di Filippo Facci
E' morto a Mosca il più grande violoncellista di tutti i tempi: MSTISLAV ROSTROPOVICH. La sua immagine è legata per sempre alla caduta del Muro di Berlino, nel 1989, quando suonò la sua musica dinanzi al simbolo della vittoria del Bene sul Male. Alla sua memoria dedichiamo questo articolo di Filippo Nacci.
Una volta Mstislav Rostropovich osò interrompere la moglie che stava dicendo a un giornalista: «Per me la musica è la vita stessa, non avrei potuto vivere senza, credo che sarei morta, senza». Lui l'interruppe così: «Saresti vissuta lo stesso e avresti lavorato come tutti». Una frase semplicemente inimmaginabile in bocca a tanti o forse tantissimi musicisti o compositori o direttori d’orchestra del genere che incontri sempre in un clima ovattato, da catena alberghiera, a metà strada tra un Rotary e un arcivescovado, il genere di artista che ti spaccia sempre un’aura da uomo del destino, che ti parla come se dall'età di quattro anni avessero saputo ciò che sarebbe diventato, e giù ogni volta aneddoti, episodi di rivelazione. Figurarsi che cosa avrebbe potuto raccontare uno come Rostropovich, forse il più grande violoncellista di tutti i tempi, prediletto di Karajan, amico di Andreij Sakharov, quello che ospitò Aleksandr Solzenitsjn per quattro anni e che nel 1989 suonò davanti al muro di Berlino che intanto stavano demolendo.
Uno come lui avrebbe potuto spacciarti vocazioni e le predestinazioni fatali, e invece una volta l'intervistarono e disse: avrei potuto fare qualsiasi mestiere. Quale?, gli chiesero. Tutti si aspettavano: il musicista. E lui: «Un tempo incorniciavo quadri, poi, più avanti, quando vivevo in campagna, costruii una bara». Rostropovich faceva le bare, e il comunismo non gliene faceva mancare motivo. Ma riparava anche macchine per cucire e orologi da muro. Tutto l'impianto elettrico della sua casa di Mosca se lo fece lui. E va bene, ma che mestiere avrebbe voluto fare da bambino? E lui: «Il medico, l’autista, l’attore, costruire case». L’architetto? «No, il muratore. Nella mia infanzia sentivo il bisogno di toccare le pietre, di lavorare in cantiere. La musica avrebbe accompagnato comunque la mia esistenza, ma sarebbe esistita solo per me».
Sempre più inimmaginabile. Ma come, e il fatidico rapporto tra artista e pubblico? «Ero giovanissimo e partecipavo a delle serate a tema. C’era, per esempio, la serata dei valzer e delle serenate, bisognava suonare tre pezzi. Per i primi due non avevo problemi perché li avevo in repertorio, ma il terzo dovevo prepararmelo all’ultimo momento. Allora imparai un valzer di Kreisler che si chiamava Pene d’amore.Avevo, appunto, quindici anni: quando salii sul palco coi pantaloni corti, il presentatore disse: “E adesso Slava suonerà Pene d’amore”. Il pubblico scoppiò a ridere, non riuscivo a iniziare. Presi coscienza di che cosa sia il pubblico».
E infatti Rostropovich amava suonare per sé, non per il pubblico: «Mia moglie dice che sente il bisogno di dare la musica agli altri, ma io sento che a me bastano le mie emozioni». Sapeva che la musica, in sé, non è messaggera di niente, non la puoi imbrigliare, è ineffabile, ti sfugge e ogni volta si ripulisce da ogni connotazione storica, ideologica, regolamentatrice, si fa persino beffe delle velleità ispiratrici e celebrative che l’hanno creata. La musica resta, sono gli uomini che muoiono. E quando suonò davanti al muro di Berlino, nel 1989, nessuno gli chiese che musica stava eseguendo.