di Gaetano Quagliariello
Quando sono entrato nel padiglione della Fiera di Roma che ha ospitato l’ultimo congresso di AN ho immediatamente compreso che in quella sala non si stava solo concludendo la storia di un partito. Finiva un’epoca. Alleanza nazionale, infatti, è stata l’ultimo partito di tipo classico a calcare con dignità la scena. E neppure nei giorni del suo ultimo congresso ha voluto abbandonare i suoi simboli, le sue insegne, i suoi stilemi. Fin nella scenografia: un tavolo di presidenza lunghissimo, con classe dirigente schierata e tante fiamme tricolori a corredo di ogni postazione. Ma la regia ha anche voluto che il podio sul quale si sono alternati gli oratori fosse a forma di ponte, proteso verso un futuro non ancora specificato. Uno spazio ampio quanto quello nel quale era schierata la vecchia classe dirigente, ma vuoto. Campeggiava, solo, il simbolo del PdL.
Ieri il vecchio partito d’integrazione di massa è definitivamente morto, travolto dalla modernità e dall’affermarsi di una funzione differente della politica. Va un merito alla classe dirigente di AN: averlo compreso e aver accompagnato il processo di cambiamento con dignità, senza abiure né scarti ma anche senza accanirsi per tenere in vita ciò che non ha più ragione per esserlo.
A volte interpretare la scena è indispensabile per comprendere ciò che si ascolta. E così, chi non ha saputo vedere il processo storico che si celava dietro le architetture di quel padiglione, nel discorso che ha chiuso i giochi, quello di Gianfranco Fini, ha ricercato innanzi tutto la battuta ad effetto, la punzecchiatura dell’alleato, il passaggio polemico nei confronti dei suoi stessi amici.
Invece il discorso di Fini è stato - come si dice - un discorso all’altezza. La terza carica dello Stato, nel ricostruire ciò che dalla Prima Repubblica ha portato fino al PdL, ha suonato lo spartito senza una nota stonata. Ha reso omaggio al contributo dei resistenti di lungo corso. Ha rivendicato Fiuggi. Ha riconosciuto il ruolo storico di Berlusconi, la sua leadership e il rapporto con Forza Italia. Non ha neppure taciuto quel che di buono, dal suo punto di vista, poteva essere scorto nel “predellino”. Di più era difficile poter pretendere.
Quando poi ha provato a tracciare l’agenda politica che il nuovo partito dovrà affrontare, e che per tanti versi coincide con le sfide del nuovo secolo, mi è sembrato che abbandonasse lo spartito per suonare ad orecchio. Sempre, però, con una eccellente conoscenza della musica.
I temi sono quelli che lui ha indicato: contribuire a determinare un nuovo ordine mondiale controllando lo scontro di civiltà sempre in agguato, rinnovare le istituzioni, governare il fenomeno epocale dell’immigrazione senza rinunziare alla sicurezza, ridisegnare il rapporto tra religioni e Stato, uscire dalla crisi senza criminalizzare il mercato.
Su alcuni di questi capitoli, il mio svolgimento del tema sarebbe stato sensibilmente diverso. Ma non è questo che conta. Fini ha detto altre tre cose che, dato, il contesto, sono più importanti. Ha riconosciuto che il PdL, se vorrà essere “partito a vocazione maggioritaria”, non potrà mai essere “partito a una dimensione” e che, per questo, la sintesi dovrà avvenire al livello del governo dei problemi e non a quello delle ideologie sottostanti. Ha quindi rimandato al mittente l’ipotesi che il PdL possa essere un partito di “destra” inteso in senso novecentesco. E, infine, ha escluso che non vi sarà mai una componente del nuovo partito coincidente con AN. Con ciò si è messo in gioco senza rete e ha chiesto a tutti di fare altrettanto. Ha fissato la regola del gioco: chi ha filo tessa; non varranno le rendite di posizione e neppure troppo le antiche solidarietà.
Solo questo coraggio e questa propensione potranno fare del PdL un partito all’altezza dei tempi nuovi. Per questo tutto ciò è molto più importante di un dissenso; di una dissonanza, piccola o grande che sia.