Per spiegare il successo del Popolo della libertà molti opinionisti sostengono che Silvio Berlusconi ha vinto non perché ha convinto, ma per avere fatto leva sul malessere del Paese. Secondo La Repubblica, uomini spaventati del ricco Settentrione e pubblici salariati del povero Meridione si sarebbero affidati a lui, «magnetico catalizzatore dei sogni di una nazione e carismatico affabulatore dei suoi bisogni», non attirati dal suo programma, ma per paura. Insomma, l’Italia uscita dalle urne sarebbe vecchia e stanca.
A me pare invece che di vecchio in questo caso ci siano solo gli schemi che da anni un certo ceto intellettuale continua ad applicare alla realtà nazionale, rifiutandosi di capire ciò che accade intorno a sé. Così come superate mi appaiono le categorie che ci vengono quotidianamente riproposte: destra-sinistra, Nord-Sud; capitalisti-proletari.
L’idea che il 13 e 14 aprile abbia vinto una destra radicale e populista e che la sinistra sia stata sconfitta perché non ha saputo parlare al Settentrione può consolare i perdenti, ma non aiuta a comprendere ciò che è successo. Il Pd non ha perso perché non ha saputo parlare al Veneto e alla Lombardia, ma perché non è riuscito a convincere gli elettori italiani, compresi quelli di Campania, Puglia, Calabria e Sardegna, ossia di tre grandi regioni del Sud e di un’isola.
Dal voto non è uscita rafforzata la destra, come si vorrebbe far credere, ma uno schieramento pragmatico moderato, che ha sostituito le ideologie con le necessità, le questioni di principio con quelle pratiche. I grandi partiti di massa che si ispiravano alla tradizione del Novecento sono stati liquidati e nel nuovo Parlamento non vi è posto né per comunisti, né per socialisti, ma neppure per coloro i quali si rifanno alla Destra, mussoliniana e no. A qualcuno tutto ciò potrà romanticamente dispiacere, ma una stagione si è chiusa e con grande ritardo purtroppo: l’uscita di scena dei nipotini di Karl Marx arriva vent’anni dopo la caduta del Muro di Berlino, quella degli eredi del vecchio Msi 15 anni dopo il suo scioglimento.
Il processo credo sia irreversibile. L’Italia ha voltato pagina, archiviando parte della sua storia: un’operazione lunga e dolorosa, ma che è giunta a conclusione. Cancellati i vecchi schemi, le divisioni e le logiche di appartenenza, gli elettori scelgono in base ai programmi, sulla base delle promesse e della credibilità dei candidati. Non essendo un voto ideologico, il consenso non è stabile: si muove. Dalla sinistra radicale può migrare verso la Lega o il Pdl, come è accaduto nella rossa Emilia-Romagna.
Questa è la grande novità di cui il Partito democratico dovrà tener conto nei prossimi mesi, ma con cui dovrà confrontarsi soprattutto Berlusconi. Il voto è mobile e chi ha scelto il Pdl si aspetta rapidi cambiamenti, pena un altrettanto rapido ripensamento. Non credo che l’elettore pretenda miracoli, però di sicuro esige un piano che modernizzi il Paese. Finita l’epoca dell’assemblearismo e del consociativismo, reclama decisioni.
So che il Cavaliere non tiene in gran conto i suggerimenti dei consiglieri improvvisati, ma il mio consiglio è quello di non trascurare la volontà degli italiani sin dai suoi primi passi. Metta insieme un governo autorevole, senza accettare pressioni e senza mediazioni: se vuole rompere con il passato, è bene che inizi subito, cominciando con il tagliare i riti da Prima repubblica e da manuale Cencelli. Il compito naturalmente non è facile, ma neppure impossibile. Almeno per uno che è abituato a vincere le sfide invincibili.