Sembra meschinità vendicativa, trent’anni dopo i fatti, impedire a Valerio Morucci, il brigatista rosso che fece parte della squadra armata di via Fani, di spiegarsi nella più grande università italiana, la Sapienza di Roma. Invece quel rifiuto è segno di puro buonsenso, è una disposizione pietosa verso la memoria civile del Paese, indice di un comportamento serio e proporzionato rispetto ai fatti.
C’è infatti una relazione simbolica chiarissima tra la Sapienza e la storia del rapimento di Moro, dell’uccisione della sua scorta, della campagna di primavera delle Br che giunse all’esecuzione dello statista democristiano dopo decine di altri delitti eseguiti a freddo in quei 55 giorni di angoscia nazionale. L’università romana era stata negli anni incubatrice della violenza politica e ideologica. Le sue aule, sconvolte dall’uragano della fine degli anni Sessanta, erano diventate fortezze armate nella seconda metà dei Settanta. L’autorità accademica e quella dello Stato erano finite espulse dal campus, da quei luoghi erano stati cacciati un sindacalista come Luciano Lama e decine, centinaia di militanti democratici dei partiti e dei movimenti di massa; e se oggi ha forse l’aria di una iperbole l’accusa del sindaco Gianni Alemanno, quando dice che l’università della capitale è in mano a 300 criminali, gli antenati degli scalzacani e dei collettivi e centri sociali che hanno inscenato la famosa caciara contro il Papa e che ora tengono in pugno il disordine pubblico in quelle aule erano davvero un esercito violento forte di un’ideologia intollerante e di una brutale organizzazione di apparato, di gruppo, di banda.
Morucci è nella condizione di un cittadino che ha commesso gravi crimini, che ha comminato dolore e ingiustizia alla comunità in cui viveva, e che ha pagato i suoi debiti penali secondo le leggi del suo paese. Ha riacquistato un diritto di parola che nessuno può togliergli, nemmeno in nome dell’inestinguibile debito morale che resta sempre sulle spalle di un assassino. Ma non è risalendo su una di quelle cattedre da cui sono stati tenuti i discorsi assembleari dei cattivi maestri del ‘77 che Morucci può spiegarsi, come ha cercato di fare nel suo libro: insegnare agli altri i propri tragici errori nei luoghi simbolici in cui si era condensata la nuvola nera che avvolse l’Italia nell’epoca del piombo ideologico è una assurdità, un segno di insensibilità e perfino di alterigia.
Ci sono altri modi per elaborare il proprio lutto, un mesto e sincero pentimento, se di questo nobilmente si tratta. Le università dovrebbero ridiventare un centro di ricerca, di didattica e di scambio civile e culturale in cui l’autorità delle buone idee si esercita in forme significative, con il lavoro storico e teorico, con lo scavo dentro esperienze e regioni mentali nuove. Non è sensato riconsegnarle, sia pure con un segno opposto a quello degli anni più tragici, al chiacchiericcio delle testimonianze e alle acrobazie morali dei capi del partito armato.
Quando una coalizione faziosa di docenti e studenti votati all’estremismo anticattolico creò una situazione così offensiva e odiosa da costringere Benedetto XVI a non parlare nell’aula magna della Sapienza, privando quell’università dell’ascolto di uno straordinario discorso sul rapporto tra cultura, religione e politica nella storia della civilizzazione occidentale, quel gesto illiberale si inserì perfettamente nella lunga teoria di comportamenti violenti che avevano preparato il terreno agli assalti dei pitrentottisti e delle Br, fino al culmine drammatico del sequestro di Aldo Moro. Tra la parola sprezzantemente tolta e la parola incautamente data c’è un legame vizioso che andava spezzato.