L’AMERICA IGNOTA DI TRUMP, di Massimo Gaggi

Pubblicato il 3 marzo, 2016 in Politica estera | Nessun commento »

Dopo il voto di ieri per la politica americana è già arrivata l’ora di fare i conti col ciclone Trump. C’è chi — primo Chris Christie, ma altri seguiranno — spinge il reset button e sale sul carro del vincitore, magari promettendo all’establishment dal quale proviene che farà buona guardia. Poi ci sono gli intellettuali e i commentatori (di destra e di sinistra, stavolta non fa differenza) attoniti e costretti al mea culpa: per non aver preso sul serio il fenomeno Trump, ma soprattutto per non aver capito cosa stava bollendo nel pentolone del malessere sociale del ceto medio americano schiacciato da globalizzazione e rivoluzione tecnologica. Poi c’è il partito repubblicano: panico e scenari apocalittici. Trump, che non si fa problemi a demolire i cardini ideologici della destra promettendo più tasse per i ricchi, sgravi per i poveri e protezionismo commerciale mentre sulle questioni bioetiche, dall’aborto ai matrimoni gay, è più vicino ai democratici che ai conservatori religiosi, può ridurre il «Grand Old Party» a un cumulo di macerie.

Un quadro caotico, senza precedenti, ma si possono azzardare tre scenari: il primo è quello di una sorta di guerra civile non dichiarata contro Trump coi repubblicani che, per liberarsene, non escludono nemmeno di lasciare la Casa Bianca alla Clinton. E se l’imprenditore diventerà comunque presidente, possono bloccare i suoi atti più controversi attraverso il Congresso (come hanno fatto con Obama). Tenendosi sempre di riserva l’arma dell’impeachment. Sarebbe molto pericoloso: un Trump dalle chiare tendenze autoritarie che già ha usato espressioni mussoliniane, potrebbe essere tentato di trasformare il Congresso, già oggi l’istituzione più impopolare d’America, in «un bivacco di manipoli».

Il secondo scenario è quello di Trump come incidente della storia che innesca una rifondazione della destra americana. C’è già chi sostiene che il Partito repubblicano, sclerotizzato, sconvolto dalla rivoluzione dei Tea Party, condizionato dalle sue rigidità ideologiche, potrebbe essere lasciato come un guscio vuoto nelle mani di Trump, trasferendo l’energia positiva dei conservatori più dinamici in un nuovo Partito della Costituzione. Un processo con vari sbocchi possibili, soprattutto se alla fine dovesse candidarsi da indipendente anche il conservatore illuminato Michael Bloomberg: sarebbe la fine del bipartitismo Usa. Ma c’è anche chi comincia a dire — terzo scenario — che Trump non è il diavolo: da imprenditore capisce meglio di un partito impiccato alle sue parole d’ordine che un’austerity fiscale troppo severa, la bassa tassazione della ricchezza e i processi di deregulation e globalizzazione attuati senza limiti e controlli sono all’origine dello schiacciamento della classe media.

Bisogna essere molto ottimisti per credere a uno scenario simile perché nei discorsi di Trump le poche idee forse di buon senso su economia e società sono sepolte sotto cumuli di invettive e proclami che, a prenderli sul serio, presuppongono un’attività di governo fatta di violazioni della Costituzione e del diritto internazionale. Ma non è detto che, una volta eletto presidente, Trump adotterebbe le ricette da «olio di ricino» di cui parla nelle piazze americane. «Servono solo a catturare ampi consensi nell’elettorato conservatore» dice a mezza bocca qualche consigliere del tycoon. Noto per una certa tendenza, su varie questioni, a sostenere tutto e il contrario di tutto. Lui stesso, del resto, non ha smentito di aver detto, durante un incontro off the record coi capi del New York Times, che le sue idee sugli immigrati sono meno dure di quelle che distilla nei comizi: «Tutto è negoziabile» ha replicato a chi gli chiedeva delucidazioni.

Comprensibile il panico della destra davanti a un personaggio che la trascina verso l’ignoto. Ma ora c’è allarme anche tra i democratici: una candidatura dell’impresentabile Trump sembrava un regalo fatto a Hillary Clinton. Ora molti cominciano a sospettare che il costume indossato da Trump, quello di un «Superman antisistema», possa sedurre anche qualcuno a sinistra. Unica certezza: Donald non può più essere liquidato come un fenomeno folkloristico. Va spiegato a Rubio e Cruz che hanno cominciato a trattarlo da clown, acrobata e truffatore fuori tempo massimo. Massimo Gaggi, Il Corriere della Sera, 3 marzo 2016

IL FRONTE DEI MODERNISTI, di Ernesto Galli della Loggia

Pubblicato il 13 febbraio, 2016 in Costume | Nessun commento »

Attraverso quali vie oggi possono nascere e diffondersi in un Paese come l’Italia sentimenti di estraneità ostili nei confronti delle élite, a cominciare magari da quelle culturali e giornalistiche? Di avversione verso il loro ruolo nello spazio pubblico, e quindi, inevitabilmente, di protesta verso la politica? Quei sentimenti, cioè, che poi finiscono per confluire indifferentemente da destra o da sinistra nel grande collettore che abbiamo convenuto di chiamare «populismo»? Per cercare una risposta può forse dirci qualcosa il modo in cui si è svolta in queste settimane la discussione sulle unioni civili e sul problema connesso (almeno fino ad oggi) dell’adozione del figliastro (stepchild adoption).

Essendo incerta l’effettiva percentuale dei favorevoli e contrari tra gli elettori, qualunque dibattito in merito avrebbe dovuto equamente rappresentare, come è ovvio, entrambe le posizioni. Posizioni le quali, prima che politiche sono posizioni culturali e morali riguardanti questioni di grande complessità, ambiti fondamentali della vita personale e collettiva. Ebbene, mi chiedo e chiedo: si può onestamente dire che il dibattito in merito sulla grande stampa e in televisione — le uniche sedi che contano — sia stato all’altezza di tale complessità?

Per almeno due ragioni a me sembra di no. Innanzi tutto per una soverchiante, ossessiva presenza — parlo della televisione e della radio ma non solo — di esponenti politici. In Italia, anche se si tratta del peccato originale o delle cure palliative, la Rai si ostina a credere che i più titolati a discuterne siano un parlamentare dei 5Stelle insieme a un senatore di Fratelli d’Italia. E le radio e tv commerciali non sanno fare di meglio. Ne è risultato — nel caso della discussione sulla legge Cirinnà ma così come sempre — un succedersi, in genere semiurlato o punteggiato di interruzioni, di frasi di un minuto, di affermazioni immotivate e ripetute senza tener conto delle eventuali obiezioni. Con la maggioranza dei cosiddetti conduttori non solo incuranti di tenere la discussione su un binario di reale approfondimento di alcunché, ma usi a intervenire di continuo con sorrisetti derisori, sguardi di compatimento e opportune interiezioni (campioni assoluti del genere Gruber e Formigli) per screditare l’opinione da loro non condivisa. Che nove volte su dieci era in questo caso l’opinione degli oppositori alla legge.

Ciò che peraltro rimanda a un dato generale — che rappresenta la seconda delle due ragioni di cui sopra. Vale a dire la iper rappresentazione che su tutti i media così come nell’intrattenimento, nel cinema, in qualunque produzione culturale, ha costantemente l’opinione per così dire laico-progressista, favorevole al cambiamento, a innovare, a cancellare tutto ciò che appare tradizionale, a cominciare — c’è bisogno di dirlo? — della dimensione religiosa. A cui naturalmente corrispondono la svalutazione sussiegosa, quando non il vero e proprio dileggio nei confronti di chi invece è fuori dal mainstream dell’ideologicamente corretto, dalla parte di un pensiero tradizionale, magari convenzionale o ispirato a un antico «buon senso» (molto diffuso ad esempio in merito all’immigrazione o alla sfera della «legge e l’ordine»). Per avere un’idea di un simile atteggiamento partigiano basta ascoltare certi programmi di Radio 24, la radio del Sole 24 Ore.

Che cosa deve pensare, mi chiedo, che sentimenti (e risentimenti) può provare, quella parte del Paese — non proprio minuscola, credo — nel vedersi non solo così continuamente esclusa dalle sue più autorevoli fonti di rappresentazione pubblica, ma palesemente considerata una sorta di sottospecie culturale da tenere di continuo sotto schiaffo? Crediamo davvero che basti il programma di una rete Fininvest che strizzi l’occhio alle passioni di questa Italia «reazionaria» per bilanciare, che so, il Festival di Sanremo, l’evento televisivo in assoluto più ascoltato dell’anno, trasformato disinvoltamente in una manifestazione in sostegno delle varie cause che vanno sotto la sigla dell’«arcobaleno» (a cominciare per l’appunto da quella delle unioni civili)? Che cosa sarebbe successo se il Festival di Sanremo fosse stato dedicato, mettiamo, a esaltare la causa delle «famiglie»?

Naturalmente non sono così sprovveduto da ignorare le tante ragioni per cui tutto ciò avviene. Le buone ragioni per cui in tutto il mondo occidentale i media e la cultura sono dominati da un punto di vista diciamo così «liberal». E cioè il fatto che gli uni e l’altra hanno la loro storica ragion d’essere nella libertà e nell’anticonformismo. Ma anche sapendo tutto ciò non riesco a non stupirmi dell’unilateralità smaccata travestita da devozione ai Lumi, dell’indifferenza per l’opinione dissenziente da parte del noto «giornalista democratico», del celebre «professore liberal». Ma soprattutto sono colpito dall’amore sempre e comunque per la novità, per il cambiamento, per il punto di vista che si presenta come più «moderno», più «avanzato», più «democratico», più «laico», che in Italia domina incontrastato la discussione pubblica. Anche la più colta, anche quando questa riguarda temi come l’istruzione, la scuola, la vita sessuale, la religione, la morte, i rapporti tra le culture. Ambiti rispetto ai quali, se non mi sbaglio, non è proprio così ovvio che cosa voglia dire «progresso», «democrazia» e quant’altro.

Insomma: gli italiani orientati culturalmente e spiritualmente — molto spesso in modo assai ingenuo, se si vuole — in senso lato conservatore, a favore di assetti tradizionali, legati al passato (ma attenzione! con colori politici per nulla uniformi), sono di sicuro un buon numero. Tuttavia nel dibattito pubblico del loro Paese un punto di vista culturale che li rappresenti è di fatto inesistente. Da quando è scomparsa ogni vestigia di Sinistra marxista con la fine del vecchio Partito comunista, e da quando la Chiesa cattolica ha rivolto la sua attenzione in prevalenza verso il «sociale», il campo è dominato per intero da una prospettiva uniformemente e spensieratamente innovatrice-modernista, univocamente assertrice delle verità di oggi. Ci sarebbe la Destra, naturalmente. Ma in Italia, si sa, la Destra ha solo carattere politico. Dal punto di vista ideale, culturale, antropologico, la Destra italiana non esiste o è in tutto e per tutto simile al resto: anzi, è perlopiù una sua brutta copia. Di fronte a un establishment così ideologicamente blindato, quale altra diversità autentica, quale altra protesta sono allora possibili, alla fine, se non quelle distruttive offerte dal populismo? Ernesto Galli della Loggia, Il Corriere della Sera, 13 febbraio 2016

La conferma di quanto scrive Galli della Loggia? La seconda sera del festival, sul palcoscenico dell’Ariston è salito il presidene della Liguria, Giovanni Toti, che a differenza dei colori arcobaleno esibiti spavaldamente da quasi tutti i concorrenti in aperta gara non canora ma di conformismo, esibiva sul bavero della giacca una coccarda tricolore avvolta in un nastro giallo. La coccarda,  ha spiegato Toti nell’indifferenza più totale di Conti,  dei cantanti sul palco  e di gran parte del pubblico in sala, era  dedicata ai due marò, uno dei quali ancora in India, e il nastro giallo era dedicato alle vittime delle Fobe  nel Giorno del Ricordo. Non solo sul palcoscenico dell’Ariston era palpabile l’indifferenza rispetto ai colori arcobaleno esibiti e dipananati più volte da ciascun cantante, ma in rete è immediatamente partita una vera e propria caccia a Toti per aver “guastato” l’atmosfera del festival ricordando i due marò e gli assassnati dai titini.  g.

L’ITALIA CHE CAMBIA….COPIA A NON PERDE IL CONCORSO

Pubblicato il 1 febbraio, 2016 in Il territorio | Nessun commento »

«Aguzzate la vista», invita la Settimana Enigmistica su vignette identiche dove occorre scoprire dettagli diversi. Qui non occorre manco aguzzarla. Per andare in cattedra un docente messinese ha portato al concorso per l’abilitazione in Letteratura italiana contemporanea testi qua e là platealmente copiati di sana pianta. Fin qui, capita. Non è la prima volta, difficile sia l’ultima. Molto più grave è risposta del ministero. Dove si spiega che la commissione, messa davanti alle prove del plagio, ha deciso di non «modificare il giudizio». Chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto…

I protagonisti della storia sono due. Di qua Dario Tomasello, dal 2006 «associato» di letteratura italiana contemporanea all’Università di Messina dove il padre Francesco era allora il potentissimo rettore, destinato a rimanere in carica tra mille polemiche fino al 2013. Di là Giuseppe Fontanelli, lui pure associato nello stesso Ateneo. Punti in comune: l’essere stati entrambi allievi di Giuseppe Amoroso, storico luminare della materia. Destini diversi: al concorsone del 2013 il giovane Tomasello passa, il più anziano Fontanelli no.

«Possibile?», mastica amaro il bocciato. Non si dà pace. Finché, come racconterà alla rivista «centonove», viene «colto da una folgorazione, una chiaroveggenza del caso, uno strappo nel cielo di carta». In pratica, spiega oggi, «ho riconosciuto qua e là nei lavori del Tomasello non solo i pensieri ma le parole stesse di Amoroso e sono andato a controllare: c’erano pagine e pagine non ispirate ma riprese da questo o quel libro con il “copia incolla”. Senza virgolette e citazione dei testi originali».

Un esempio? Primo testo: «La vitalità di osservatore accanito del ciclo della natura spinge Pascoli a cogliere il flusso di un divenire sempre diverso, una trama di suggestioni che si allacciano alla natura umana, facendosi, nell’istante in cui sono isolate, parafrasi della vita quotidiana ed eroica, brulicante di apparizioni, di tentazioni e allegorie…». Secondo testo: «La vitalità di osservatore accanito dell’esistenza spinge Quasimodo a cogliere il flusso di un divenire sempre diverso, una trama di suggestioni che si allacciano alla natura umana, facendosi, nell’istante in cui sono isolate, parafrasi della vita quotidiana ed eroica, brulicante di apparizioni, di tentazioni e allegorie…»

Uguali. Virgola per virgola, tranne due parole (di qua «ciclo della natura», di là «esistenza») ma soprattutto il poeta di cui si parla. Nel primo caso Pascoli nel libro La realtà per il suo verso e altri studi su Pascoli prosatore di Tomasello, nel secondo Quasimodo nel lavoro di Amoroso nel libro collettivo Salvatore Quasimodo, la poesia nel mito e oltre a cura di Finzi.

Cocciutamente deciso a smascherare il plagio, Fontanelli dice di avere per cinque mesi «letto tutto, confrontato tutto, scoperto tutto. O almeno quasi tutto». Messe insieme delle cartelle, mostra pagine e pagine a confronto. Saggio sul futurismo (Bisogno furioso di liberare le parole) di Tomasello: «Il chiuso di un laboratorio talora finisce per avere più brio della felicità plausibile e appagante dell’avventura in pieno sole». Saggio sulla narrativa italiana (Forse un assedio) di Amoroso: «Il chiuso di un laboratorio talora finisce per avere più brio della felicità plausibile e appagante dell’avventura in pieno sole». Ancora Tomasello: «Fra segmentazioni dialogiche, mimesi del parlato, spazi di pura narrazione, l’aggancio ai nodi del reale dispone frattanto i testi nella misura di una cronaca ricca e criticamente più centrata nel cardine dei fatti, nella mostra vitale del tempo». Amoroso: «Fra segmentazioni dialogiche, mimesi del parlato, spazi di pura narrazione, l’aggancio ai nodi del reale dispone frattanto le pagine sulla regola di una cronaca ricca e criticamente più centrata nel cardine dei fatti, nella mostra vitale del tempo».

Ancora Tomasello in L’isola oscena: «L’inventario di questo universo appare un catalogo di sbigottimenti grazie alla posizione inconsueta delle tessere nel quadro, allo sbandato riflesso delle tinte, all’atmosfera di incantamento suggerita dalle angolature, dai coefficienti instabili dell’impianto, dal nervoso punto di vista». Amoroso in Raccontare l’assenza: «L’inventario di questo universo appare un catalogo di sbigottimenti grazie alla posizione inconsueta delle tessere nel quadro, allo sbandato riflesso delle tinte, all’atmosfera di incantamento suggerita dalle angolature, dai coefficienti instabili dell’impianto, dal nervoso punto di vista». E potremmo andare avanti…

«Ho una produzione sterminata e, confesso, non mi ero proprio accorto del presunto “saccheggio”», disse dopo la denuncia Amoroso, «Ad aprirmi gli occhi è stato Fontanelli». Di più: «Non sono Proust, non pretendo che venissero riconosciuti la mia mano, il mio tratto. Questo mai. Non mi permetterei. Ma…». «Ho sempre agito con correttezza e professionalità», rispose Tomasello, minacciando sventagliate di querele.

Fatto sta che, davanti allo scandalo, la «chiamata» dell’accusato come ordinario a Messina fu sospesa e il nuovo rettore Pietro Navarra girò i documenti al Ministero e alla procura di Milano, competente perché lì si era riunita la commissione. Mesi e mesi di attesa, dubbi, polemiche e infine, giorni fa, al rettore messinese è arrivata una lettera del direttore generale del Miur Daniele Livon. La frase che conta è questa: «Visionata la documentazione» la commissione (che lodava il vincitore anche per i «contributi originali») ritiene di «non dover modificare il giudizio di abilitazione già reso nei riguardi del prof. Tomasello». Proprio educativo, per insegnare agli studenti a non copiare……  Gianantonio Stella, Il Corriere della Sera, 1° febbraio 2016

Cosa aggiungere a quanto amaramente chiosa Stella su questo caso di doppio nepotismi, anzi di familismo amorale che nell’Italia che cambia  (a parole), conferma che tutto si cambia perchè tutto rimanga com’è. g.

SHOAH, PERCHE’ RIFLETTERE E’ ANCORA NECESSARIO

Pubblicato il 27 gennaio, 2016 in Costume, Cultura, Politica | Nessun commento »

Ecco, dunque, il 27 gennaio, il «Giorno della memoria». Di nuovo celebrazioni, cerimonie, discorsi di circostanza, dove si ripetono luoghi comuni, mostre stantie, dove anche le immagini, un tempo vivide, sono condannate a divenire icone sbiadite. E tutto per un genocidio che risale a un passato ormai lontano, uno fra i tanti. Sì, perché le pagine della storia sono piene di tragedie analoghe – prima e, persino, dopo la Shoah. Come dimenticare il genocidio armeno, la bomba su Hiroshima, l’eccidio in Ruanda, i massacri in Bosnia? E perché non affrontare l’immane tragedia dei profughi? «Basta con questi ebrei che hanno preteso per anni di avere il monopolio del dolore!». «Basta con questi ebrei che hanno fatto di Auschwitz l’emblema del male assoluto!». «Basta con questi ebrei, il sedicente popolo “eletto” che rivendica una eccezionalità perfino dello sterminio». Come se «unico e incomparabile» fosse il crimine che hanno subìto. «Basta con questi ebrei che dall’Olocausto hanno tratto un redditizio business e ogni anno tornano a presentare il conto». «Basta con questi ebrei che vogliono essere le vittime per eccellenza, come se ci potesse essere una gerarchia, come se le morti non fossero sempre e ovunque uguali per tutti!».

Da anni infuria la polemica sul Giorno della memoria. Si stigmatizzano i cosiddetti «abusi». Si chiede di voltare pagina. Come se il passato non fosse indispensabile per guardare al futuro. È indubbio che la sindrome del «dovere della memoria» ha sortito effetti perversi. Così come è indubbio che, nei Paesi europei, implicati nello sterminio, la cultura, la politica e l’informazione hanno enormi responsabilità. I progetti didattici, che si limitano spesso ai «viaggi della memoria», mostrano tutti i loro limiti. Tra la ragionieristica del lager e l’emozione del momento non c’è spazio per la riflessione critica. Come spiegare altrimenti lo sconcertante aumento dell’odio verso gli ebrei? In Germania le cifre sono ormai da record. La maggior parte dei tedeschi vuole lasciarsi alla spalle Auschwitz e puntare liberamente l’indice contro Israele. L’Italia non è da meno. Ecco perché la polemica sul Giorno della memoria ha il sapore greve dell’antisemitismo, il gusto acre della cattiva coscienza. Non è difficile trovare ciò nel web, dove diffusa è anche la macabra competizione tra i genocidi.

A che cosa dovrebbe servire questa gara? A meno che lo scopo recondito non sia gettare discredito sugli ebrei. Ricordare è pensare. E della Shoah resta ancora molto su cui riflettere. Si deve parlare delle camere a gas, delle officine hitleriane, perché le morti sono tutte uguali – ma non lo sono i modi di morire. Non vogliamo che si ripeta né la fabbricazione dei cadaveri né, tanto meno, quell’esperimento del non-uomo, mai compiuto prima, in cui l’umanità stessa è stata messa in questione. Sebbene sia insopportabile, occorre ricordare quel che è accaduto, perché viviamo all’ombra di Auschwitz e, senza conoscere, si rischia di non ri-conoscere: l’odio per l’altro, il cripto-nazismo, l’antisemitismo. L’Europa non può sottrarsi. Tutto allora iniziò con le frontiere sbarrate ai profughi ebrei, chiuse a un intero popolo, che fu consegnato all’annientamento. Donatella Di Cesare, Il Corriere della Sera, 27 gennaio 2016

TANGENTOPOLI, FELTRI (Vittorio e padre) contro FELTRI (Mattia e figlio)

Pubblicato il 20 gennaio, 2016 in Il territorio | Nessun commento »

Mattia Feltri, figlio di Vittorio, ha scritto e pubblicato un libro-verità sulla vicenda di Tangentopoli il cui titolo, emblematico,  è “93″,  perchè è la storia di un anno, il 1992,  che travolse una intera classe dirigente accusata di ogni nefandezza. Mattia Feltri non la riabilita ma scava in profondità su quella vicenda tratteggiando i profili dei protagonisti e in qualche modo riequilibria colpe e ragioni di tutti. Il padre Vittorio non ci sta ed essendo stato a suo tempo tra i giornalisti che si schierarono senza se e senza ma dalla parte dei giustizialisti dell’epoca, ha  scritto una recensione del libro del figlio  estremamente dura sul Giornale. Gli ha risposto a stretto giro di posta il figlio sulla Stampa. Pubblichiamo nell’ordine i due articoli, non senza consigliarvi di acquistare e leggere il libro di Mattia Feltri. Serve a comprendere ciò che realmente accadde in quell’anno, tra il 1992 e il 1993, nel nostro Paese. g.

PERCHE’ NON SONO D’ACCORDO CON MIO FIGLIO, di VITTORIO FELTRI

Non avrei mai scritto un rigo sull’ultimo libro di mio figlio Mattia, Novantatré (L’anno del Terrore di Mani pulite), se egli non mi avesse, pur con qualche ragione, scaraventato nella discarica dei reietti che seguirono con passione la cosiddetta Tangentopoli, ricavandone la sensazione che fosse un’operazione di giustizia non sommaria, ma diretta a punire i reati commessi dai politici col pretesto di fare politica.

Non voglio impegnarmi in una difesa dalle accuse del mio diletto consanguineo rivolte ai magistrati e ai loro complici, cioè i giornalisti (categoria alla quale non mi onoro di appartenere): sarebbe un esercizio velleitario.

Le opinioni si discutono, ma raramente si cambiano. Tu, caro Mattia, narri con efficacia ciò che accadeva nei giorni del 1993 (e anche del 1992): arresti in massa, il tintinnio minaccioso delle manette che era diventato la colonna sonora di quei tempi funesti, le detenzioni tese a strappare confessioni, le delazioni finalizzate a ottenere la libertà (almeno) provvisoria. Racconti con dovizia di particolari le vanterie della Procura di Milano, la paura che serpeggiava nelle segreterie dei partiti (del Caf), le angosce degli indagati, le varie porcherie commesse nelle stanze del Palazzaccio, la disinvoltura acritica dei cronisti giudiziari che si abbeveravano negli uffici dei Pm e compilavano articoli interamente ispirati dalle toghe.Hai ricostruito fedelmente, con autentico pathos, il clima che si respirava in quegli anni tribolati a Milano: Antonio Di Pietro, oscuro manovale del diritto, all’improvviso salito sul piedistallo riservato agli eroi, venerato come la Madonna, invocato quale purificatore, amato dalle folle perché per primo castigava i reprobi. Hai dipinto un quadro in parte abbacinante e in parte fosco. La realtà, d’altronde, non è mai a tinta unita. Hai reso alla perfezione l’atmosfera diurna dell’epoca. Ma hai completamente trascurato cosa accadeva nelle notti della Prima Repubblica. Di notte entrava in azione la Banda Bassotti. Forse te ne sei dimenticato. Forse ti sei lasciato trascinare dalla vena letteraria e ti sei fissato sulle nequizie della famosa e turpe inchiesta. La smemoratezza è una malattia di molte famiglie, figurati se la nostra ne è immune.

Di giorno i magistrati facevano strage di mariuoli, di ladri e anche di innocenti: ma al calar delle Tenebre, caro Mattia, si perpetravano furti su furti per decenni impuniti, considerati perdonabile routine. Era diffusa la sensazione che la tangente fosse lecita, una pratica di ordinaria furfanteria. I politici che rubavano per il partito non si sentivano colpevoli, erano persuasi di agire per il bene della Patria e non esitavano a riempirsi le tasche di denaro sporco, confondendolo con il proprio e usandolo in proprio per pagarsi le ville sull’Appia Antica, la cui pigione veniva saldata prelevando l’occorrente dal bottino.Su questo è opportuno sorvolare? Essi spendevano e spandevano senza requie. Vivevano ben oltre le loro disponibilità. Con quali mezzi? Da notare che se fregare per il partito non sembra una grave scorrettezza, in verità è gravissima, perché non c’è neppure l’attenuante dello stato di necessità. Rubavano, i politici, allegramente a livello istituzionale. Autorizzati dal superiore principio secondo il quale la democrazia costa. I partiti organizzavano congressi e riunioni faraoniche, cui seguivano serate in discoteca dove scorrevano fiumi di champagne. Chi saldava il conto? Le aziende che versavano le stecche in cambio di lavoro. Ciò faceva comodo anche agli imprenditori, i quali però, se non si fossero piegati alle richieste delle segreterie, sarebbero stati tagliati fuori dagli appalti. Un’opera pubblica da un milione, finiva così per costare due milioni o tre. La spartizione era assai onerosa.Risultato. Il debito pubblico impazziva. E ne soffriamo ancora gli effetti devastanti. Che dovevano fare Di Pietro e i suoi soci, voltare la testa dall’altra parte, fingere di non vedere? I magistrati hanno sbarellato, ansiosi com’erano di salire alla ribalta. Ed io, come altri cronisti, ho assecondato ciecamente un sistema investigativo pressappochistico e dozzinale che, però, se non giustificabile, era comprensibile dato il momento. Un momento di forti tensioni sociali, influenzato ed alimentato dal desiderio di cancellare una classe dirigente incapace (come quella attuale) di amministrare la cosa pubblica, sacrificandola alla saccoccia.Mattia, ti chiedo per quale motivo il pentapartito, che era al governo, non ha mai pensato a legittimare il finanziamento privato della politica. Era nelle sue facoltà approvare una legge in proposito. Non ha mai provveduto a farlo perché, se tutto fosse stato chiaro e controllato, nessuno avrebbe più distratto una lira in quanto ogni partito sarebbe stato costretto a presentare bilanci verificati. Zero margini per appropriazioni indebite. E con quali soldi sarebbero stati liquidati gli affitti delle ville sull’Appia Antica? E chi avrebbe contribuito ad incrementare i consumi della cosiddetta Milano da bere?Non siamo nati ieri, né tu né io; abbiamo uso di mondo e siamo consapevoli di come girasse il fumo negli ambienti politici.

Sono stati trovati conti ricchi all’estero attribuibili a personaggi dei partiti. Ovvio che la magistratura abbia colpito duro, acquisendo poi un potere eccessivo di cui sopportiamo ancora i riflessi. Ti do atto che nel casino generato da Mani pulite, accresciuto dallo sbandamento provocato dalla avanzata della Lega, dal crollo del muro di Berlino, dalla perdita di credibilità dei partiti, si sono compiute nelle indagini delle immonde esagerazioni. Cosicché ha preso piede un giustizialismo che si spiega soltanto con la fregola di spingere la sinistra alla conquista del primato nazionale a spese degli altri partiti. E cara grazia che Berlusconi ha spaccato il giochino degli ex comunisti.Questo è noto a tutti. Ma prima di dire che il dipietrismo è stato solo schifezze occorre riflettere. Tonino non ha violentato un esercito di vergini, ma ha sbaragliato una cosca di ladri che non ebbe il coraggio di varare una legge idonea a porre ordine nella materia. Una classe politica di straccioni. Alcuni dei quali sono stati castigati ingiustamente, ma altri l’hanno fatta franca, per esempio i compagni. E ciò è indigeribile e autorizza a sospettare che le toghe non abbiano agito con troppo zelo. Tuttavia, non sottovalutiamo un fatto: se la Giustizia ha sbagliato al 30 per cento, i ladri della Prima Repubblica hanno sbagliato al 70 per cento. Amen. Peccato che un libro sui grassatori non sia mai uscito, completo.Per concludere. Craxi quando disse che il ladrocinio era un male comune colse nel segno. Sul piano storico e politico pronunciò un discorso condivisibile in pieno. Su quello giudiziario egli aveva torto: non esistono malversazioni a fin di bene. Se il prezzo della democrazia è la disonestà endemica, conviene intervenire col pugno di ferro. Quanto agli errori dei magistrati, non è il caso di enfatizzare quelli a danno dei politici. I cittadini ogni giorno sono vittime di soprusi e angherie in tribunale, e nessun parlamentare di oggi e di ieri ha osato fiatare. Vittorio Feltri

PERCHE’ MIO PADRE SBAGLIA, di MATTIA FELTRI

Giovedì scorso è uscito un mio libro – «Novantatré. L’anno del Terrore di Mani pulite», edito da Marsilio – e ieri il «Giornale» ne ha pubblicato un’ampia stroncatura firmata da Vittorio Feltri, cioè mio padre. Non c’è stupore né amarezza, abbiamo un rapporto eccellente e franco: in «Novantatré» lui è «scaraventato nella discarica dei reietti», per usare le sue parole, ma sappiamo entrambi che non c’è niente di personale. E poi su Mani pulite discutiamo da decenni, io spretato e critico, mio padre più favorevole, sebbene non entusiasta come quando dirigeva l’«Indipendente»; talvolta pare che ci stiamo avvicinando e invece no, ognuno resta al punto di partenza. Ci resta soprattutto lui, che mi rimprovera di trascurare «furti su furti, per decenni impuniti» da parte dei politici che «spendevano e spandevano senza requie» e per questo «il debito pubblico impazziva e ne soffriamo ancora gli effetti devastanti». Dunque «se la Giustizia ha sbagliato al 30 per cento, i ladri della Prima Repubblica hanno sbagliato al 70». Eppure il pentapartito non pensò mai di «legittimare il finanziamento privato della politica» perché sennò «zero margini per appropriazioni indebite». Infine, «Craxi quando disse che il ladrocinio era un male comune colse nel segno. Sul piano storico e politico pronunciò un discorso condivisibile (…) su quello giudiziario egli aveva torto: non esistono malversazioni a fin di bene».

Sono un po’ in imbarazzo perché la disputa mi sembra fuori fuoco: la disonestà generale della classe politica non è contestata, ma è il presupposto – nell’introduzione avverto che il libro non è negazionista, «le mazzette c’erano, i colpevoli c’erano, il sistema era talmente diffuso da coinvolgere tutti…» – esattamente come era il presupposto di Bettino Craxi che nel luglio del 1992, all’alba della grande inchiesta, riconobbe davanti a un Parlamento silente e vile che «fioriscono e si intrecciano casi di corruzione e di concussione, che come tali vanno definiti, trattati, provati e giudicati». Né impunità né «malversazione a fin di bene», piuttosto Craxi aggiunse che nessuno aveva diritto di nascondersi dietro un’onestà provvisoria, e da questa considerazione, politica, non penale, bisognava trarre le conseguenze. Un nuovo regime fondato sulla menzogna delle mani pulite vincenti sulle mani sporche non sarebbe andato lontano. Come poi si è visto.

Mi spiace che le mie pagine vengano lette come i tempi supplementari del derby politica-magistratura. Non ci credo più da secoli. La magistratura fu pessima come pessimi fummo tutti noi, semmai disponeva di armi micidiali; al linciaggio del pentapartito, che ci aveva tenuti dalla parte giusta della storia, e cioè lontani da Mosca, parteciparono in massa con sanguinario disincanto i giudici e gli ex comunisti, seconde file della politica e imprenditori, giornalisti e popolo eccitato, tutti a ritagliarsi uno spazio e un ruolo nell’Italia che rinasceva, e a ritagliarselo all’ultimo minuto, come al solito. Si esultava collettivamente a ogni arresto e a ogni suicidio perché avevamo trovato il capro espiatorio. E fummo così inconsistenti e sprovveduti da restare senza fiato quando si andò a sbattere contro l’esito della scalcagnata rivoluzione: nel ’93 avevano diritto di cittadinanza soltanto i partiti eredi delle tradizioni assassine del Novecento, postcomunisti e postfascisti, condannati dalla storia, ma assolti in tribunale. Ed era già troppo tardi.

Il mio libro si chiama «Novantatré» (come ha capito perfettamente Gianni Riotta, che lo ha recensito per la «Stampa») ma si potrebbe chiamare Sedici. Perché da ventitré anni continuiamo a raccontarci una favoletta insopportabile: tutta colpa della casta. Anche mio padre fa risalire il debito pubblico anzitutto alle tangenti, quando invece è stato contratto per garantire un colossale assistenzialismo fatto di welfare e pubblico impiego, per sopportare l’assenteismo degli statali e l’evasione fiscale degli autonomi: chi viveva e continua a vivere al di sopra delle proprie possibilità è un Paese intero. Il problema del «Novantatré» è lo stesso problema del Sedici: la malattia sono gli italiani. Se abbiamo questa politica e questa magistratura e questo giornalismo è perché siamo questa Italia. Mattia Feltri

DA IAN PALACK AGLI SFASCIATORI DI LIBRERIE, di Emanuele Ricucci

Pubblicato il 16 gennaio, 2016 in Costume, Cultura | Nessun commento »

Il 16 gennaio del 1969, un giovane di universitario praghese di 19 anni, Jan Palach, si dava fuoco, suicidandosi,  nella centralissima Piazza San Venceslao della sua città, estrema e altrettanto ponderata protesta contro il regime comunista che governava dispoticamente Praga e l’allora Cecoslovacchia e l’intero Est europeo.  Dovevano trascorrere  altri 20 ani prima che il sacrificio di Palach trovasse la santificazione con la liberazione di quasi tutto l’Est europeo dal giogo comunista. Ma oggi, dopo 47 anni dalla sua morte eroica, cosa è rimasto di Jan Placah e del suo sacrificio? Così lo ricorda  nel suo blog Emanuele Ricucci. g.

C’era una volta Jan Palach. Lo racconteremo come una favola, perché se ne addolcisca il ricordo e rimanga leggero, perché sia piacevole parlarne e si smussi il dolore.

La sua generazione, e quella prima di lui, poi le successive, fino alla nostra, l’odierna. Dal trionfo nazionale al tonfo capitale. La metamorfosi, i segni della putrefazione, dal vitalismo al nichilismo solo andata. Speriamo nel Ritorno.

C’era una volta chi si dedicava l’esistenza, percorrendola, interpretandola, cavalcando le innumerevoli tigri della gioventù, e lo faceva lucidamente e consapevolmente, trovando un approdo sicuro in una lotta animata e muscolare, per l’affermazione della sovranità, senso imprescindibile per chi si ammanta di una certa identità. Jan Palach. Ancora arde il suo spirito in quella Piazza S.Venceslao, a Praga, il 16 gennaio del 1969. Ancora si sente l’odore acre del suicidio di un giovane martire europeo che vedeva una nuova speranza in una nuova primavera, repressa dall’aberrazione sovietica, da quel immenso cuscino al cloroformio sui volti delle generazioni libere. Un giovane vivo e cosciente. Tutto qui, nulla di santo e filosofico, etereo o irraggiungibile. E quell’estremo gesto, la decisione di darsi fuoco sulle scale del Museo Nazionale di Praga, quell’idea che montava in lui, giorno dopo giorno, ragionata, ponderata, macinando sentimenti, tra una lezione e l’altra all’Università, quel normale approccio non conforme, che fungeva da barricata di chiodi e legno verso chi spingeva per un’intensiva e frettolosa massificazione, verso chi imponeva silenzio alle libertà di una nazione, per chi plasmava con la violenza l’egemonia. Un gesto simbolo di una sanità generazionale. Un esempio di sacrificio combattente per quell’Europa.

La bella morte, la fine eroica, come Mishima, la massima purificazione, amara ambizione, forse anche illogicamente folle, che non trovava consolazione in una fede religiosa, ma confidava nella forza dell’anima, unico residuo di eternità in un mondo e in un corpo finitissimo.

Sogni di rock ‘n roll e guai a chi ci sveglia”, canterebbe oggi il nostro teneramente duro Ligabue. Sono sogni che tramutano in incubo a velocità elevata. Oggi le cose sono cambiate, eccome. Qualcuno sembra aver abituato le nuove leve a lottare per la Patria mondo, un po’ nomade, un po’ “dove c’è Barilla, c’è casa”, per formare le colonne del villaggio globale, in cui tu casa es mi casa, tu cane es mi cane, tu madre es mi madre, tu dinero es mi dinero, tu pericolo es mi pericolo, tu problema es…come il mio, non il mio. E da lì in poi, ecco interi blocchi di gioventù entrati nel Common Village, dotato dei migliori comfort tecnologici, in cui si può essere sempre informati di come va il mondo, senza strapparsi minimamente la bella blusa blu. Sì, ogni tanto qualche imbecille parte a fracassare vetrine o lanciare estintori ma sa che quando tornerà sarà al sicuro, tra un falso mito di libertà ed i titoli del Tg che gli annuncerà che la guerra, quella vera, è lontana, lontana parecchio. Come a Firenze, alla libreria “Il Bargello”, un paio di giorni fa. Completamente distrutta. Con il mondo intorno in piena crisi isterica e un’Italia sodomizzata, c’è ancora chi sfascia le librerie in nome dell’antifascismo, manifestazione platonica di un’insicurezza e di una vacuità mor(t)ale imbarazzante, residuato bellico degenerato e anacronistico. Una flotta di ragazzotti, un misto tra il Klu Klux Klan e i sette nani, V per Vendetta e Manu Chao dopo il concerto, ha pensato bene anche di aggredire l’unica ragazza presente nel locale che, alla Nazione, ha dichiarato: “mi hanno preso per i capelli e soprattutto mi hanno picchiato violenza con una spranga di ferro. Per fortuna sono riuscita a scappare in bagno”.

Farete “la fine di quelli di Acca Larentia”, avrebbero urlato i coraggiosi incappucciati prima di dileguarsi.

Nessuno chiede redenzione, né conversione (non scherziamo…), almeno dignità nel comprendere la realtà comune che degenera verso la decadenza.

Qualcosa, evidentemente, è andato storto.

Così tra annichiliti davanti a Call of Duty, devastatori di librerie, tra europeissimi e giovani volontari della Jihad reclutati sul web, riserve di rivoluzionari da tastiera, indifferenti, non tesserati, mai schierati e un filo pretenziosi barbari giovanotti, mi tengo la favola reale di un giovane che per amor di patria, si diede fuoco sulle scale, chiedendo ai miei coetanei, con la voce rotta dall’amarezza, in un’accorata preghiera, ciò che Albert Camus riuscì, nella sua grandezza, a sintetizzare con lucidità: «Ogni generazione si crede destinata a rifare il mondo. La mia sa che non lo rifarà. Il suo compito è forse più grande: consiste nell’impedire che il mondo si distrugga». Emanuele Ricucci.

NELLE SOCIETA’ DEMOCRATICHE ESISTE CORRISPONDENZA TRA LEGGI E VALORI, di Ernesto Galli dlla Loggia

Pubblicato il 13 gennaio, 2016 in Costume, Cultura, Politica | Nessun commento »

Sarebbe buona norma che prima di criticare un testo lo si leggesse con un minimo di attenzione. Mi sorprende che invece Carlo Rovelli — per giunta uno scienziato di vaglia — si sia fatto prendere dalle sue emozioni e dai suoi pregiudizi obiettando a cose che io non ho mai scritto.

A differenza di quanto egli mi attribuisce non ho mai scritto, infatti, che «la nostra società deve essere guidata da un sistema di valori e dalle regole dettate (corsivo mio) dai comportamenti socialmente ammessi». Ho scritto di condividere l’opinione della cancelliera Merkel secondo cui chi immigra da noi deve integrarsi «nel sistema di valori, di regole e di comportamenti socialmente ammessi che vigono da noi». Come si vede una cosa ben diversa da quella immaginata da Rovelli (non ho mai pensato né scritto, cioè, che debbano essere i comportamenti socialmente accettati a dettare le regole. E mi chiedo: può specialmente un uomo di scienza permettersi una simile leggerezza? Può farne l’architrave del suo ragionamento senza accorgersi dell’errore?).

Il fraintendimento ora detto, chiamiamolo benevolmente così, consente a Rovelli, che vi insiste più e più volte, di prodursi in una lunga discettazione sulla necessità che le nostre società siano «regolate dalle leggi, non da sistemi di valori e giudizi individuali su cosa siano comportamenti socialmente ammessi», sdegnandosi adeguatamente del fatto che io, invece — secondo l’opinione che egli manipolando le mie parole mi attribuisce — auspicherei il contrario.

Evviva le leggi, abbasso i valori: questo è la sostanza del punto di vista di Rovelli, convinto, si capisce benissimo, di esprimere in tal modo una visione altamente democratica e razionale come si conviene a un vero scienziato. Peccato però che in questo caso si tratti di un punto di vista e di una visione sbagliati. Le leggi di una qualunque società, infatti, derivano da null’altro che dai suoi valori. E da dove altro se no? Salvo rarissimi casi tra le une e gli altri non vi può essere che una sostanziale coincidenza: pena, altrimenti, la non osservanza delle prime o la necessità di dure misure repressive per ottenerne il rispetto. «Le leggi vengono discusse dalla politica» scrive Rovelli. Appunto: e su che cosa egli crede che verta tale discussione, che cosa crede che rispecchi la sua conclusione in un testo legislativo, se non ciò che pensa, che crede, che spera chi vive in quella società? Cioè i suoi valori? Valori che poi, naturalmente, non possono non influenzare in modo significativo anche i comportamenti socialmente ammessi. In ogni società — e tanto più direi nelle società democratiche — tra leggi, valori e comportamenti c’è una sorta di necessaria circolarità, di necessaria corrispondenza (esattamente come io avevo scritto nella frase da Rovelli manipolata).

L’evidente scarsa dimestichezza di Rovelli con tali argomenti si manifesta in pieno quando egli si mette a parlare della cultura in generale e di quella della nostra penisola in particolare (ma in fin dei conti lo capisco: non si può possedere in eguale misura la bibliografia sui neutrini e quella sulla storia d’Italia). Cultura è una parola complessa, dalle molte accezioni; un po’ come filosofia. Ebbene Rovelli parla di cultura come chi a proposito di filosofia parlasse allo stesso modo della filosofia idealistica e della «filosofia del parmigiano», cioè non distinguendo la sostanziale differenza tra gli usi diversi dello stesso termine. Certo che «ogni cultura non è mai unica», come un po’ alla buona scrive Rovelli. Certo che ogni cultura degna di questo nome si forma attraverso la confluenza nel proprio alveo di influssi e ibridazioni. Ma l’alveo è decisivo, per l’appunto. E ogni alveo è diverso da un altro. Dunque, credere che l’Italia sia un esempio preclaro di multiculturalismo solo perché della sua identità fanno parte cose diverse come il Rinascimento toscano e l’Illuminismo milanese, o perché Peppone e don Camillo votavano partiti opposti, è un’idea di un’approssimazione e di un’ingenuità che un minimo, ma proprio un minimo, di preparazione sull’argomento sarebbe stata sufficiente ad evitare. La verità è che non ci si può mettere a sentenziare su queste cose in modo impressionistico, basandosi su un buon liceo e sulla lettura dei giornali. È come se io mi mettessi a disquisire sui «buchi neri» o a dire la mia sugli anelli di Saturno.

Egualmente è di un’ingenuità e di un’approssimazione intellettuali da far cadere le braccia credere, come il mio interlocutore crede, che la cultura italiana di oggi sia profondamente diversa da quella dei nostri nonni. Cioè, bisognerebbe dedurne, che la cultura di un Paese — quella vera, quella profonda, frutto di innumerevoli stratificazioni a cominciare da quella religiosa — cambi ogni settanta, ottanta anni. Non è così. Ciò che cambia è semmai il costume, caro Rovelli, il costume, non la cultura, non i tratti dell’identità e dei suoi valori di fondo. Sono cose assai diverse, come lei sa, e la conoscenza dovrebbe consistere innanzi tutto nella capacità di distinguere.

Che dire infine di New York, Shanghai o Mumbai additate in queste righe quali eden di una «tolleranza serena delle diversità», della «convivenza pacifica», di «un senso civico comune», di «una nuova identità plurale»? Ma ha mai provato chi scrive tali cose a passeggiare di notte nel Bronx o a tenere un comizio antigovernativo su un marciapiede del Bund? Ed è mai venuto a conoscenza che, certamente non nei quartieri centrali di quella grande città, ma sicuramente in moltissime zone dell’India, essere cattolico è, per esempio, un’impresa a rischio che si può pagare con la vita, ovvero, per dirne un’altra, che lo stupro delle giovani donne è pratica diffusa, molto spesso ancora oggi impunita? Ma andiamo, di che cosa stiamo parlando?

La verità è che il multiculturalismo di cui parla Rovelli e che suscita la sua entusiastica adesione non ha molto a che fare con nulla di reale, con la storia, con le culture, con i problemi reali (da lui infatti del tutto ignorati perché, immagino, attribuiti a pure «superstizioni» che il progresso prima o poi cancellerà). È un multiculturalismo da vip lounge aeroportuale, un multiculturalismo da campus di Yale, da prestigiose summer school riservate ai «migliori studenti», come egli scrive. Un mondo levigato e confortevole dove regna il politically correct che lo obbliga a credere che esistano leggi disincarnate dettate da una morale universale mentre — che bello! — in una strada da qualche parte «i giovani di tutto il mondo si parlano ». È il mondo al riparo del mondo dove solo può vivere in un cieca autoreferenzialità l’idillio buonista di tante élite intellettuali dell’Occidente, avvolte nel compiacimento dei privilegiati che neppure sospettano di esserlo. Ernesto Galli della Loggia, Il Coriere della Sera, 13 gennaio 2016

DUE CAPITALI NON FANNO UNA NAZIONE: IL DUALISMO FRA ROMA E MILANO

Pubblicato il 30 novembre, 2015 in Costume, Politica, Storia | Nessun commento »

La chiusura dell’Expo (dopo il successo che sappiamo) e la contemporanea apertura del processo di Mafia Capitale (con tutti i retroscena che in gran parte invece ancora non sappiamo) hanno riproposto la dualità Milano-Roma: naturalmente tutto a vantaggio della prima. Anche se il modo in cui tale dualismo viene ancora oggi rubricato – «capitale morale» da un lato, «capitale politica» dall’altro: ed è ovvio da che parte sia il primato – è uno stereotipo che non spiega molto.

In realtà, quello tra Milano e Roma non è un dualismo tra due città. È il dualismo tra due pezzi della storia d’Italia, che lo Stato nazionale non è finora riuscito a rimettere insieme, e che forse mai riuscirà. Anche perché mentre Milano costituisce la parte di un insieme più vasto, Roma, al contrario,
è totalmente un caso a sé. E proprio in questa sua assoluta specificità sta tra l’altro l’origine dei suoi mali attuali: forse addirittura della loro irrimediabilità.

Roma non ha mai conosciuto la dimensione municipale di cui Milano è stata ed è, viceversa, un esempio tra i maggiori nella Penisola (che, come si sa, ne annovera numerosissimi altri, tutti concentrati nel Centro-Nord). Né è mai stata la capitale di un vero Stato regionale come Napoli o Torino, che proprio per questo, infatti, sono le uniche e vere rappresentanti storiche della tradizione statale italiana. Lo Stato pontificio d’altra parte è rimasto nei secoli un puro attributo patrimoniale della Santa Sede, sia pure con una significativa capacità d’innovazione. Capitale di nulla, Roma ha perciò visto da sempre la propria identità legata in modo indissolubile a una dimensione transnazionale, tendenzialmente mondiale. Il rapporto di Roma con la Chiesa è così profondo, consustanziale, infatti, proprio perché esso ripete quello con l’impero dei Cesari: la Città e il Mondo. Nella Chiesa Roma vede il solo referente rimasto di quella tensione all’universalità che sente intimamente sua.

Legata alla Santa Sede, e al tempo stesso luogo delle più celebri rovine d’Europa, Roma è rimasta nei secoli una sorta di città santuario, una meta di pellegrinaggi sia religiosi che laici. Priva di una vera identità civica (e quindi di un possibile patriottismo civico), il suo popolo, nella sostanza, è stato nei secoli una plebe di servitori, legata a una funzione di servizio per il turismo confessionale e culturale. All’altro estremo della scala, l’aristocrazia. Ma priva di una vera corte, tenuta lontana da veri compiti di governo, impossibilitata a servire in un vero esercito, essa è sempre rimasta particolaristica e feudale nell’animo, con frequenti tratti di rusticità che le venivano dal suo stretto rapporto con il contado. Che erano poi i medesimi tratti dominanti nella cerchia dei suoi amministratori, dei mercanti di campagna, degli alti dipendenti laici del Vaticano, il «generone». Chi voglia farsi di tutto questo un’idea più precisa non ha che da leggere i sonetti di Belli, il massimo testo di sociologia scritto sulla Città dei Papi. Nei quali non a caso, però, non compare mai una figura che possa dirsi quella di un vero borghese. La borghesia romana, infatti, l’hanno cominciata a formare dopo il 1870 gli impiegati piemontesi dello Stato italiano. Il Vaticano, dunque, e poi lo Stato: insomma la politica, il potere. È stata costituita da questi materiali la vera cultura civica, se così può dirsi, della Roma contemporanea. La quale, pur essendo sede della statualità italiana, non ha però mai avuto nulla in comune con quella cultura dello Stato che si esprime tipicamente nella legge e nell’idea di un ordine. Per Roma lo Stato è solo la politica e il potere, questi solo contano. Per il resto lo Stato le è totalmente estraneo: da qui la dimensione di a-legalità che le è propria e che, come si capisce, è solo a un passo dall’illegalità.

Ma a ben vedere non è la stessa estraneità – sia pure di origine e natura assai diverse – che verso lo Stato nutre Milano? Qui è innanzi tutto la cultura del fare, dell’intraprendere, del commercio, che scava un invalicabile fossato tra la propria innata praticità e l’astrattezza procedurale della macchina burocratico-statale, tra il suo quotidiano tirarsi su le maniche e l’apparente vuotaggine dell’attività politica, per tanta parte fatta necessariamente di parole. La «moralità» di cui Milano si vuole capitale, più che esibizione di una superiore onestà dei singoli (Dio sa quanto difficile da dimostrare), è innanzi tutto rivendicazione della supremazia etica del fare. Per questo Milano piace e punta su di lei chi siede al governo del Paese desideroso di bruciare le tappe, insofferente delle procedure: chi vuole rappresentare l’operosità modernizzatrice, chi come un vero imprenditore desidera vedere tornare il conto dei propri voti in tempi brevi, chi la pensa come il luogo elettivo dove bisogna sfondare per conquistare l’Italia. Come Craxi trent’anni fa, come oggi Matteo Renzi: il quale infatti a Milano ci va di continuo, vi fa grandi progetti, le promette soldi in quantità, qui si spende per trovarle un sindaco. Mentre di Roma visibilmente gli interessa poco, preferendo lasciarla alle infami risse del Pd e al Papa con il suo Giubileo. Su Roma, in realtà, nella storia dell’Italia novecentesca, ha puntato solo Mussolini, che nelle sue allucinazioni di autodidatta romagnolo carducciano-nicciano vi vedeva il piedistallo di un ruolo suo e dell’Italia, proiettato non a caso sulla scena mondiale (l’Italia essendosela già presa con la famigerata «marcia»). Dopo Mussolini c’è stato solo Andreotti. Ma in questo caso non già perché egli avesse di mira il mondo, bensì perché per Andreotti ciò che veramente importava, alla fine, non era né l’Italia né altro: era solo il Vaticano.

Dunque il Municipio e l’Urbe-Mondo. Il fare senza lo Stato da un lato, e dall’altro la politica senza legge e senza ordine. Milano e Roma: questo dualismo tuttavia non fa una nazione. E infatti per molti aspetti il problema storico dell’Italia, così come alcuni problemi più concreti dell’oggi, vengono per l’appunto dalla difficile, forse impossibile, integrazione delle sue due più importanti città nella dimensione nazionale. Una dimensione che nello sfacelo attuale dell’Unione Europea, forse, però, non è molto saggio continuare anche idealmente a ignorare. Ernesto Galli della Loggia, Il Corriere della Sera, 30 novembre 2015

ATTENTATI DI PARIGI, BATTAGLIA CULTURALE SENZA IPOCRISIE, di Ernesto Galli della Loggia

Pubblicato il 16 novembre, 2015 in Cultura, Politica, Politica estera | Nessun commento »

Come faccia il terrorismo che tutti, ma proprio tutti, definiscono islamista a non avere nulla a che fare con l’Islam, è qualcosa che dovrebbe, mi pare, richiedere una spiegazione. Che invece non ci viene mai data dai tanti che pure ci ammoniscono con severità a tenere separate le due cose. L’unica spiegazione talvolta offertaci circa l’obbligo di tale separazione starebbe nel fatto che la maggior parte delle vittime del terrorismo suddetto – a Bagdad per esempio, o a Beirut o ad Aleppo o al Cairo – sarebbero in realtà proprio degli islamici. Il che è vero: peccato però che nessuno dei mille attentati commessi in quei luoghi sia mai stato rivendicato, che si sappia, con proclami a base di citazioni di «sure» del Corano e di relative maledizioni contro gli «infedeli»: come invece è la regola quando nel mirino è ieri Parigi o in genere l’Occidente. In realtà, a Bagdad o a Beirut, l’impiego del tritolo o del kalashnikov corrisponde semplicemente al modo oggi più comune da quelle parti di regolare i conflitti politici con gli avversari. L’impiego ad uso bellico dei testi sacri, insomma, è riservato soltanto a noi. Dunque, smettiamola di nasconderci dietro un dito: la religione c’entra eccome. Innanzi tutto perché islamici ferventi e religiosamente motivati sono i terroristi, e poi per un’altra importante ragione.

Perché ciò che lega le mani all’islamismo moderato – che senz’altro esiste ed è maggioritario – impedendogli regolarmente di farsi sentire e di opporsi alle imprese sanguinarie degli altri, è per l’appunto il ferreo ricatto della comunanza religiosa. Ed è sempre questo ricatto-vincolo che a suo modo crea nella gran parte dell’opinione pubblica islamica, nelle sterminate folle delle periferie come negli strati più elevati, se non una qualche tacita complicità, certamente l’impossibilità di dissociarsi, di schierarsi realmente contro. Ciò che a propria volta vincola in misura determinante anche l’azione dei governi di quei Paesi.

Ma se le cose stanno così, se per l’esistenza del terrorismo è decisiva l’esistenza di questo ampio retroterra costituito e cementato dal fortissimo ruolo identitario della religione, non è forse qui, allora, a proposito di questo ruolo, che l’Occidente dovrebbe impegnarsi in uno scontro, lanciare una sfida? Certe guerre non si vincono solo militarmente grazie alle armi (che pure sono importanti e vanno impiegate fino in fondo) ma anche con altri strumenti.

Non si tratta di dichiarare né una guerra tra civiltà né una guerra tra religioni. Bensì di iniziare un’analisi, una discussione dai toni anche aspri se necessario, sugli effetti che ha avuto per l’appunto il ruolo identitario della religione islamica sulle società dove essa storicamente è stata egemone, una discussione su che cosa sono queste società, e sulle vicende storiche stesse del mondo islamico, forse un po’ troppo incline all’oblio e all’autoassoluzione. Un confronto-scontro con quel mondo di carattere eminentemente culturale. In sostanza lo stesso confronto-scontro che la cultura laico-illuministica occidentale ha avuto per almeno due secoli con il Cristianesimo e con la sua influenza storico-sociale, ma che viceversa si mostra quanto mai restia ad avere oggi con l’Islam. Riducendosi così a menare scandalo, magari, per il mancato ma-trimonio dei gay a Roma ma in pratica a non dire nulla sulla loro impiccagione a Teheran, o sulla lapidazione delle adultere a Islamabad.

Il modo migliore per aiutare l’Islam moderato a liberarsi del ricatto religioso, delle sue paure di lesa solidarietà comunitaria, è proprio quello di incalzarlo a un confronto senza mezzi termini con un punto di vista diverso che non abbia paura della verità. Un punto di vista fatto proprio dai media, dagli scrittori, dagli intellettuali occidentali, che quindi chieda conto di continuo a quell’Islam del perché mai quasi sempre nel suo mondo le donne debbano essere tenute in una condizione di spaventosa inferiorità, perché nei suoi Paesi non si traduca un libro (tranne il Mein Kampf e I Protocolli dei Savi di Sion , con tirature da capogiro), perché non ci sia mai un’importante mostra d’arte, perché costruire una chiesa o una sinagoga debba essere vietato, perché essi non abbiano sottoscritto se non parzialmente le dichiarazioni sui diritti dell’uomo, perché in genere si faccia così poco per debellare l’analfabetismo. Un confronto che chieda il suo giudizio su ognuna di queste cose, e crei l’occasione per ascoltarlo e discuterne. Dare per scontata l’esistenza di un Islam moderato ma poi non cercare un confronto con esso non ha senso.

Un simile confronto potrebbe anche servire a dissipare l’unilateralità vittimistica con cui troppo spesso l’opinione pubblica islamica, anche quella moderata, è portata a vedere il rapporto storico tra il mondo islamico stesso e quello cristiano. Potrebbe servire a ricordare, per esempio, che le Crociate furono soprattutto una debole e caduca risposta (per giunta limitata alla Palestina e poco più) alle immani conquiste militari realizzate dall’Islam nei tre secoli precedenti di territori in parte cristiani come il Nord Africa. O ricordare, per fare un altro esempio, che i massacri compiuti nel 1945 e in seguito dal colonialismo francese in Algeria non hanno avuto certo nulla da invidiare a quelli, ancora più efferati, commessi dalla Turchia mussulmana ai danni dei cristiani in Bulgaria a fine Ottocento.

Il terrorismo islamista e il suo richiamo religioso si nutrono in misura notevole degli autoinganni, dell’ignoranza della realtà storica, delle vere e proprie falsificazioni, che hanno più o meno largo corso nelle società che gli stanno dietro, e che da lì arrivano anche alle comunità islamiche in Europa. È di questi succhi velenosi che si nutre la formazione elementare di molti dei suoi adepti. Se a costoro si riuscisse a svuotare un poco l’acqua in cui nuotano, o a chiarirgli appena un po’ le idee prima che imbraccino un mitra, non sarebbe un risultato da poco. Ernesto Galli della Loggia, Il Corriere della Sera, 16 novembre 2015

C’e un passo di questo editoriale di Galli della Loggia che è fondamentale “ si chieda conto di continuo a quell’Islam ( quello cosiddetto moderato)  del perché mai quasi sempre nel suo mondo le donne debbano essere tenute in una condizione di spaventosa inferiorità, perché nei suoi Paesi non si traduca un libro (tranne il Mein Kampf e I Protocolli dei Savi di Sion , con tirature da capogiro), perché non ci sia mai un’importante mostra d’arte, perché costruire una chiesa o una sinagoga debba essere vietato, perché essi non abbiano sottoscritto se non parzialmente le dichiarazioni sui diritti dell’uomo, perché in genere si faccia così poco per debellare l’analfabetismo”. Solo dopo che si sarà data risposta   a questi quesiti e sopratutto si sarà posto rimedio vero, effettivo, efficace a quello che sinora accade nell’Islam moderato  si potrà avviare una vera e reale integrazione fra le due culture e rendere inoffesivo il terrorismo che su queste contraddizioni  fonda il suo potere. g.

L’ARTE DI CONVIVERE, di Massimo Grimellini per La Stampa

Pubblicato il 13 novembre, 2015 in Il territorio | Nessun commento »

Si può proibire a dei bambini delle elementari una passeggiata di bellezza tra la «Crocifissione Bianca» di Chagall e i quadri a soggetto religioso di Guttuso e Van Gogh «per venire incontro alle sensibilità delle famiglie non cattoliche»? Succede alla scuola Matteotti di Firenze, dove alcuni genitori denunciano la cancellazione di una visita alla mostra di Palazzo Strozzi dedicata al rapporto tra arte e sacro.

Sarà un ragionamento insensibile, ma se alcune famiglie musulmane (la tartufesca definizione di «non cattoliche» si riferisce ovviamente ed esclusivamente a loro) si considerano così urtate dalla presenza di qualche croce in un museo, possono sempre tenere i figli a casa, senza per questo che a casa ci debbano restare pure tutti gli altri. Altrimenti il prossimo passo sarà mettere all’ indice il Battistero e la cupola del Brunelleschi, con il risultato che per non urtare la sensibilità di chi arriva da fuori si urterà terribilmente quella dei fiorentini, non meno meritevole di tutela.

Quando si parla di integrazione, si gira sempre intorno allo stesso tema: la mancanza di reciprocità. Per un occidentale, credente o ateo che sia, visitare una moschea o una mostra di mosaici non rappresenta un problema. Per molti musulmani, invece, l’ esistenza di altre culture intrise di simboli religiosi genera disagio o addirittura insofferenza. Questa mancanza di reciprocità vanifica ogni slancio di comprensione. Se gli sforzi vengono fatti sempre da una parte sola, alla fine producono esiti grotteschi come a Firenze. Alimentando per reazione un riflesso, questo sì reciproco, di chiusura. Massimo Grimellini, La Stampa, 13 novembre 2015

…….Da ieri ne stanno parlando tutti i giornali. Si tratta di un atto di razzismo al rovescio, anzi di intolleranza religiosa all’incontrario. Ma si tratta anche di un atto di estrema stupidità da parte di insegnanti che per dar prova di presunta “tolleranza” religiosa verso i mussulmani a danno dei cattolici,  hanno finito col commettere un atto di intolleranza religiosa nei confronti di bambini cui si è impedito di accedere alla visione di grandi artisti che tra le altre opere  hanno anche dipinto soggetti religiosi la cui natura immortale ed eterna non può essere ostaggio di sciocche e puerili manifestazioni di presunto “politicamente corretto”. Rispetto alla gravità del fatto che fa coppia con altri casi che si sono avuti nel recente passato (il mancato allestimento del presepe in alcune scuole, emulato i queste ore dal governo di sinistra della  Città di Madrid che a sua volta ha deciso di non allestire il presepe in città con le stesse motivazioni delle insegnanti di Firenze) non basta la denuncia giornalistica, il sarcasmo di Gramellini, la dichiarazione di “insensatezza” da parte del sindaco di Firenze, bisogna che il ministro della P.I.intervenga con provvediemti disciplinari nei  confronti delle insegnanti di Firenze che dissennatamente hanno deciso di privare gli alunni di loro diritti e anche di professare la loro religiosità. Ancor più il provvedimento disciplinare deve   riguardare i dirigenti scolastici che troppo spesso abdicano alle loro funzioni di controllo e talvolta si compiacciono di essere a capo di istituzioni che sopravanzano le leggi dello Stato e ancor più quelle del buon senso. g.