DI GIULIANO FERRARA
Il partito preso è una brutta bestia. Quando ti tocca in fatti di giustizia diventa una bestiaccia deforme, mostruosa. Quando si mescola con il maltrattamento della cronaca a mezzo stampa e tv, questa bestia letteralmente ti ingoia.
Ho visto con i miei occhi in tv, al Tg5, la magistrata che ha liberato Filippo Pappalardi dall’accusa di aver sequestrato e ucciso i suoi due bambini, Ciccio e Tore, e di averne occultato i cadaveri. Avrei voluto vedere un funzionario imparziale della giustizia del mio Paese, capace di abbassare gli occhi e di riconoscere: «Non è stato lui ad assassinarli, come noi magistrati avevamo creduto fino al punto di arrestarlo e tenerlo in carcere per alcuni mesi con questa accusa infamante. Ci siamo drammaticamente sbagliati, e questo fa parte della regola del nostro mestiere, ma siamo sinceramente rammaricati di questo errore investigativo che ha distrutto la vita di un cittadino al quale auguriamo di ritrovare la serenità che gli abbiamo tolto».
Non è stato così. Il giudice che ha smentito la tesi accusatoria, dopo che il ritrovamento accidentale dei corpi caduti nella cisterna ne aveva dimostrato l’insussistenza, ha scelto un’altra strada. Lo avrà fatto in perfetta buona fede, il che non si capisce mai se sia una attenuante o un’aggravante. Ma l’altra strada era questa: il partito preso, un distacco graduale e senza scuse dall’accusa principale, e una nuova accusa sorretta da ricostruzioni ancora una volta affidate alla psicologia, cioè alla vera malattia di una giustizia incandescente e borbonica, che non sa che farsene del procedimento basato su fatti ed evidenze sconosciuto al nostro rito latino.
La signora che rappresentava la giustizia aveva deciso che Pappalardi, pur non essendo il feroce assassino dei suoi figli, era un cattivo soggetto. E che questo concetto doveva essere formulato così: «È una personalità negativa sul piano giurisdizionale. E riprovevole sul piano umano».
E sapete da dove deriva questa sicumera nel giudizio? La gente tifa per i bambini, e vorrei vedere. Le si dà in pasto la definizione sommaria di un cattivo padre, e magari Pappalardi era un cattivo padre o un padre cattivo. Ma questa sentenza da bar o da conversazione familiare diventa l’argomento con cui, seguendo il filo di piombo del pregiudizio, anche senza intenzioni perfide, per la sola abitudine di amministrare così la giustizia umana, si motiva la decisione di affidare il mancato assassino carcerato, una volta liberato da accuse e pena detentiva cautelare, agli arresti domiciliari e a una nuova ondata di disprezzo pubblico, a una nuova gogna.
Noi possiamo immaginare tutto, esattamente come il magistrato che ha definito «negativo» e «riprovevole» il comportamento di quel padre verso i suoi figli. Possiamo immaginare, a questo punto, che non si sia comportato bene con loro e li abbia spaventati. Oppure no. Possiamo immaginare che la sua situazione di crisi familiare lo abbia portato ad attendere due ore prima di denunciare la scomparsa dei minori che aveva in custodia, fatto grave ma che non ha niente a che vedere con il loro omicidio, e a mentire disperatamente di fronte a un’inchiesta giudiziaria dura, che puntava a incriminarlo.
Ma, appunto, possiamo come quella signora investita della funzione di giudice soltanto «immaginare». La giustizia non immagina. Se trasforma un’accusa da sequestro, omicidio e occultamento di cadavere in abbandono di minori non può, per autodifesa, esercitare il suo accanimento. Deve raffreddarsi, assumere un tono umano e normale, scusarsi con un uomo e un padre distrutto che ha appreso in carcere della morte accidentale ma orribile dei suoi due figli, e pentirsi della propria superficialità e vergognarsi anche un poco. La spavalderia del partito preso mi fa paura.