L’indipendenza non può che essere al servizio dell’imparzialità. Sicché una indipendenza della magistratura come corpo che agevoli una protezione anche della parzialità dei magistrati, oltre che una contraddizione, è una sciagura. Ed il caso italiano sembra spessissimo evocare proprio questi termini: massima indipendenza della magistratura in diritto e strettissima dipendenza in fatto del singolo magistrato dal corpo o corporazione della magistratura (Associazione, Consiglio superiore della magistratura, correnti organizzate). In nome dell’indipendenza di tutti i magistrati, si perde la garanzia dell’imparzialità di ogni magistrato.
Quattro anni fa fu presentato in Senato un disegno di legge costituzionale che prevedeva nuovi criteri di nomina dei vertici della magistratura e della composizione del CSM. Era per molti versi una provocazione diciamo “cossighiana” contro il già allora fortissimo vento di contrapposizione alle Camere che spirava al CSM. In questi giorni quel vento è tornato a farsi irresistibile. Neanche il capo dello Stato è riuscito a domarlo dopo che nel fine settimana il vicepresidente Mancino aveva fatto uso e abuso della propria loquacità. Fra gli emendamenti del Senato ed il preannunziato parere di incostituzionalità del CSM si è assistito ad una corsa a cronometro, senza rispetto dell’impianto costituzionale.
Al potere legislativo la magistratura organizzata vorrebbe negare, in nome della propria indipendenza ed autonomia, il diritto di disciplinare le priorità dei processi. Il CSM si atteggia e si esprime come Parlamento e al tempo stesso come Corte Costituzionale. Attorno al suo demi-monde si agita volgarità dipietristica e perfino, sul quotidiano che fu di Albertini, si incontrava ieri un articolo sobriamente intitolato “Norma incostituzionale: ecco perché”. Berlusconi poi, magari per poterlo denunciare e suo modo avvalersene, dell’antiberlusconismo giurisdizionale sembra l’irriducibile maestro di casa: nei tempi brevi ne è vittima designata, nei tempi lunghi è come se accettasse di conviverci, perché gli assicura la vittoria.
Perché allora non immaginare di restituire al CSM il volto di un vero potere neutro? Se non si riesce a tornare alla Costituzione, forse si potrebbe tornare alla Costituente. Perché è lì che avvenne il misfatto originario. Per garantire l’indipendenza della magistratura, senza peraltro «creare un potere giudiziario completamente avulso dagli altri poteri», era stata proposta dall’onorevole Leone e dall’onorevole Calamandrei una composizione del Consiglio superiore della magistratura che prevedeva che esso non fosse organo di esclusiva né prevalente espressione della magistratura. «La decisione – sostenne Leone in sede di Commissione dei 75 il 30 gennaio 1947 – di affidare la presidenza al Capo dello Stato e di stabilire che metà dei componenti del Consiglio siano elementi estranei eletti dall’Assemblea nazionale risolve una delle preoccupazioni sorte in sede di esame del progetto sul potere giudiziario: quella di evitare che attraverso l’autogoverno dato alla magistratura essa costituisca una specie di casta chiusa. Con tale decisione, infatti si è giunti ad avvicinare il più possibile il potere giudiziario agli altri poteri dello Stato».
Del resto l’allora Ministro della giustizia onorevole Togliatti, in quella stessa adunanza plenaria del 30 gennaio 1947, avrebbe definito il CSM «un organismo il quale assume una funzione particolare di antidoto alla completa autonomia del potere giudiziario come tale». Il che lo portava a ritenere il fatto che il Consiglio Superiore fosse formato per metà da magistrati e per metà da membri eletti dall’Assemblea Nazionale: un elemento che accresceva, non diminuiva, il prestigio della magistratura. In aula prevalse, però, alla fine, un emendamento dell’onorevole Scalfaro (due terzi di magistrati eletti dalla Magistratura ed un terzo di eletti dal Parlamento). Nella seduta pomeridiana del 12 novembre 1947, Scalfaro fu davvero tassativo: «Non si avrebbe indipendenza – a suo dire – quando il Consiglio superiore avesse una maggioranza di non magistrati, o anche quando rimanesse quello che è scritto nel progetto, dove è previsto che metà dei membri siano magistrati e l’altra metà eletti dall’Assemblea fuori del suo seno». Difficile pensare ad una più granitica rivendicazione di una magistratura tesa a farsi Stato da sé, di per sé, guardando a sé.
Non è un caso che proprio Scalfaro si sia espresso giovedì scorso in una intervista sul “Corriere della Sera” con estrema spavalderia. Quando era presidente della Repubblica, Scalfaro un proprio diritto di “non ci sto” lo fece valere. Oggi però gli sembra che analogo diritto non debba rivendicarlo l’attuale presidente del consiglio (“nell’interesse del nostro popolo, faccia un grosso sacrificio e affronti la sofferenza”). L’opinione di Scalfaro sin qui è legittima. Lo diventa molto meno quando vi aggiunge, nella citata intervista, un linguaggio quasi intimidatorio: “Il capo dello Stato sa perfettamente quel che serve fare in circostanze come questa”. Nessuno più di Scalfaro sa quanto sia inopportuno che il parlamento guardi al presidente della Repubblica come ad un co-legislatore. Ragione non ultima per apprezzare la fermezza con la quale Napolitano ha difeso l’indipendenza e l’autonomia del Senato dall’invadenza del CSM e dall’attivismo del vicepresidente Mancino. Almeno, è riuscito a risparmiare al voto del Senato l’onta di venir presieduto dal “pronunciamiento” del CSM: un organo sempre capace di essere all’altezza della bassezza dei tempi.