di Vittorio Macioce
Viene quasi da ridere, in questo ventunesimo secolo dove la realtà è una macedonia di frammenti, la sinistra porta il nome e il cognome di un ex poliziotto: Tonino Di Pietro. Basta poco per raccontare il miracolo veltroniano. Basta questo.
Il resto è la biografia di un fallimento. Walter Veltroni, raccontano i suoi amici, non è mai stato un lottatore. È il suo punto debole. È un uomo che deve sentirsi amato, come la versione italiana di certi poster globali. Veltroni soffre le personalità dure, decise, i cinici e i contadini. Quest’uomo era la speranza della sinistra raffinata, con una mano sul cuore e i mercatini vintage dietro piazza San Giovanni, un po’ equa, un po’ solidale, disgustata, sofferente, che mangia Sacher Torte e non va da McDonald’s, spesso ricca, come i figli di architetti, assessori e giornalisti fotografati, e scarnificati, nella Torino di Culicchia. Veltroni era il simbolo di ciò che resta di una certa cultura del Novecento, quella che si racconta moderna, ma vive di nostalgia: elitaria, oligarchica, lontana dai precari e dagli operai, velleitaria, senza carisma, con un retrogusto di muffa e di retorica. Quella con i libri giusti, in biblioteche tutte uguali, dove non spunta mai uno scrittore a sorpresa, un romanzo fuori posto. Veltroni, per questi figli del Novecento perduto, era come un vecchio amico, qualcuno che magari non ti affascina più, ma di cui ti puoi fidare.
Il fallimento di Veltroni è il segno che questa sinistra è ormai fuori dalla storia. È una finzione letteraria. È una madeleine, un club di statue di cera, che si porta dietro qualcosa di patetico, come una partita di calcio in bianco e nero, con la retorica delle magliette di lana senza sponsor e i numeri dall’uno all’undici. Tutto questo condito con una certa dose di masochismo, che ricorda l’Inter delle tante sconfitte, con i tifosi che si crogiolavano nell’etica del pessimismo. Questo è stato il Pd di Veltroni, la sua creatura. Ci aveva messo dentro tutte le parole che si possono trovare su Google alla categoria “frasi celebri”, una sorta di baci perugina della politica. Tutto spazzato via. Inutile, fragile, retorico, banale. Dannoso. Forse alla fine lo stesso Walter si è ribellato al suo masochismo e ha scelto di lasciare con una frase, questa volta, sincera: «Basta farsi del male». Il guaio è quello che resta. È il suo fallimento.
Il guaio è che questa sinistra moribonda si è lasciata succhiare il sangue, giorno dopo giorno, da un vampiro giacobino. Quello che resta, a sinistra, è Di Pietro, le sue manette, le sue piazze di comici e saltimbanchi, l’astio, il livore, le parole sempre più grezze e grosse, l’astuzia contadina, il giustizialismo. È lui l’opposizione. È la sua voglia di guerra civile. È l’antiberlusconismo come religione. Lo dice anche Di Pietro: «Noi siamo l’unica opposizione rimasta nel Paese. Quando uno non decide se essere maschio o femmina finisce per non essere nessuno». Questa è la filosofia dell’uomo di Montenero di Bisaccia (con buona pace dell’identità gay). Ecco, alla fine Veltroni è rimasto nudo, orfano delle sue maschere. Sono caduti uno alla volta tutti i suoi vestiti, come foglie d’autunno: via Obama, via Kennedy, via Clinton, Blair, Martin Luther King, Gandhi, via anche Madre Teresa di Calcutta, via il missionario, via l’Africa, via tutto. È rimasto solo lui, la maschera non voluta, l’uomo che ha cannibalizzato i suoi voti, le sue tante identità, la sua visione del mondo. È rimasto il poliziotto, il pubblico ministero, quello con l’indice alzato e la forca all’orizzonte. Veltroni è riuscito a cancellare anche l’odore della sinistra. È questo il suo più grande, paradossale, assoluto fallimento. Sognava Obama e ha partorito Di Pietro. Qui finisce l’avventura di Walter Veltroni. Lui magari andrà in Africa e lascia l’Italia con un Tonino acceso tra le mani.