di Mario Sechi - da Il Giornale
La storia politica ci ha consegnato governi di salute pubblica, Romano Prodi ci ha offerto un governo di salute incerta. Al punto che ha festeggiato come un miracolo l’aver spento la candelina del primo compleanno. Prodi finora ha potuto governare approfittando della debolezza dei partiti della sua coalizione e grazie a una serie di accorgimenti che sono un cattivo segnale per la democrazia italiana: fare poche leggi, portarne il meno possibile in aula, procedere a colpi di decreto. È una tattica che mostra il respiro corto dell’esecutivo, ma finora ha allungato la vita di un governo in rotta di collisione con la maggioranza dei cittadini e una parte sempre più ampia dei suoi stessi elettori.
Una situazione patologica al punto da costringere Prodi e Bertinotti ai ferri corti. Prodi ha accusato la Camera di non lavorare, Bertinotti ha risposto che il governo la deve piantare con i decreti legge. Scambio ruvido che il presidente del Consiglio ha cercato poi di ammorbidire. Ma le parole restano e il significato politico è chiaro: siamo a un passo dalla rottura istituzionale. Per queste ragioni il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha sentito il dovere di intervenire: dal Quirinale è giunto un appello scritto a garantire il buon funzionamento delle Camere e la raccomandazione di non abusare dei decreti. Troppe «lenzuolate», molta confusione, un uso improprio dello strumento della legislazione d’urgenza. Il tono del Quirinale è di ammonimento e preoccupazione e se è vero che il Colle non fa le leggi, è altrettanto vero che il Presidente della Repubblica ha tra i suoi poteri quello di intervenire quando i meccanismi costituzionali sono inceppati.
All’indomani delle elezioni, di fronte all’offerta di Berlusconi per un governo di larghe intese, Prodi rifiutò sdegnosamente, preferendo avventurarsi nell’operazione che passerà alla storia sotto il titolo «governare senza avere i numeri». I risultati sono sotto gli occhi di tutti ed è stupefacente ascoltare oggi il presidente del Consiglio invocare il fair play dell’opposizione: prego, lasciate passare le mie leggi e senza far baccano. La realtà è che il Parlamento italiano è ridotto in gravi condizioni: la settimana di lavoro, da corta è diventata cortissima, le commissioni spesso si riuniscono a vuoto, la qualità delle leggi è in caduta libera, deputati e senatori si rigirano i pollici e al massimo schiacciano il bottone della fiducia. La situazione è talmente seria che Massimo D’Alema si è riscoperto paladino del «governo forte» e ha auspicato una riforma per prendere decisioni «in tempi ragionevoli». All’epoca di Berlusconi a Palazzo Chigi si sarebbe evocata la «deriva autoritaria», ma erano gli anni in cui il centrosinistra era impegnato ad affondare nel referendum quelle riforme istituzionali che oggi invoca per se stesso, prima che sia troppo tardi e sia coperto da una «lenzuolata» pietosa.