Bruno Contrada porta sulle sue spalle di condannato per partecipazione ad associazione mafiosa il peso di 76 anni e mezzo di vita. Lo porta male, anche perché gli ultimi quindici anni sono stati infernali, così duri e dolorosi che definirli usuranti è un eufemismo. Contrada è stato risucchiato in un tritacarne giudiziario attivato da «pentiti» e ne è uscito come un traditore dello Stato, una specie di «quinta colonna» della mafia negli apparati investigativi, un Giuda. Il processo non è stato – per il modo in cui è nato e per le tortuosità e suggestioni che lo hanno segnato – un esempio di limpidezza, ma non è questa la sede per contestarne l’esito. C’è una sentenza passata in giudicato, dieci anni di carcere, e c’è un condannato che a furia di gridare la sua innocenza, ha moltiplicato per mille la sua sofferenza, invecchiando anzi tempo, offrendo ai fotografi l’immagine di una canizie malsana e gli occhi di un disperato senza domani. Chi lo ha visto nel suo abbandono di carcerato senza permessi, che ha già scontato più di tre anni, teme che sia vicino alla fine. Colpito e affondato.
Da questa consapevolezza sono nate due iniziative: la richiesta della grazia e l’istanza di differimento della pena, che poi significa la concessione dei domiciliari o il trasferimento in un’unità sanitaria. Ma è a questo punto che scoppia la bagarre. Il nostro sistema penal-giudiziario può essere generoso, buonista e lassista per moltissimi, ma non per tutti. C’è stata una prima dichiarazione di contrarietà per la grazia, poi tante altre, così come un sasso può provocare una valanga. I congiunti di vittime della mafia insorgono: Bruno Contrada non può avere sconti, deve restare inchiodato nella sua cella, monito vivente, anzi morente, della maestà punitiva dello Stato. Bisogna aver rispetto del dolore e del desiderio di giustizia delle vittime della mafia, ma siamo sicuri che Bruno Contrada sia realmente responsabile dell’enorme grumo di dolore e di sangue che la mafia ha provocato?
Ad ogni modo, colpisce la straordinaria diversità che segna la solidarietà per i condannati. Per Adriano Sofri, pure inchiodato da una sentenza definitiva, s’è mossa una legione di anime belle, pronte ad agitare la ragione umanitaria delle cattive condizioni di salute. Per Ovidio Bompressi la grazia c’è stata. Per Contrada, pietà l’è morta? Forse no, ma è soggetta alle regole della lottizzazione e del «politicamente corretto». La pietà mediaticamente amministrata segue il vento delle fazioni e del pensiero ufficialmente dominante, di sinistra, anche se lontanissimo dagli umori della maggioranza dei cittadini. La singolare permissività dimostrata nei confronti di assassini, stupratori e rapinatori ha disseminato rovine nel panorama della giustizia italiana, dove adesso svetta l’intransigenza giacobina per Bruno Contrada.