L’AMERICA IGNOTA DI TRUMP, di Massimo Gaggi
Pubblicato il 3 marzo, 2016 in Politica estera | Nessun commento »
Dopo il voto di ieri per la politica americana è già arrivata l’ora di fare i conti col ciclone Trump. C’è chi — primo Chris Christie, ma altri seguiranno — spinge il reset button e sale sul carro del vincitore, magari promettendo all’establishment dal quale proviene che farà buona guardia. Poi ci sono gli intellettuali e i commentatori (di destra e di sinistra, stavolta non fa differenza) attoniti e costretti al mea culpa: per non aver preso sul serio il fenomeno Trump, ma soprattutto per non aver capito cosa stava bollendo nel pentolone del malessere sociale del ceto medio americano schiacciato da globalizzazione e rivoluzione tecnologica. Poi c’è il partito repubblicano: panico e scenari apocalittici. Trump, che non si fa problemi a demolire i cardini ideologici della destra promettendo più tasse per i ricchi, sgravi per i poveri e protezionismo commerciale mentre sulle questioni bioetiche, dall’aborto ai matrimoni gay, è più vicino ai democratici che ai conservatori religiosi, può ridurre il «Grand Old Party» a un cumulo di macerie.
Un quadro caotico, senza precedenti, ma si possono azzardare tre scenari: il primo è quello di una sorta di guerra civile non dichiarata contro Trump coi repubblicani che, per liberarsene, non escludono nemmeno di lasciare la Casa Bianca alla Clinton. E se l’imprenditore diventerà comunque presidente, possono bloccare i suoi atti più controversi attraverso il Congresso (come hanno fatto con Obama). Tenendosi sempre di riserva l’arma dell’impeachment. Sarebbe molto pericoloso: un Trump dalle chiare tendenze autoritarie che già ha usato espressioni mussoliniane, potrebbe essere tentato di trasformare il Congresso, già oggi l’istituzione più impopolare d’America, in «un bivacco di manipoli».
Dopo il voto di ieri per la politica americana è già arrivata l’ora di fare i conti col ciclone Trump. C’è chi — primo Chris Christie, ma altri seguiranno — spinge il reset button e sale sul carro del vincitore, magari promettendo all’establishment dal quale proviene che farà buona guardia. Poi ci sono gli intellettuali e i commentatori (di destra e di sinistra, stavolta non fa differenza) attoniti e costretti al mea culpa: per non aver preso sul serio il fenomeno Trump, ma soprattutto per non aver capito cosa stava bollendo nel pentolone del malessere sociale del ceto medio americano schiacciato da globalizzazione e rivoluzione tecnologica. Poi c’è il partito repubblicano: panico e scenari apocalittici. Trump, che non si fa problemi a demolire i cardini ideologici della destra promettendo più tasse per i ricchi, sgravi per i poveri e protezionismo commerciale mentre sulle questioni bioetiche, dall’aborto ai matrimoni gay, è più vicino ai democratici che ai conservatori religiosi, può ridurre il «Grand Old Party» a un cumulo di macerie.
Un quadro caotico, senza precedenti, ma si possono azzardare tre scenari: il primo è quello di una sorta di guerra civile non dichiarata contro Trump coi repubblicani che, per liberarsene, non escludono nemmeno di lasciare la Casa Bianca alla Clinton. E se l’imprenditore diventerà comunque presidente, possono bloccare i suoi atti più controversi attraverso il Congresso (come hanno fatto con Obama). Tenendosi sempre di riserva l’arma dell’impeachment. Sarebbe molto pericoloso: un Trump dalle chiare tendenze autoritarie che già ha usato espressioni mussoliniane, potrebbe essere tentato di trasformare il Congresso, già oggi l’istituzione più impopolare d’America, in «un bivacco di manipoli».
Il secondo scenario è quello di Trump come incidente della storia che innesca una rifondazione della destra americana. C’è già chi sostiene che il Partito repubblicano, sclerotizzato, sconvolto dalla rivoluzione dei Tea Party, condizionato dalle sue rigidità ideologiche, potrebbe essere lasciato come un guscio vuoto nelle mani di Trump, trasferendo l’energia positiva dei conservatori più dinamici in un nuovo Partito della Costituzione. Un processo con vari sbocchi possibili, soprattutto se alla fine dovesse candidarsi da indipendente anche il conservatore illuminato Michael Bloomberg: sarebbe la fine del bipartitismo Usa. Ma c’è anche chi comincia a dire — terzo scenario — che Trump non è il diavolo: da imprenditore capisce meglio di un partito impiccato alle sue parole d’ordine che un’austerity fiscale troppo severa, la bassa tassazione della ricchezza e i processi di deregulation e globalizzazione attuati senza limiti e controlli sono all’origine dello schiacciamento della classe media.
Bisogna essere molto ottimisti per credere a uno scenario simile perché nei discorsi di Trump le poche idee forse di buon senso su economia e società sono sepolte sotto cumuli di invettive e proclami che, a prenderli sul serio, presuppongono un’attività di governo fatta di violazioni della Costituzione e del diritto internazionale. Ma non è detto che, una volta eletto presidente, Trump adotterebbe le ricette da «olio di ricino» di cui parla nelle piazze americane. «Servono solo a catturare ampi consensi nell’elettorato conservatore» dice a mezza bocca qualche consigliere del tycoon. Noto per una certa tendenza, su varie questioni, a sostenere tutto e il contrario di tutto. Lui stesso, del resto, non ha smentito di aver detto, durante un incontro off the record coi capi del New York Times, che le sue idee sugli immigrati sono meno dure di quelle che distilla nei comizi: «Tutto è negoziabile» ha replicato a chi gli chiedeva delucidazioni.
Comprensibile il panico della destra davanti a un personaggio che la trascina verso l’ignoto. Ma ora c’è allarme anche tra i democratici: una candidatura dell’impresentabile Trump sembrava un regalo fatto a Hillary Clinton. Ora molti cominciano a sospettare che il costume indossato da Trump, quello di un «Superman antisistema», possa sedurre anche qualcuno a sinistra. Unica certezza: Donald non può più essere liquidato come un fenomeno folkloristico. Va spiegato a Rubio e Cruz che hanno cominciato a trattarlo da clown, acrobata e truffatore fuori tempo massimo. Massimo Gaggi, Il Corriere della Sera, 3 marzo 2016