraggiare la tv lottizzata e svantaggiare i concorrenti delle tv private che non possono usufruire dei proventi di una tassa oramai priva di ogni legittimazione. Peccato. I meccanismi e le consuetudini del controllo politico della Rai evidentemente sono troppo forti per essere elusi con un semplice atto di volontà. Si impone invece come inevitabile corollario della smania occupatrice della Rai la tentazione del silenziatore sui programmi non allineati, come sempre, come prima, come tutti gli altri predecessori. Si alimenta attorno a Massimo Giannini l’irritazione del governo per la sua conduzione di «Ballarò». Dicono: ma gli ascolti sono insoddisfacenti. Bene, vedremo i risultati brillanti di un talk show a conduzione improntata alla più affidabile ortodossia renziana («Buonasera, anche questa settimana l’Italia ha cambiato verso»: davvero uno share da boom). Si licenzia via intervista, senza nemmeno un atto formale, un conduttore come Nicola Porro, che con «Virus» ha dato espressione all’unica trasmissione politica di stampo «liberale», senza urla, gabbie, prediche da guru, piazze in fiamme. Via quello troppo «di sinistra», via quello troppo «di destra». E meno male che la Rai doveva essere lasciata in pace. Meno male che i partiti avrebbero allentato la presa. E si illudono che controllando la Rai vinceranno le elezioni. Sbagliano: basta vedere cosa è accaduto nei vent’anni precedenti. Peggio per loro. Pierluigi Battista, Il Corriee della Sera 16 maggio 2016

……E bravo Battista. Si è ricreduto su Renzi al quale , ma “poco poco”,  aveva dato credito, prendendo per vere le sue promesse di rottamazione e in particolare di liberalizzazione della Rai dallo strapotere dei partiti. Invece no e Battista ne prende atto e prende atto invece che proprio sulla Rai si è espressa “al meglio” la vocazione padronale della politica e degli strumenti di potere  da parte di Renzi. Meglio tardi che mai questa presa d’atto di Battisti (che non è nuovo a prese d’atto postume come testimonia il suo libro “Mio padre fascista”). E’ auspicabile che, sulla scia di Battista,  anche altri opininisti abbiano lo stersso coraggio di riconioscere di essersi sbagliati cosichcè da indurre i loro lettori che spesos si fidano delle loro opinioni di rivedere, se nko  l’hanno già fatto , il loro giudizio sul prepotente fiorentino che ce fa rimpiangere tanti altri. g.

MAGISTRATI E POLITICA, DANNOSI SCAMBI DI RUOLO, di Michele AINIS

Pubblicato il 4 maggio, 2016 in Politica | Nessun commento »

«E tu, che lavoro fai?». «Il tuo». Alle nostre latitudini, succede di frequente: lo sport più praticato è il gioco a rubamazzo. Perché i ruoli di ciascuno non sono mai precisi, univoci, scolpiti sulla pietra. Perché l’invasione di campo non può essere un delitto, quando manca il campo. E perché, mentre in Italia gli incompetenti sono ormai legioni, tutti si dichiarano pluricompetenti. Le baruffe tra politica e giustizia (ultimo episodio: l’arresto del sindaco di Lodi) trovano proprio qui la loro miccia detonante, anche se per lo più non ci facciamo caso. D’altronde si tratta d’una vecchia storia, che ci accompagna da quando giravamo coi calzoni corti. Quante volte il Csm ha cercato di rimpiazzare il Parlamento, dettando moniti e pareri non richiesti sulle leggi da approvare? E quante volte il Parlamento si è sostituito alle procure? Provate a domandarvi chi sia il personaggio più noto nell’azione di contrasto alle cosche mafiose. Risposta: Rosy Bindi, presidente dell’Antimafia. Una Commissione parlamentare d’inchiesta che rimbalza da una legislatura all’altra fin dal 1962, e che fin qui ha alternato 15 diversi presidenti.

Chi fa cosa, ecco il problema. Non solo nel rapporto fra giudici e politici: anche nelle scuole, negli ospedali, nelle aziende pubbliche e private. Anche nei ministeri, o nelle relazioni fra lo Stato e le Regioni. Dove gli sconfinamenti hanno innescato oltre 100 conflitti l’anno dinanzi alla Consulta, nel lustro successivo alla riforma del Titolo V. Magari adesso la riforma della riforma ci metterà una pezza, o magari aprirà un altro contenzioso fra Camera e Senato, per regolare il loro diritto di parola sulle leggi. Tanto, si sa, nel dubbio ognuno chiede la parola. E il giudice che dovrebbe giudicare non di rado straparla a sua volta. Per dirne una, nel 2015 le Sezioni unite della Cassazione (sentenza n. 19.787) hanno dovuto alzare la paletta multando il Tar del Lazio, che pretendeva di surrogarsi al Csm nel conferimento degli incarichi giudiziari direttivi. Da qui la fortuna d’un mestiere ormai praticato in lungo e in largo: il supplente. Irrinunciabile, a quanto pare, nella scuola, dove quest’anno sono state assegnate 122 mila supplenze, nonostante l’assunzione di 86 mila docenti. Anche in famiglia, però, il reddito di cittadinanza al figlio disoccupato viene garantito dal papà, l’asilo per i nipotini sta a casa dei nonni, mentre del bisnonno s’occupa una badante ucraina. Tutti supplenti rispetto allo Stato assente, come le associazioni di volontariato, come le fondazioni bancarie, chiamate a turare le falle del welfare.  E se il nostro ordinamento lesina i diritti civili, oltre a quelli sociali? Possiamo sempre rivolgerci a un supplente di Stato, con una toga sulle spalle o con una fascia tricolore al petto. Nel primo caso supplisce la magistratura, che nel 1975 stabilì il diritto alla privacy (la legge intervenne 21 anni dopo), nel 1988 offrì tutela al convivente more uxorio (la legge manca ancora), mentre nel dicembre scorso il Tribunale di Roma ha riconosciuto la stepchild adoption, proprio mentre il Parlamento la disconosceva. Nel secondo caso entra in scena il sindaco: per esempio trascrivendo i matrimoni gay (nell’ottobre 2014 Marino l’ha fatto per 16 coppie) oppure con il Registro dei testamenti biologici (fin qui adottato in 169 Comuni, oltre che dal Friuli Venezia Giulia a livello regionale). E se invece il sindaco si rivela un incapace? Allora tocca al supplente del supplente, nelle vesti del commissario prefettizio. Il record è in provincia di Caserta, con 18 amministrazioni comunali decapitate; tanto che la prefettura ha dovuto chiedere rinforzi al ministero, perché da quelle parti i viceprefetti sono soltanto 11. Una Repubblica male ordinata reca più danni d’una tirannia, diceva nel Cinquecento Donato Giannotti. Ieri come oggi, il disordine è allevato da un ordinamento sovraccarico e confuso, dove le leggi si fanno per decreto, dove i decreti durano quanto un volo di farfalla. Sicché in ultimo il destino che ci aspetta sarà uguale a quello già sperimentato da una maestra di Bergamo: licenziata a gennaio, continua ad insegnare grazie alle liste fuori graduatoria. Proprio come lei, ogni italiano diventerà ben presto il supplente di se stesso. Michele Ainis, Il Corriere della Sera, 4 maggio 2016

PERCHE’ L’OPERAZIONE MARCHINI E’ CONTRO RENZI E RIDA’ FIATO AL CENTRO DESTRA, di Augusto Minzolini

Pubblicato il 30 aprile, 2016 in Politica | Nessun commento »

Auletta della Commissione di vigilanza Rai, al secondo piano di Palazzo San Macuto alle due del pomeriggio. Le agenzie di stampa hanno informato da poco il Paese e il Palazzo del cambio di cavallo del cavaliere Berlusconi per il gran premio di Roma: il servitore dello Stato Guido Bertolaso è rientrato in scuderia e al suo posto c’è l’imprenditore Alfio Marchini.

Lì dentro, mentre Antonio Campo Dall’Orto illustra la nuova Rai renziana, Maurizio Lupi, uno dei leader del nuovo centrodestra e già attore della prima diaspora berlusconiana, bofonchia per ciò che ascolta e ancora di più per le interpretazioni che sono state date alla «mossa del Cav». Ce l’ha soprattutto con Pier Ferdinando Casini, che – rimasto ai margini – sollecita Berlusconi a riprendere il rapporto con Renzi. «Pier Ferdinando – sospira Lupi che si è dato molto da fare per la svolta – al solito non ha capito niente. Marchini è una candidatura che serve a rendere più forte il centro del centrodestra. Per permettergli di esercitare un’egemonia sul centrodestra. Ma, appunto, parliamo di centrodestra. È un altro passo, come la candidatura di Parisi a Milano, per costruire un’alternativa al Pd di Renzi».

E per essere ancora più convincente l’ex ministro del governo Renzi, che non ha mandato ancora giù il suo siluramento, ipotizza un orizzonte temporale per il licenziamento del premier, o meglio, per individuare la data in cui le strade dell’attuale inquilino di Palazzo Chigi e di una buona parte dei «centristi», si divideranno. «Noi – spiega – abbiamo un patto con Renzi per le riforme: al referendum di ottobre, comunque vada, quel patto si scioglie. A quel punto, fatte o non fatte le riforme, dovremo ragionare sul futuro. Alfano? Lo convinco io con le buone… E comunque a Milano siamo con Parisi e il centrodestra; a Roma con Marchini e con Forza Italia ma sempre alternativi al Pd; ed è probabile che a Napoli lasceremo la Valente per andare con Lettieri. E ora speriamo che su Marchini arrivi pure Storace. Tutto questo vorrà pur dire qualcosa, o no!?».

Più chiaro di così. Il puzzle è composto. Se nelle grandi città i «centristi» sono avversari del Pd, se addirittura c’è un preavviso di licenziamento al premier e se, ancora, a Roma dietro a Marchini c’è pure il «destrissimo» Storace, ci può ancora essere qualche dubbio sul segno della «svolta» del Cav? Più che una sfida alla Meloni, come titola qualche giornale, la mossa di Marchini è una sfida a Renzi. Una mossa che potrebbe esser stata suggerita da un qualsiasi trattato di strategia militare o presa pari pari da una puntata di House of Cards, la famosa serie televisiva sugli intrighi della politica americana: se l’obiettivo primario di Renzi è sempre stato quello di sfondare al centro, di conquistare l’elettorato moderato del centrodestra, Berlusconi, con le operazioni Parisi e Marchini, punta a presidiare quel segmento elettorale, a togliere ossigeno al premier. Anzi, a spostare il confine dell’Italia rappresentata dal centrodestra ancora più in là, per renderla maggioritaria. Ora sta a Salvini e alla Meloni capire e assecondare questa strategia. «Si debbono mettere in testa – spiega il coordinatore di Fi nel Lazio, Fazzone, uno dei sostenitori della mossa del cavallo di Berlusconi – che il centrodestra per vincere deve avere non solo una destra al 20%, ma anche un centro al 20%». «Io, che pure ero per la Meloni – racconta il capogruppo dei senatori Romani – quando il presidente ci ha informato dell’operazione Marchini, gli ho detto che era un genio. Casini quando dice che dobbiamo andare con Renzi non ha capito una sega».

Già, l’operazione Marchini non nasce come un addio al centrodestra, ma come uno strumento per renderlo più competitivo. È speculare a quella di Parisi a Milano: i tre partiti storici del centrodestra più un outsider della società civile, che deve ricondurre a casa parte della diaspora centrista, ma soprattutto deve riconquistare al voto quell’elettorato che non si sente più rappresentato dai partiti (in ogni sondaggio il 40-45%). Lo slogan dell’imprenditore romano «fuori dai partiti», che ha fatto inorridire anche mezza Forza Italia, in realtà sembra copiato al Cavaliere. Inoltre la «mossa» di Berlusconi è quella che più mette in pratica le regole del sistema a doppio turno con ballottaggio in uno scenario tripolare: l’identikit del candidato perfetto in un sistema del genere, infatti, è quello di un nome che non solo deve raggiungere il ballottaggio, ma che al secondo turno deve conquistare la maggior parte dei voti del concorrente che resta fuori. Visto che il candidato da battere a Roma è quello del M5s è evidente che il centrodestra deve presentare per vincere una personalità come Marchini, che arrivi al ballottaggio ma che poi abbia un minimo di fascino anche per l’elettore di sinistra. «Se io al ballottaggio mi trovassi a scegliere tra la Raggi e Marchini – diceva qualche giorno fa Ugo Sposetti, senatore del Pd ed ex-tesoriere dei Ds – non potrei che scegliere Marchini».

Discorsi che in questi mesi Berlusconi ha sempre fatto e su cui gli altri leader del centrodestra erano d’accordo. Non per nulla il primo candidato di Salvini per Roma era proprio l’imprenditore romano. Poi, gli egoismi di partito, le ambizioni personali, la competizione sulla leadership, hanno preso il posto di questi ragionamenti fino a quando il Cav deluso e incavolato – come ha detto lui stesso – «è ritornato al punto di partenza». Ecco perché Salvini e Meloni possono usare gli argomenti che vogliono per criticare la mossa Marchini, ma non possono dire che si tratti di un accomodamento con Renzi. Come pure gli orfani del Nazareno, prigionieri dei loro ricordi, nelle loro elucubrazioni non possono parlare di ritorno a Renzi. Semmai è l’esatto contrario: è la mossa che mette nei guai il premier. Lo hanno capito i suoi più irriducibili avversari, cioè i suoi oppositori di sinistra. «Con questa mossa – osserva Alfredo D’Attorre, fuoriuscito dal Pd per costruire un partito più a sinistra – Berlusconi si rafforza nell’elettorato moderato e toglie spazio a Renzi che per vincere dovrà tornare a parlare con noi». «Il Cavaliere rinforzando l’ala di centro del centrodestra – spiega un’altra voce critica come Massimo Mucchetti – ha messo in crisi la strategia del partito della Nazione, ha posto una barriera alle mire di Renzi sull’elettorato moderato». Senza contare che le operazioni di Roma e Milano, in una fase discendente del renzismo, dimostrano che il centrodestra, soprattutto la sua gamba di centro, è tornato ad avere appeal: Parisi, Passera, Marchini e magari un domani Della Valle, sono i segnali di una ritrovata attenzione che possono fare effetto sull’opinione pubblica. Echi di questa metamorfosi si ritrovano anche nell’area di Verdini. «Solo chi è miope – confida Enrico Piccinelli, una delle teste pensanti dei verdiniani – pensa che l’operazione Marchini aiuti Renzi. Semmai il Cav gli ha messo un bastone in quel posto: ora sarà ancora più difficile per Renzi conquistare l’elettorato moderato. E a noi per alcuni versi sta bene (Denis aveva caldeggiato l’ipotesi), visto che anche noi siamo interessati a stare dentro un’area centrale che tratti con l’alleato Lega con forza e alla pari. Ma se questo esagera sia pronta a guardare dall’altra parte». Appunto, è il ritrovato appeal che aumenta il campo di attrazione del centrodestra: tant’è che sul «territorio» – per usare il politichese – sono molte le situazioni in cui «i fuoriusciti» non rispettano il patto siglato da Verdini con il vicesegretario del Pd Guerini. «Io a Napoli – fa presente il verdiniano Falanga – appoggio Lettieri».

Su questo dovrebbero riflettere la Meloni e Salvini. Sulla centralità che ha riconquistato un centrodestra, che tornerà unito sul «No» alle riforme di Renzi nel referendum di ottobre. Berlusconi spera che i suoi alleati mettano da parte i rancori e, soprattutto, l’illusione di un’alleanza con i grillini, che è un movimento nato per stare da solo. E che ritornino sui loro passi. «Spero che la Meloni ci ripensi, che dia un contributo all’unità del centrodestra a Roma»: quella frase con cui il Cav ha concluso l’annuncio del suo appoggio a Marchini non era una frase di rito. Tutt’altro: un auspicio. Augusto Minzolini, 30 Aprile 2016

…….Le amministrative del prossimo 5 giugno sono una scadenza strategica per tutti, sia per il governo, leggi Renzi, sia per le opposizioni, tutte. Per il centrodestra rappresentano l’ultima spiaggia se non vuole ridursi a mera rappresentanza nonostante nel Paese continui ad essere maggioranza. Il voto di Roma, poi, appare se è possibie ancor più strategico che nelle altre grandi città dove sivota, Milano, Napoli, Torito, Bologna. A Roma, dopo lo scandalo scoppiato nelle mani di Marino ma che ha coinvolto un pò tutti. Il voto di Roma e le polemiche che sono scoppiate nel centro destra, con Salvini e Meloni che dopo aver scelto Bertolaso lo hanno abbandonato, e dopo la scelta finale di Berlusconi di affidarsi a Marchini, sua prima scelta, condivisa da Salvini e ostacolata da Meloni, sarà un banco di prova importante quanto nevitabile per verificare quanto e come sia ancora possibile ched in un futuro confronto “politico” con Renzi,  che nonostante le sue conclamate ceetezze appare sempre più in affanno, possa vederlo vincente e tornare al governo della Nazione dopo le intemerate renziane destinate a lasciare dietro di sè più macerie di quante ne abbia trovate. g.

UN TEMPO I POLITICI PROVAVANO VERGOGNA E FACEVANO BENE, di Sergio Rizzo

Pubblicato il 24 aprile, 2016 in Costume, Politica | Nessun commento »

«Se un’ intera nazione sperimenta davvero il senso di vergogna è come un leone accovacciato pronto al balzo»: lo scriveva Karl Marx in una lettera al filosofo Arnold Ruge, 173 anni fa. L’elogio della vergogna come baluardo dell’etica pubblica precede dunque di un po’ quelle parole tanto scomode dette da Piercamillo Davigo al nostro Aldo Cazzullo a proposito di certi politici: «Non hanno smesso di rubare; hanno smesso di vergognarsi». E non è certo una prerogativa del pensiero marxista. La politologa della Columbia University Nadia Urbinati ricordava qualche anno fa su Repubblica come Giacomo Leopardi avesse anticipato il filosofo di Treviri nell’esaltazione del potere rivoluzionario della vergogna, sentimento a cui lo stesso Giambattista Vico aveva attribuito le origini della responsabilità morale della società. Ma forse nessuno come Papa Francesco, e ben prima di Davigo, si era scagliato contro «i corrotti», bollati dal pontefice come coloro «che non hanno vergogna». Accadeva tre anni fa, durante una funzione nella cappella di Santa Marta. E perché il messaggio risuonasse forte e chiaro, ancor più di quanto non avesse già fatto nel 2011 il cardinale Gianfranco Ravasi citando la famosa la battuta dell’Amleto di William Shakespeare («Vergogna, dov’è il tuo rossore?»), quel concetto l’aveva ripetuto in un libro, Il nome di Dio è Misericordia, scritto con Andrea Tornielli: «Dobbiamo pregare in modo speciale, durante questo Giubileo, perché Dio faccia breccia anche nei cuori dei corrotti donando loro la grazia della vergogna». Già, la vergogna.

Sulle ragioni per cui quel sentimento sia stato smarrito, si potrebbe dissertare a lungo. Di sicuro c’è stato anche un tempo in cui le cose erano diverse. Il presidente della Repubblica Giovanni Leone si dimise nel 1978 in seguito alla vicenda Loockheed, pur essendone totalmente estraneo. «Le siamo grati per l’esempio», gli scrissero anni dopo in una lettera di scuse i suoi accusatori Marco Pannella ed Emma Bonino. Nel 1993, durante Tangentopoli, i ministri si alzavano dalla poltrona all’apparire dell’avviso di garanzia. Qualcuno anche soltanto all’odore. Lo fecero due ministri delle Finanze, poi riconosciuti immacolati, come Giovanni Goria prima e Franco Reviglio un mese dopo di lui. Il repubblicano Oscar Mammì si dimise addirittura da deputato. Il suo giornale, la Voce repubblicana, scrisse qualche giorno dopo: «Non siamo ipocriti e in queste ore misuriamo sulla nostra pelle la sferzata di vergogna». Frasi che oggi sarebbe impossibile leggere…

Antonio Merlo della Pennsylvania university ha appioppato cinque anni fa il termine «mediocracy» alla nostra classe politica, qualificandola come «la più mediocre che l’Italia abbia avuto dal 1948«. Ed è francamente difficile non vedere una relazione fra questo degrado, la diffusione del malaffare e il progressivo impoverimento di quel senso di vergogna che in tutte le società avanzate rappresenta un formidabile deterrente contro la corruzione. Ma anche contro comportamenti non etici, sintetizzati così da Davigo: «Dicono cose tipo: “con i nostri soldi facciamo quello che ci pare”. Ma non sono soldi loro, sono dei contribuenti».

In Germania il ministro della Difesa Karl-Theodor zu Guttenberg, astro nascente della Cdu, si dimise dopo la scoperta che aveva copiato parte della sua tesi di dottorato, perché «lo scandalo sarebbe ricaduto su tutti i militari». Il ministro inglese dell’Energia Chris Huhne se ne andò «per evitare interferenze con l’incarico pubblico» perché un giornale rivelò che aveva addossato alla moglie una multa per cui avrebbe perso punti della patente. In Gran Bretagna il portavoce del parlamento Michael Martin lasciò l’incarico quando scoppiò la bufera delle note spese gonfiate, pur non avendo responsabilità personali. Non l’ha imitato il presidente di quel consiglio regionale del Lazio travolto dallo scandalo dei fondi milionari dei gruppi consiliari, Mario Abbruzzese: nonostante fosse a capo dell’ufficio che distribuiva i quattrini ai partiti. Si è anzi ricandidato ed è stato rieletto. Ora è presidente di una commissione regionale.

Il presidente tedesco Christian Wulff gettò la spugna quando si seppe che aveva avuto da un amico banchiere un prestito a tassi di favore. Le sue parole: «Ho fatto degli errori. C’è bisogno di un presidente che abbia fiducia ampia dei cittadini. Gli sviluppi di questa settimana hanno dimostrato che questa non c’è più». Succedeva all’inizio del 2012, mentre da noi lo scandalo dei rimborsi elettorali usati impropriamente anche per scopi personali della famiglia del leader si abbatteva sulla Lega Nord di Umberto Bossi. Che liquidava la faccenda con un’alzata di spalle: «Non c’è reato. Dei soldi della Lega, la Lega può fare quello che vuole». Seguì un durissimo scontro interno al partito e Bossi si dovette fare da parte. Un mese fa suo figlio Riccardo è stato condannato in primo grado a un anno e otto mesi per appropriazione indebita aggravata. «Pensava fossero soldi di famiglia», ha detto l’avvocato ai giudici. Un pizzico di vergogna forse l’avrebbe evitato. Sergio Rizzo, Il Corriere della Sera, 24 aprile 2016

LOTTA AI CORROTTI, NON AL MERCATO, di Antonio Polito

Pubblicato il 9 aprile, 2016 in Politica | Nessun commento »

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    A leggerli così, mescolati in quella secrezione delle nostre vite che sono le nostre peggiori telefonate (tanto quelle belle, corrette, trasparenti, nel faldone di un’inchiesta non ci arrivano, e dunque nessuno le conoscerà mai) viene da pensare che gli affari siano sempre affarismo. Non è vero. E dovremmo dirlo, perché già viviamo in un Paese pieno di pregiudizi contro il business. Già sembriamo una repubblica di Banana (Build Absolutely Nothing Anywhere Near Anything) ostile a ogni calcestruzzo, in cui la produzione di qualsiasi forma di energia, dal nucleare alle pale eoliche, dal gas agli inceneritori, solleva proteste e veti ecologisti. E invece tutte quelle parole che ci fanno sobbalzare nelle intercettazioni, contratto, gara, appalto, soldi, non sono lo sterco del demonio, non sono sinonimi di imbroglio e truffa. Gli affari fanno girare il mondo, o non lo fanno girare. Quando a fine anno piangiamo per lo scarso Pil o la forte disoccupazione, quando ci lamentiamo perché il Sud è vent’anni indietro, non facciamo altro che tirare le somme di troppi pochi affari, transazioni, vendite, acquisti, opere pubbliche e private. Per questo è difficile dare torto a Renzi quando rivendica al governo, con quell’aria di sfida ai magistrati di Potenza, la responsabilità politica di sbloccare gli investimenti, accelerarne l’iter, produrre lavoro. La corruzione va combattuta senza quartiere e senza riguardi, perché è distruttiva del mercato. Ma guai se pensassimo di stroncarla stroncando gli affari. La qualità della nostra vita e il nostro stesso reddito dipendono dal livello di sviluppo e di tecnologia del Paese in cui viviamo.

    Non diamo alibi a chi sogna di sostituire il mito del regresso a quello del progresso. Però proprio un governo che vuole finalmente rompere il tabù degli affari deve cercare antidoti più forti all’affarismo. Non basta la giustificazione del «fare» per esorcizzarlo. L’inchiesta di Potenza, facendoci guardare dal buco della serratura nelle stanze dove si decide, demolisce l’idea che centralizzare e personalizzare il potere possa tagliare le unghie all’affarismo. Se mai c’è stata, l’illusione dell’uomo solo al comando della nave si è dimostrata incapace di eliminare il caotico affollarsi degli interessi giù nella sala macchine, dove ministri, sottosegretari e capi di gabinetto restano esposti, e forse anche più esposti quanto minore è la loro personalità e il loro peso nella collegialità del governo, alla pressione delle lobby. E così finiscono per combattersi, rubarsi competenze, costruire cordate, perfino in un governo del premier, virtualmente monocolore, come è quello Renzi.

    C’è poi una seconda lezione da apprendere. La riduzione del Parlamento a votificio non semplifica le cose. Tutti gli emendamenti ad progettum, aziendam o personam, cercano disperatamente un treno legislativo su cui saltare, e di solito finiscono per trovarlo nel maxi emendamento alla legge di stabilità, patchwork che la maggioranza deve approvare in pochi minuti, in piena notte e a occhi chiusi. È vero che le Camere sono un ricettacolo di clientele, e l’assalto alla diligenza di un tempo non era preferibile, ma il Parlamento è anche un filtro degli interessi. Sempre meglio farli passare allo scrutinio di una commissione, che trovarseli riversati sul tavolo di un ministero, dove si decide certamente con maggiore opacità e discrezionalità, e dove il potere di un funzionario vale più dell’opinione di un deputato eletto dal popolo.

    Infine bisogna regolamentare il lavoro dei gruppi di pressione. Questo Gemelli era un lobbista? Allora doveva essere iscritto a un registro della professione, dichiarare i propri interessi, e il ministro con cui conviveva doveva a sua volta dichiarare il legame al momento di assumere un incarico nel governo, e il presidente del Consiglio doveva sapere che il suo ministro dello sviluppo economico aveva questo ulteriore interesse, diciamo così, familiare. L’esito più infausto del clamore di questa storia, insomma, sarebbe un ritorno al passato, quando non si combinava niente e si corrompeva anche di più. Ma per evitarlo non ci sono scorciatoie autoritarie o dirigiste, bisogna seguire la strada maestra di una democrazia funzionante, fatta di pesi e contrappesi, check and balance; e adeguarsi così, un po’ alla volta, agli standard etici dei Paesi puritani. Antonio Polito, Il Corriere della Sera, 8 aprile 2016

    ……A leggerlo senza occhiali questo editoriale di Antonio Polito, vicedirettore del Corriere della Sera, ex senatore del Pd, autorevole “firma” del Corriere, può apparire  una sorta di assoluzione di Renzi e compagni nella vicenda dell’ex ministro Guidi e della inchiesta giudiziaria provocata dalle intercettazioni tra l’ex ministro Guidi e il suo compagno che lungi dall’essersi conclusa, giorno per giorno si arricchisce di altre novità non certo lusinghiere per il governo e il premeirr Renzi, 2l’uomo solo al comando”. Proprio su questo Polito in verità mette l’accento per rilevare che un uomo solo al comando  non può gestire al meglio le pur necessarie attività conesse allo sviluppo e alla crescita , ma sopratutto Polito denuncia la trasformazione del Parlamento in un votificio senza poteri, visto che la legge economica per eccellenza, la legge di stabilità,  è ormai votata ad occhi chiusi con un superemendamento predisposto nottetempo dal governo  che appone la “fiducia” senza alcuna possibilità di controlo dei deputati. E’ quanto basta per poter trarre la conclusione che quanto di marcio possa venir fuori non può che essere responsabilità, forse non penale, ma di certo politica e morale del premier che supervisona il tutto o direttamente o tramite un pool di fidatissimi collaboratori che rispondono a lui e a lui soltanto. E questa non è più una democrazia parlamentare ma un regime o almeno l’anticamera di un regime. g

    L’ILLUSIONE DELLO STATO TRASPARENTE, di Ferruccio De Bortoli

    Pubblicato il 1 aprile, 2016 in Costume, Politica | Nessun commento »

    Un piccolo ma prezioso termometro dello stato di salute della democrazia italiana è racchiuso in un provvedimento semisconosciuto adottato dal governo, in via preliminare, il 20 gennaio. Stiamo parlando del diritto di ogni cittadino ad accedere agli atti della pubblica amministrazione. È la versione italiana del Freedom of Information Act. Negli Stati Uniti esiste dal 1966. In molti Paesi, una novantina, è un paradigma della trasparenza. Dà la misura reale della cittadinanza. E della libertà d’informazione, del diritto di cronaca. Senza quelle norme — tanto per fare un solo esempio — non avremmo avuto l’inchiesta del Boston Globe sui preti pedofili (si chiese l’accesso agli atti giudiziari), da cui è stato tratto il film premio Oscar Spotlight. Da noi invece la legge rischia di assumere il tono di una concessione dovuta, una fastidiosa e vuota incombenza. Eppure va dato atto al governo, e in particolare a Renzi (ne fece cenno durante il suo discorso di insediamento al Senato il 24 febbraio 2014) e al ministro Madia (Leopolda del 2015), di averne fatto una bandiera. Peccato che questo vessillo di libertà sia stato velocemente ripiegato nel testo varato a inizio anno, ed esprima, al contrario, tutto il potere discrezionale di cui la burocrazia italiana è ghiotta. All’articolo 6 del decreto legislativo, si legge che «chiunque ha diritto di accedere ai dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni». Bene.

    Peccato però che l’elenco delle eccezioni sia semplicemente sterminato. Alcune (sicurezza, difesa, relazioni internazionali) sono condivisibili. Altre decisamente meno. Il limite della «tutela di interessi pubblici e privati giuridicamente rilevanti» forma una categoria talmente vasta da porre il diritto del cittadino a conoscere l’iter di un atto, i tempi e i costi della sua esecuzione, in una condizione di palese inferiorità, alla stregua di una curiosità molesta. La legge non identifica, nelle varie amministrazioni, un responsabile unico cui rivolgersi. Non c’è uno sportello. La mancata risposta dopo trenta giorni alla domanda di un singolo cittadino (destinata a perdersi nelmare magnum degli uffici) configura una sorta di silenzio-rigetto privo di sanzione. L’obbligo di motivazione del rifiuto, da parte dei pubblici uffici, era già previsto dalla legge 241 del 1990. Disposizione quasi mai rispettata. E dunque il legislatore, innovando la 241, ne avrebbe tenuto conto (cioè si sarebbe arreso a un’inadempienza), ipotizzando, con il silenzio-rigetto, una particolare «garanzia» per il cittadino titolare di un interesse legittimo. Rivolgendosi al Tar, questi potrebbe costringere l’amministrazione a spiegare il suo no. Una procedura troppo complessa e costosa per un semplice diritto all’informazione.

    Nel suo parere, il Consiglio di Stato (18 febbraio 2016) è assai critico sullo schema di decreto legislativo. Condivide, citando Norberto Bobbio, «l’aspirazione a una democrazia intesa come regime del potere visibile». Sottolinea come la trasparenza sia «una forma di prevenzione dei fenomeni corruttivi». Ma senza semplicità nell’accesso ai dati e con troppe eccezioni, è tutto inutile. Il silenzio-rigetto, decorsi i 30 giorni dalla richiesta, realizzerebbe poi «il paradosso che un provvedimento in tema di trasparenza neghi all’istante di conoscere in maniera trasparente gli argomenti in base ai quali la pubblica amministrazione non gli accorda l’accesso richiesto».

    I fautori di un più esteso Freedom of Information Act italiano si sono mobilitati. Hanno raccolto firme. Saranno ascoltati dalle Commissioni Affari costituzionali delle Camere il 7 aprile. Meritano di essere presi sul serio. E non considerati dei petulanti rompiscatole legislativi. Qualche loro richiesta è opinabile (come la gratuità dell’accesso agli atti) ma le loro critiche sono fondate. Il provvedimento finale verrà probabilmente varato entro un paio di mesi ed è auspicabile che sia corretto tenendo conto, non solo dei rilievi del Consiglio di Stato, ma anche delle osservazioni dell’Anac, l’autorità anticorruzione (ribadite ieri nell’audizione del presidente Raffaele Cantone) e del Garante per la protezione dei dati personali.

    Il governo ha l’occasione di dare attuazione a una promessa che riguarda la libertà dei cittadini e il loro diritto ad essere informati. La trasparenza non va vissuta come un intralcio all’attività amministrativa ed economica. Se attuata senza eccessi (e con buon senso) è garanzia di correttezza e incisività degli atti. Un deterrente efficace contro la corruzione e i soprusi. Valorizza le buone pratiche, contrasta abusi di potere e assenteismi. Se, al contrario, vincerà ancora una volta la burocrazia, non dovremo più stupirci se il nostro Paese è così arretrato nelle classifiche internazionali (libertà di stampa compresa). Conoscere la qualità dell’assistenza di un ospedale, le sue liste d’attesa, sapere le condizioni igieniche dei ristoranti e dei bar che frequentiamo, gli stipendi di coloro che gestiscono i servizi pubblici, non ha una portata rivoluzionaria o distruttiva dei rapporti economici. Non è il Panopticon di Jeremy Bentham. L’occhio ossessivo di una prigione di vetro. È solo la normalità di una democrazia avanzata che non ha paura né della trasparenza né del diritto d’informazione. Anzi, ne va orgogliosa. Ferruccio De Bortoli, Il Corriere della Sera 1° aprile 2016

    …..Chiunque anche una sola volta nella vita abbia avuto a che fare con la pubblica amminiustrazione non potrà non condividere le amare considerazioni di De Bortoli   sulla burocrazia italiana e sulla parvenza di trasparenza che assicurata a parole, nei fatti è del tutto assente nei rapporti tra Stato e cittadini, i quali continuano ad essere sudditi rfispetto allo strapotere della burocrazia. g.

    TUTTI I PERICOLI DI UN GOVERNO SENZA LIMITI

    Pubblicato il 13 marzo, 2016 in Politica | Nessun commento »

    Il tempo in cui viviamo, ricco di contraddizioni e segnato dall’incertezza sul futuro che ci attende, assomiglia a quello che aveva attraversato l’Europa nella prima metà dell’Ottocento.

    Quello era stato il tempo della fine degli assolutismi e della progressiva affermazione della libertà e del liberalismo come principio di governo.

    Questo, invece, pare caratterizzarsi per la progressiva crisi e dissoluzione della democrazia liberale e per l’instaurazione di governi retti da personalità inclini a imporre la propria volontà incuranti della legge e delle opposizioni.Della crisi della democrazia liberale, questi tempi paiono la premessa e il possibile sviluppo. Oggi, come allora, l’Italia è il laboratorio all’interno del quale si sviluppa il nuovo corso. Il governo Renzi, che piaccia o no, ne è l’epifenomeno.

    La qual cosa non significa che – così come l’Ottocento era stato il secolo del liberalismo quale principio di governo -, l’epoca in cui viviamo debba essere necessariamente l’anticamera dell’instaurazione di regimi autoritari o totalitari. Lo vado scrivendo da tempo, con crescente insistenza, e me ne scuso. Da vecchio liberale, la prospettiva dell’arrivo di un regime di illibertà lo avverto «a naso», nell’aria. Me ne faccio portavoce perché tale mi sembra il mio dovere e anche il mio diritto. I regimi, non solo quelli autoritari e totalitari, anche quelli democratici, si logorano col tempo. Non vorrei fosse il caso del nostro, a soli settant’anni dalla fine del fascismo.

    Non ci sono le condizioni interne e internazionali che, nella prima metà dell’Ottocento, avevano prodotto il successo del liberalismo, né quelle che nella prima metà del Novecento avevano favorito l’avvento del fascismo. Siamo una democrazia peraltro, ahimè, assai poco liberale consolidata e non si ravvisano condizioni favorevoli all’instaurazione di una qualche dittatura.Tutto questo non dispensa, evidentemente, dal denunciarne i pericoli. Poiché il mio mestiere è quello di analizzare la realtà politica come si presenta e come si prospetta, ed è questo che faccio da tempo, spero con non troppo fastidio da parte di chi mi legge. Dispensare ottimismo è assai più facile che predicare l’attenzione. Non è tempo per nutrire eccessive speranze sul futuro, facili ottimismi o spensierate illusioni. Le cose, almeno da noi, in Italia, non vanno così bene come si tende a sostenere.

    Lo Stato manifesta ogni giorno che passa una volontà di dominio sulle libertà individuali che francamente preoccupa. La sua natura di compromesso fra liberalismo e sovietismo, che ne ha segnato la nascita, non depone per un eccesso di ottimismo. Non abbiamo colto l’occasione, nel 1945, di chiederci che cosa era stato il fascismo e perché fosse durato tanto a lungo. Paghiamo i costi di questo peccato originale dal quale è nata la Repubblica. Lo dico, e lo ripeto, sperando che la classe politica e quella intellettuale se ne facciano carico; ma il fatto stesso che nessuno paia preoccuparsene, accresce le mie preoccupazioni. I sintomi del degrado ci sono tutti, soprattutto da noi. Tutto sta nel prenderne atto e rifletterci sopra. Piero Ostellino, politologo ed opinionista

    IL FOSSATO DA RIEMPIRE TRA ISTITUZIONI E CITTADINI, di Ferruccio de Bortoli

    Pubblicato il 5 marzo, 2016 in Politica | Nessun commento »

    Il ministro Maria Elena Boschi alla Camera (Ansa)

    Dopo esserci occupati a lungo degli eletti, ora dovremmo pensare un po’ alla salute democratica degli elettori. E interrogarci sulle ragioni di una certa disaffezione al voto. La sensazione di irrilevanza non si traduce soltanto nell’astensione dalle urne, di qualsiasi tipo, ma anche nell’uso della scheda per sfogare disagio se non rabbia. Non per scegliere, ma per contrastare. Non a favore ma contro. Non è il caso di tornare su alcuni aspetti della riforma costituzionale che si avvia a essere completata con l’ultimo voto alla Camera e il referendum autunnale.

    Il quadro istituzionale, con un Senato delle Regioni non più direttamente elettivo, si semplifica e diventa più efficiente, ma non si avvicina al cittadino, non lo rende protagonista. La distanza aumenta. L’Italicum darà stabilità ai governi — e ce n’era bisogno — ma con il premio di maggioranza, i capilista bloccati e le candidature plurime non si può dire che sia un caposaldo della democrazia rappresentativa, peraltro in crisi un po’ ovunque. Gustavo Zagrebelsky definisce le riforme del governo Renzi, con efficacia caustica, il «carapace, la corazza della tartaruga, del potere». Stefano Petrucciani nel suo libro (Democrazia, Einaudi) parla più in generale di una «regressione oligarchica» e intravede «uno spossessamento dei cittadini rispetto agli eletti, della base del partito rispetto ai leader, dei parlamentari rispetto all’esecutivo, dell’esecutivo stesso rispetto al premier». Forse, c’è un po’ di esagerazione. Ma, al di là delle posizioni che le parti avranno sul prossimo referendum, una discussione aperta sul disagio degli elettori appare opportuna.

    Un rafforzamento del governo, nell’Italia dei troppi poteri contrapposti, dei veti e degli interessi corporativi, era ed è assolutamente necessario per attuare politiche di riforme a vantaggio di tutti. Ma se il cittadino matura la convinzione che il proprio voto serva a poco e la sua opinione sia indifferente, la conseguenza sarà solo un senso crescente di estraneità delle istituzioni. «Uno spostamento verso l’alto del centro delle decisioni», per usare le parole di Petrucciani, ancora più pronunciato nei confronti dell’Europa, che genera frustrazioni e alimenta sfiducia. Ovvero, riempie il bacino di coltura del populismo. La riforma Boschi prevede alcuni necessari contrappesi nelle norme sui referendum (più firme ma quorum abbassato) e sulle leggi di iniziativa popolare (più firme). Ma troppi sono stati i referendum il cui esito è rimasto lettera morta. Le leggi di iniziativa popolare poi sono sempre state ostacolate, soprattutto dai partiti. Non ne è passata mai una. Vedremo se, rianimandosi, questo strumento darà più voce ai cittadini.

    La Rete è una straordinaria piazza democratica. Ma non è la risposta. Ridurre gli eletti a portavoce di movimenti erratici e indefiniti sul Web ha aspetti caricaturali. Si scambiano le posizioni di minoranze attive — e generalmente agli estremi — per quelle mediane dell’elettorato. In realtà, come dimostrano le consultazioni dei Cinquestelle, si tratta al massimo di poche migliaia di persone. Vedremo se le primarie per i candidati sindaci, a Roma, a Napoli e a Trieste coinvolgeranno porzioni significative di cittadinanza. Se sono vere (come a Milano) appassionano. Se sono finte contribuiscono solo a svalutare il voto e a irritare i partecipanti (i gazebo di Salvini a Roma).

    L’affievolirsi di una democrazia rappresentativa accentua anche il fenomeno del trasformismo. I cambi di casacca nell’attuale legislatura sono già 342. Si allenta così, fino a spezzarsi del tutto, il legame con gli elettori. In un sistema a collegi uninominali, i transfughi potrebbero essere puniti con il cosiddetto recall, il richiamo, che da noi è improponibile. La semplice misura di impedire la costituzione di gruppi parlamentari quando le formazioni non siano state elette in precedenza, avrebbe quantomeno una funzione deterrente. Tralasciamo le considerazioni morali. Il trasformismo, con il populismo, è la malattia contemporanea. Il seggio lo si deve al capo che decide la lista, non ai votanti che vanno ai seggi. Aggrapparsi all’articolo 67 della Costituzione sul divieto di mandato imperativo è ridicolo. Non si può dire che i Fregoli del Parlamento inseguano in questo modo l’interesse generale.

    Discutere, senza pregiudiziali, di proposte dirette a irrobustire l’elettorato attivo non è una perdita di tempo. Il voto ai sedicenni appare a molti costituzionalisti un azzardo. Secondo Valerio Onida sarebbe necessario dibattere, senza venature ideologiche, l’opportunità di concedere il voto alle Amministrative agli immigrati regolari e stabili che già vanno ai gazebo delle primarie. Lo prevede una convenzione del Consiglio d’Europa in vigore dal ’97. Efficaci leggi sulla rappresentanza sindacale e sulla vita democratica interna dei partiti (articolo 49 della Costituzione, mai regolamentato) possono contribuire a dare senso e prospettiva all’impegno dei cittadini, avvicinandoli alle istituzioni. «È necessario — dice Carlo Galli (autore de Il disagio della democrazia, Einaudi) — che si colmi il fossato ormai aperto fra cittadini e istituzioni e tra cittadini e partiti».

    La formula francese del débat public, prevista dalla nostra legge delega sugli appalti, consulta i cittadini prima delle decisioni di costruire grandi opere e li responsabilizza su utilità e costi. Un’idea che potrebbe essere estesa — nel giudizio della costituzionalista Ida Nicotra — ad altri processi legislativi. «Un modo per uscire dall’attuale deriva di una democrazia per contrasto e negazione». Pierre Rosanvallon (Le Bon Gouvernement, Seuil) sostiene che un governo, per dirsi democratico, debba accettare momenti di valutazione del suo operato anche diversi dal giorno delle urne. Le nuove tecnologie lo consentono. Ma occorrono cittadini informati, responsabili e convinti che la loro opinione conti davvero. Ferruccio de Bortoli, Il Corriere della Sera, 5 marzo 2016.