di Mario Cervi
Nelle immagini finali del filmato di Raiuno su Enrico Mattei si vede il bireattore Morane Saulnier dell’Eni che la sera del 27 ottobre 1962 va in mille pezzi per un’abbagliante esplosione. Si consuma così nel cielo di Bascapè la tragedia in cui persero la vita Mattei, il giornalista americano William Mc Hale e il pilota Irnerio Bertuzzi. Quelle immagini sono un falso. Intendiamoci. Non pretendo da una ricostruzione televisiva, anche se ambisce ad essere documento, un’aderenza totale alla realtà. Lo spettacolo ha le sue esigenze, e da quel punto di vista la trasmissione sul presidente dell’Eni è stata indubbiamente un successo. Qualche disinvoltura è più che lecita.
Ma non su una circostanza decisiva sia per consentire agli spettatori di capire cosa sia successo quasi quarantasette anni or sono, sia per dare solidità all’ipotesi del sabotaggio. È un’ipotesi, questa, che fa della fine di Mattei un mistero spionistico-giudiziario, e che sovrasta facilmente, nell’interesse degli addetti e dei non addetti, la banalità dell’incidente. Ma le licenze che sceneggiatori e registi si concedono devono avere un limite. La disintegrazione del bireattore quel limite lo supera. Scrivo questo senza addentrarmi in una valutazione, che non mi compete, sui meriti e demeriti televisivi della fiction.
Perché un falso? Semplice. Perché l’aereo non si è per niente disintegrato. La prima commissione d’inchiesta - come spiegato esaurientemente da Italo Pietra nella sua biografia di Mattei - aveva accertato questi punti: a) i due reattori erano perfettamente funzionanti; b) l’aereo giunse a terra integro in tutte le sue strutture; c) gli aerofreni e il carrello d’atterraggio erano ancora intatti. Quando nel 1994 il pm di Pavia Vincenzo Calia riaprì l’inchiesta, e ordinò perizie sui resti umani e sui resti del bireattore, non poteva ignorare un dato di fatto incontrovertibile. Ossia che il Morane Saulnier si era schiantato al suolo tutto intero. Si poteva ritenere che questo chiudesse la questione.
Ma il magistrato non si lasciò scoraggiare. Niente esplosione devastante. Ma una «esplosione limitata e non distruttiva, che lasci precipitare al suolo l’aereo (da quel momento senza guida per aver invalidato il pilota o per aver danneggiato elementi di comando) nella sua sostanziale integrità strutturale». Sta a chi legge di giudicare se questa versione d’un pizzico d’esplosivo sia verosimile. Ma un elemento è certo. Il Morane Saulnier non si era frantumato in volo, nella realtà, anche se in volo lo si è voluto frantumare nella fiction.
Mi astengo dall’indugiare, un’ennesima volta, sul valore di perizie - tendenti ad avvalorare la tesi della mini esplosione - fitte di «compatibili», «attribuibili» e così via. E nemmeno ritorno sulla grottesca vicenda del contadino Mario Ronchi sul cui appezzamento di terreno si abbatté l’aereo. Il Ronchi, deceduto alcuni anni or sono, era stato incriminato per favoreggiamento in pro d’ignoti avendo insistito nel dire di non aver visto alcuna esplosione. Gli si faceva cioè carico di non aver visto ciò che non poteva aver visto. Gli insistenti accenni a un possibile attentato - in effetti Mattei era un bersaglio evidente - costituiscono il leitmotiv della biografia televisiva: nella quale anche la moglie è attanagliata dall’ansia. (La signora si rimaritò poi con un generale dell’aeronautica, Giuseppe Casero, che era stato a capo d’una delle prime commissioni d’inchiesta su Bascapè). Il Mattei di Raiuno è un cavaliere bianco nell’Italia che già allora era caratterizzata da loschi affari e da servilismi. Troppo spesso il dialogo gli fa pronunciare frasi storiche. In questo western petrolifero a lui è stato attribuito, ragionevolmente, il ruolo del buono. E agli americani il ruolo dei cattivi. Della sua spregiudicatezza di corruttore incorruttibile, di tangentista patriota, si è data una versione troppo edulcorata ed edificante. Mattei fu un grande protagonista, non un santino. Secondo il fratello Italo, strenuo assertore del sabotaggio a Bascapè, «si trattava bene, amava la buona tavola, vini, liquori, sigarette, donne, divertimenti. Poi tagliò tutto. Mantenne soltanto il debole delle donne». Aveva una volontà di ferro e un fascino irresistibile. Così Montanelli e io l’abbiamo descritto: «Era scarso e scarno parlatore, non irraggiava simpatia, non sprigionava calore umano. Ma c’era nelle sue parole e nel suo sguardo una carica di onestà e di sincerità che disarmava qualunque sospetto. La sua firma conferiva a qualsiasi cosa egli l’apponesse un primato d’eccellenza cui tutti finivano per credere perché il primo a crederci era lui». Un condottiero, in un’Italia contemporanea che ne ha avuti e ne ha pochi.