Assolto, assolto, assolto. Dopo un’odissea durata 16 anni, dopo aver vissuto da imputato qualcosa come 31 diversi procedimenti, una pioggia di accuse infamanti rivolte da un plotone di pentiti, si chiude senza condanna l’almanacco giudiziario del calabrese Amedeo Matacena, già liberale e poi deputato di Forza Italia. A 13 anni dai fatti la corte d’appello di Catanzaro l’ha assolto dall’ultima causa per diffamazione rimasta in piedi. Un procedimento tormentato, un classico gioco dell’oca della giustizia nel quale è facile perdersi.
Prima l’ex deputato viene condannato in tutti i tre gradi di giudizio sino alla Cassazione, nel 2001, per alcune sue affermazioni risalenti al 1995. I difensori, Enzo Caccavari e Alfredo Biondi, in aula insistono per far rientrare le affermazioni sotto l’ombrello dell’insindacabilità delle dichiarazioni rese da un parlamentare. La Camera, sollecitata dal 1998, solo nel 2003 vota l’insindacabilità delle affermazioni salvaguardando le prerogative del politico. A questo punto Matacena chiede la revisione del processo. Ma la corte d’appello di Reggio Calabria risponde picche definendo «non prova nuova» la delibera della Camera dei deputati.
Matacena e il difensore Caccavari ricorrono in Cassazione ma nel frattempo si mette di mezzo il tribunale civile, che solleva conflitto di attribuzione fra i poteri dello Stato davanti alla Corte costituzionale. In pratica il voto alla Camera deve valere zero. Comunque la Corte costituzionale dichiara inammissibile il ricorso e i giudici civili devono quindi cassare la richiesta di risarcimento da 1 milione di euro avanzata dal querelante, il pm Vincenzo Macrì. La Cassazione riapre il processo e manda tutto alla corte d’appello di Catanzaro che investe, anch’essa, la Corte costituzionale. Ancora una volta la Consulta a maggio scorso respinge la richiesta.
In tutto, nove procedimenti per un’unica causa di diffamazione. «Ci vorrebbe Franz Kafka» riflette il penalista Caccavari «per raccontare questo incubo giudiziario».
Matacena è stato accusato anche di concorso esterno in associazione mafiosa. Ventuno pentiti raccontano di accordi e scambi di voto con le cosche della piana di Gioia Tauro per condizionare le elezioni politiche del 1994 e, di lì a poco, quelle provinciali. Condannato in primo grado dalla corte d’assise di Reggio, Matacena va in appello ma la Corte costituzionale azzera il processo perché in un’udienza in primo grado si ritenne l’imputato contumace quando era impegnato in una votazione a Montecitorio. Processo nuovo: Matacena assolto nel 2006 per non aver commesso il fatto.
Nel frattempo un’altra accusa di associazione mafiosa gli piove addosso dalla procura di Catanzaro con il gip Antonio Baudi che dispone l’arresto prima di andare in pensione, sei mesi dopo. Per un mese Matacena viene privato della libertà. I figli non escono di casa.
Le accuse si ripetono: accordi con i mafiosi per un’azione mediatica di discredito dei magistrati reggini. Ma dopo sette anni dall’inizio dell’inchiesta il pm, in rito «abbreviato», chiede l’assoluzione.
Nel ventaglio di procedimenti bisogna ricordare infine le assoluzioni per ricettazione, tentata estorsione e la «non procedibilità» in gran parte delle 12 querele del pm Macrì. Una postilla: Matacena ha abbandonato la politica, fa l’armatore di navi che trasportano derivati del petrolio. È emigrato a Monte-Carlo dove vive con la famiglia. «In Italia» dice «non ci torno» (gianluigi.nuzzi@mondadori.it).