di Mario Cervi -
Quando uno li guarda e li ascolta, questi invasati dei centri sociali, avverte insieme inquietudine - non vorrei parlare di paura - e pena. Inquietudine per la proclamata solidarietà a chi è coinvolto in inchieste sul terrorismo, per gli odiosi fischi allo striscione della Brigata ebraica, per la contestazione a Letizia Moratti imperniata sulla vecchia, stucchevole, stupida invettiva «fascista!». Pena per la pappagallesca ostinazione con cui questi tardi epigoni dei vari ’68 e ’77 risfoderano anacronistiche sciocchezze, invocano miti screditati, si atteggiano a portatori di un pensiero e sono invece portatori del nulla, ma d’un nulla urlato. Sì, il minaccioso s’intreccia al grottesco nel loro sbraitare di dervisci impazziti.
Eppure un briciolo di ragione credo si debba riconoscerlo a questi tipi e tipacci quando se la prendono con l’establishment della sinistra regolare e ufficiale, viziata dal cachemire e dai tappeti rossi, che si pavoneggia nei riti del 25 aprile. È una sinistra che s’è adoperata, durante decenni, per dare alle cerimonie celebranti la Liberazione un’impronta ideologica precisa e faziosa: e per rivendicarne l’esclusiva, pur tra ipocriti discorsi inneggianti all’unità nazionale. Via in malo modo dai cortei, dalle piazze, dai palchi i non appartenenti all’esclusivo club progressista: come accadde a Bossi nel 1994, quando era alleato di Berlusconi (l’anno successivo, essendosi da Berlusconi staccato, nel corteo milanese fu accolto festosamente). Gli oratori designati parlano, in questa ricorrenza, come se l’Italia fosse stata vincitrice d’una guerra che invece, spiace dirlo ma è la verità, ha perduta, e che fu decisa nelle pianure della mitteleuropa, non sulla linea gotica dove Kesselring era ancora attestato mentre l’Armata rossa già dilagava verso il bunker berlinese di Hitler.
Nei comizi del 25 aprile, e ancor più nelle invocazioni della folla, risuonavano toni rivoluzionari. Piaceva ai puri e duri di avvertire negli accenti dei notabili di sinistra echi castristi, se non maoisti e staliniani. Non poteva essere un caso, supponevano gli ultra, che due partiti avessero mantenuto nella loro etichetta il termine comunista, ritenendolo credibile e affidabile. Erano stati loro, i capi della sinistra parlamentare ma affascinata dall’extraparlamentarismo, a allevare e coccolare gli ossessi antagonisti e disobbedienti e via dicendo. I quali si trovano adesso di fronte a notabili abituati agli stucchi e agli ori di Palazzo, alle comodità ministeriali, alle auto blu. Un giorno forse il comunismo sarà rifondato, ma intanto i suoi apostoli sprofondano in mollezze da basso impero. La rivoluzione si burocratizza, la rifondazione temporeggia, Diliberto attende l’ora X ma è ancora all’ora A. Per penuria di partigiani - l’anagrafe è implacabile - l’Anpi che li raccoglie e organizza ha aperto le porte a quarantenni o trentenni, benché privi d’un qualsiasi partigiano in famiglia, magari un terzo cugino. Partigiani per sentito dire. A questo punto, mantenendo ferma tutta la mia ripugnanza per il modo di essere e di comportarsi degli appartenenti ai centri sociali e affini, ripeto che un briciolo di ragione ce l’hanno.