REFERENDUM, PRESSIONI E DIMISSIONI
La strada verso la riforma della legge elettorale è sempre più in salita e a complicare le cose sono arrivati il caso Vaccarella, dimissionario dalla Consulta a causa delle ingerenze del governo in tema referendario, e la tentata aggressione a Mario Segni ai tavoli del “Firma day”, atto che uno dei promotori del referendum, Guzzetta, non ha esitato a mettere in conto al presidente della Camera Bertinotti, che con le sue prese di posizione non certo “super partes” ne sarebbe il responsabile “oggettivo”. Annunciando il clamoroso gesto, Vaccarella ha fatto discendere da “dichiarazioni in materia di ammissibilità di referendum elettorali attribuite da organi di stampa ad alcuni ministri e ad un sottosegretario offensive della dignità e della indipendenza della Corte stessa, sia con riferimento all’assenza di smentite e al silenzio delle Istituzioni”. Il riferimento è ai ministri Chiti e Amato e al sottosegretario Naccarato, che in alcuni retroscena pubblicati dai giornali hanno espresso previsioni e auspici sull’orientamento che la Consulta assumerà rispetto all’ammissibilità dei quesiti referendari. Una parte del governo è convinta che i quesiti saranno giudicati inammissibili, e questo ha provocato la clamorosa reazione del giudice costituzionale. Il governo che ha occupato tutte le più alte cariche dello Stato, si permette di orientare anche le sentenze della Corte Costituzionale, la cui alta funzione di garanzia peraltro è già messa pesantemente in forse dalla sua composizione tutta spostata a sinistra. L’incidente, nonostante la presa di posizione di Napolitano, sembra destinato ad avvelenare il dibattito sulla riforma elettorale e a infuocare la campagna referendaria, che sta lacerando pericolosamente il centrosinistra, con le forze minori della coalizione scatenate contro i promotori, paragonati da Mastella addirittura a una “setta satanica”. Parisi non ha usato toni diplomatici nel bocciare il pur generoso tentativo di Chiti, nel lodare invece l’influenza del referendum, che “ci ha almeno imposto l’agenda”, e nel dire che “bisogna mettere uno stop alla dinamica della frammentazione in corso”, magari ricorrendo al sistema francese, la cui essenza “più che il doppio turno è il semipresidenzialismo”. I Verdi hanno subito chiesto un urgente vertice di maggioranza, istanza sottoscritta da tutti gli altri cespugli. Queste vecchie-nuove divisioni complicano ulteriormente il percorso della riforma elettorale, e dimostrano quanto sia strumentale il tentativo di Prodi di porsi come mediatore su un tema così cruciale, e rendono vuote anche le assicurazioni della settimana scorsa alla Lega.