Molti studiosi sanno ormai che la fotografia non è soltanto illustrazione e decorazione. È un documento non meno importante dei rapporti di polizia, dei dispacci diplomatici, dei diari privati e degli scambi epistolari. Ma occorre interrogarla, scrutarla e decifrarla.
Nel secondo libro fotografico di Pasquale Chessa (il primo fu dedicato alla guerra civile tra le forze della Resistenza e quelle della Repubblica sociale) esiste una fotografia, scattata nel 1923, in cui Benito Mussolini ed Enrico De Nicola si stringono cordialmente la mano. Visto di profilo, Mussolini, sembra sorridere affabilmente. Visto di tre quarti, De Nicola saluta il leader del fascismo con grande cordialità. La scena si svolge di fronte a Montecitorio il 23 luglio, due giorni dopo l’approvazione di una nuova legge elettorale (la Legge Acerbo) che regalerà ai fascisti, un anno dopo, la maggioranza assoluta.
Lungo gli scalini che portano all’ingresso del palazzo un drappello di carabinieri in grande uniforme si prepara a salutare le autorità. Mussolini indossa l’abito da cerimonia e De Nicola, nonostante la stagione, un soprabito leggero, attillato, con baveri di seta. Ambedue stringono nella mano sinistra un cappello a cilindro. Il primo è presidente del Consiglio, il secondo è presidente della Camera ed è sceso dal suo ufficio, probabilmente, per accogliere il capo dell’esecutivo sulla soglia del palazzo.
Con una sorta di paradossale «passaggio delle consegne» Mussolini sarà presidente della Repubblica sociale per quasi due anni, dal settembre 1943 sino all’aprile del 1945, ed Enrico De Nicola sarà presidente provvisorio della Repubblica italiana per quasi due anni, dal 1946 al 1948.
Credo che Chessa abbia scelto la fotografia per illustrare le attese, le speranze e le illusioni con le quali una parte importante della classe politica liberale accolse la formazione del primo governo Mussolini. Il libro di Chessa s’intitola Dux (Mondadori) e si definisce una «biografia per immagini», fra cui alcune classiche e molte sconosciute e inedite, ma è in realtà una «biografia dell’immagine di Mussolini», vale a dire la storia del modo in cui il leader del fascismo fu rappresentato e volle rappresentarsi.
Quando il piccolo Benito venne al mondo, nel 1883, la tecnica fotografica stava diffondendo anche fra i ceti sociali più modesti i gusti e le consuetudini che avevano appartenuto alle fasce alte delle società europee. Per inviare il proprio ritratto ai parenti e agli amici o fissare per la storia familiare un avvenimento solenne (un matrimonio, un battesimo, un genetliaco, un diploma) non era più necessario indirizzarsi a pittori e miniaturisti. Bastava la bottega di un fotografo, attrezzata con fondali dipinti e falsi salotti.
In questa ritrattistica per i poveri, il bambino Benito, prima fra le braccia della madre poi impettito e imbronciato fra i suoi compagni di scuola, è già in posa. La posa diventa ancora più evidente negli anni seguenti, quando il giovane Mussolini si rivela agitatore, polemista e tribuno della plebe. La fotografia, nel frattempo, è diventata giornalismo e soprattutto testimone di avvenimenti politici e sociali: comizi, congressi, assemblee, parate, scioperi, scontri con la polizia. In queste circostanze non basta più guardare l’obiettivo con uno sguardo di sfida. Occorre essere il protagonista di un evento e attrarre sulla propria persona, come una calamita, la maggiore attenzione possibile.
Mussolini dimostra di avere per questo esercizio un talento naturale. Si stabilisce così, tra lui e i fotografi, un patto di complicità. I fotografi sanno che Mussolini è un buon soggetto e che vale la pena di stargli dietro. Mussolini li attira adottando al momento giusto l’atteggiamento che maggiormente conviene allo scatto della macchina fotografica.
L’attore controlla se stesso, ma non può controllare l’intero palcoscenico. Recita bene la sua parte, ma non può scrivere il copione e corre il rischio di essere ritratto in momenti imbarazzanti, come accadde a Roma nel 1915, quando il fotografo lo colse durante una manifestazione interventista mentre si dibatteva scompostamente fra i poliziotti che lo stavano arrestando.
La situazione cambia nella seconda metà degli anni Venti, quando il fascismo è ormai regime. L’avvento della dittatura ha pressoché eliminato l’inconveniente degli incidenti e degli avvenimenti imprevisti. Le vecchie liturgie del regno cedono il passo a quelle fasciste di cui Mussolini è un eccellente impresario. I fotografi, con poche eccezioni, collaborano al successo dello spettacolo. E il Duce impiega una parte della sua giornata a esaminare attentamente le fotografie scattate il giorno precedente.
Chessa racconta che il suo compagno di lavoro in quelle occasioni era il cameriere Quinto Navarra, autore di memorie corrette o addirittura riscritte da Indro Montanelli. Navarra gli mostrava le fotografie, una dopo l’altra, e Mussolini stracciava senza proferire parola quelle che non riscuotevano la sua approvazione.
Verso la metà dagli anni Trenta, dalla guerra d’Etiopia allo scoppio della Seconda guerra mondiale, Mussolini allarga il suo palcoscenico e vuole che tutti, dai caratteristi alle comparse, si dispongano nell’ordine voluto dal grande regista. Come ricorda Chessa, il suo maggiore successo teatrale fu la visita di Adolf Hitler in Italia nel maggio 1938, un evento di cui Mussolini curò personalmente ogni aspetto, ogni dettaglio. Vi furono da allora altri eventi importanti, ma nessuna manifestazione altrettanto fotogenica come quella che andò in scena durante i sei giorni di Hitler in Italia.
Da allora il palcoscenico mussoliniano comincia a rimpicciolirsi. La realtà della guerra invade la scena e divora progressivamente lo spazio che il Duce aveva riservato a se stesso. Mussolini è ormai l’attore di un dramma scritto dagli eventi e addirittura, dopo la creazione della Repubblica sociale, il protagonista umiliato di un copione scritto dai tedeschi.
Vi sono ancora immagini dove sopravvivono sprazzi del grande mattatore. Ma Mussolini accetta ormai di essere ritratto nei suoi momenti più familiari e negli atteggiamenti più umani. Sino a piazzale Loreto, dove il leader del fascismo sarà soltanto, per i fotografi, un «corpo del reato».