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 RICORDO DI CURZIO MALAPARTE A 50 ANNI DALLA MORTEL Data: 14/07/2007
Appertiene alla sezione: [ Cultura ]
Ricorre in questi giorni il cinquantenario della morte di Curzio Malaparte, giornalista e scrittore di fama inernazionale, autore tra l'altro di romanzi che hanno segnato un'epoca come La pelle e Kaputt.
Il suo vero nome è Kurt Erich Suckert. Nasce nel 1898 da madre italiana e dal sassone Erwin Suckert a Prato, dove frequenta il liceo classico. A 16 anni si arruola nella legione garibaldina in Francia per combattere nella prima guerra mondiale. La sua carriera di giornalista inizia nel 1918. Aderisce nel 1920 al partito fascista e partecipa due anni dopo alla marcia su Roma, anche se in seguito si allontana dal regime. Tanto che dopo il 1933 viene imprigionato nell’isola di Lipari con l’accusa di aver svolto attività antifasciste all’estero. Ritorna in libertà grazie all’intervento di Galeazzo Ciano, e riprende la carriera di giornalista. Al termine della guerra si avvicina al partito comunista e nel 1947 si trasferisce a Parigi. Muore a Roma di cancro nel 1957.
Accusato di essere stato per tutta la vita un voltagabbana, Malaparte si difese così:
«Le opinioni di un uomo su un altro, specie di un critico,non sono mai obiettive; e perciò non mi interessano».
Ecco un ricordo di Malaparte di Giordano Bruno Guerri, storico e giornalista.

A cinquant’anni dalla morte di Curzio Malaparte la prima domanda che viene spontanea è: quale sarebbe, oggi, la posizione politica di un uomo passato dal Partito repubblicano al fascismo, all’antifascismo, di nuovo al fascismo, poi al filocomunismo e all’anticomunismo e che morì conteso fra comunisti e cattolici (Togliatti in persona gli consegnò la tessera del Pci, che però Malaparte avrebbe stracciato dopo un’improvvisa conversione)? Forse la conversione non ci fu, o forse di tessere del Pci ne aveva due, perché una l’ho vista con i miei occhi molti anni dopo, in mano alla sorella Maria. Malaparte era un uomo non inquadrabile, e dunque è difficile immaginarlo, ai giorni nostri, in uno dei due schieramenti: che a lui - uomo di eccessi e di provocazioni - sembrerebbero senz’altro troppo simili l’un l’altro per essere interessanti.
Vissuto e morto con la fama di voltagabbana, scrisse, in Deux chapeaux de paille d’Italie, del ’48: «Il solo, il vero programma di ogni italiano è di essere in buoni rapporti con il partito al potere». Una frase che molti ancora oggi considerano appropriatissima all’autore. Se non che egli ebbe una condanna a cinque anni di confino durante il regime fascista, si avvicinò per la prima volta al Pci a guerra non ancora conclusa e passò il resto della vita a polemizzare con la Dc al potere. Il fatto è che Malaparte disprezzava le ideologie, ma amava le rivoluzioni. Si staccò prima dal fascismo, poi dal comunismo, quando si accorse che non avrebbero compiuto rivoluzione alcuna. E scese a compromessi con entrambi perché riteneva che la propria libertà, il suo bene più prezioso, e la propria scrittura, valessero più del martirio pro o contro un’ideologia. Il crollo delle ideologie e la difesa delle libertà individuali, che è alla base delle più moderne democrazie liberali, fanno di lui un precursore, piuttosto che un voltagabbana: come sostenevo in un libro (L’Arcitaliano MALAPARTE L’Italia è kaputt viva l’Italia

di Giordano Bruno Guerri - venerdì 13 luglio 2007, 07:00
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«Le opinioni di un uomo su un altro, specie di un critico,
non sono mai obiettive;
e perciò non mi interessano».

Curzio Malaparte, luglio 1955

A cinquant’anni dalla morte di Curzio Malaparte la prima domanda che viene spontanea è: quale sarebbe, oggi, la posizione politica di un uomo passato dal Partito repubblicano al fascismo, all’antifascismo, di nuovo al fascismo, poi al filocomunismo e all’anticomunismo e che morì conteso fra comunisti e cattolici (Togliatti in persona gli consegnò la tessera del Pci, che però Malaparte avrebbe stracciato dopo un’improvvisa conversione)? Forse la conversione non ci fu, o forse di tessere del Pci ne aveva due, perché una l’ho vista con i miei occhi molti anni dopo, in mano alla sorella Maria. Malaparte era un uomo non inquadrabile, e dunque è difficile immaginarlo, ai giorni nostri, in uno dei due schieramenti: che a lui - uomo di eccessi e di provocazioni - sembrerebbero senz’altro troppo simili l’un l’altro per essere interessanti.
Vissuto e morto con la fama di voltagabbana, scrisse, in Deux chapeaux de paille d’Italie, del ’48: «Il solo, il vero programma di ogni italiano è di essere in buoni rapporti con il partito al potere». Una frase che molti ancora oggi considerano appropriatissima all’autore. Se non che egli ebbe una condanna a cinque anni di confino durante il regime fascista, si avvicinò per la prima volta al Pci a guerra non ancora conclusa e passò il resto della vita a polemizzare con la Dc al potere. Il fatto è che Malaparte disprezzava le ideologie, ma amava le rivoluzioni. Si staccò prima dal fascismo, poi dal comunismo, quando si accorse che non avrebbero compiuto rivoluzione alcuna. E scese a compromessi con entrambi perché riteneva che la propria libertà, il suo bene più prezioso, e la propria scrittura, valessero più del martirio pro o contro un’ideologia. Il crollo delle ideologie e la difesa delle libertà individuali, che è alla base delle più moderne democrazie liberali, fanno di lui un precursore, piuttosto che un voltagabbana: come sostenevo in un libro (L’Arcitaliano MALAPARTE L’Italia è kaputt viva l’Italia

di Giordano Bruno Guerri - venerdì 13 luglio 2007, 07:00
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«Le opinioni di un uomo su un altro, specie di un critico,
non sono mai obiettive;
e perciò non mi interessano».

Curzio Malaparte, luglio 1955

A cinquant’anni dalla morte di Curzio Malaparte la prima domanda che viene spontanea è: quale sarebbe, oggi, la posizione politica di un uomo passato dal Partito repubblicano al fascismo, all’antifascismo, di nuovo al fascismo, poi al filocomunismo e all’anticomunismo e che morì conteso fra comunisti e cattolici (Togliatti in persona gli consegnò la tessera del Pci, che però Malaparte avrebbe stracciato dopo un’improvvisa conversione)? Forse la conversione non ci fu, o forse di tessere del Pci ne aveva due, perché una l’ho vista con i miei occhi molti anni dopo, in mano alla sorella Maria. Malaparte era un uomo non inquadrabile, e dunque è difficile immaginarlo, ai giorni nostri, in uno dei due schieramenti: che a lui - uomo di eccessi e di provocazioni - sembrerebbero senz’altro troppo simili l’un l’altro per essere interessanti.
Vissuto e morto con la fama di voltagabbana, scrisse, in Deux chapeaux de paille d’Italie, del ’48: «Il solo, il vero programma di ogni italiano è di essere in buoni rapporti con il partito al potere». Una frase che molti ancora oggi considerano appropriatissima all’autore. Se non che egli ebbe una condanna a cinque anni di confino durante il regime fascista, si avvicinò per la prima volta al Pci a guerra non ancora conclusa e passò il resto della vita a polemizzare con la Dc al potere. Il fatto è che Malaparte disprezzava le ideologie, ma amava le rivoluzioni. Si staccò prima dal fascismo, poi dal comunismo, quando si accorse che non avrebbero compiuto rivoluzione alcuna. E scese a compromessi con entrambi perché riteneva che la propria libertà, il suo bene più prezioso, e la propria scrittura, valessero più del martirio pro o contro un’ideologia. Il crollo delle ideologie e la difesa delle libertà individuali, che è alla base delle più moderne democrazie liberali, fanno di lui un precursore, piuttosto che un voltagabbana: come sostenevo in un libro (L’Arcitaliano che ha ormai 26 anni e che non è ancora stato smentito.
Lo scrittore pratese è stato precursore anche come «narratore d’intervento» e «letterato di massa». Il suo impegno costante fu spiegare a un pubblico il più vasto possibile i grandi fatti del secolo, con una didattica sociopolitica oggi molto più comune di allora e di enorme acutezza. Basti pensare a come intuì e scrisse, con decenni di anticipo, che la rotta di Caporetto era stata, in realtà, anche una rivolta dei soldati italiani alla condotta militare e politica della Prima guerra mondiale, tesi ormai storicamente accreditata. O come denunciò, subito dopo la Seconda guerra mondiale, il degenerare dell’antifascismo in una fede religiosa uguale e contraria al fascismo, risultato al quale gli storici - De Felice per primo - sarebbero arrivati almeno tre decenni dopo.
Il suo spaziare in ogni genere di attività - cinema, teatro, giornalismo, varietà -, il suo volere a ogni costo essere un personaggio, sono fenomeni oggi comuni, quasi banali. Il Malaparte mondanissimo, che curava come una signora la propria bellezza, che viveva da single e passava da una donna all’altra, oggi non susciterebbe lo scandalo che suscitò nella sua epoca piccolo-borghese e conservatrice. Nel ’55 annunciò anche un progetto che la malattia e la morte gli avrebbero impedito di realizzare ma che anticipava di molto sia l’ecologismo sia il concetto attuale di sponsorizzazione: annunciò che avrebbe attraversato gli Stati Uniti in bicicletta per «protestare contro l’eccessiva meccanizzazione della vita moderna» e propagandare un ritorno alla natura; contando di farsi pagare le spese dalla Coca-Cola, annunciò che durante l’impresa ne avrebbe bevute duemila bottiglie.
Sarebbe lunga l’elencazione completa di Malaparte precursore, ma è il caso di ricordare almeno che, giovanissimo direttore della Stampa, alla fine degli anni Venti varò il giornalismo d’inchiesta; e che, sul finire della vita, fu tra i primi a «scoprire» e visitare la Cina maoista, riportandone un’impressione benevola, dovuta a come gli era stato diagnosticato e curato il cancro che l’avrebbe ucciso, più che a una vera simpatia politica. «Arcitaliano», ovvero esemplare ipertrofico dei vizi e delle virtù nazionali. Nato Suckert, da padre tedesco, anche per questo Malaparte si sforzò - riuscendoci - di essere più italiano degli italiani. Nell’agosto del 1953 spiegò al giovane scrittore Nantas Salvalaggio certi aspetti negativi del proprio carattere dovuti a «quel mio puritanismo nordico, protestante, che è sempre stata la forza, e la debolezza estrema, della mia vita, che mi ha fatto sbagliar tutto, tutti i miei atteggiamenti privati e pubblici, poiché, quando si ha il complesso nordico protestante puritano, e si appartiene a un paese latino, e bracalone, e facile in fatto di scrupoli etc. si sbaglia tutto, e si crede di fare un elogio, ed è un insulto, di essere furbi, e si è stupidi e ingenui etc. etc.». Educato - come Gabriele d’Annunzio - al collegio Cicognini di Prato, a una vita ordinata e impeccabile, gli fece comodo credere che gli italiani si comportino sempre in modo anarchico e diventare un arcitaliano inaccettabile al giudizio degli stessi italiani. Una volta disse all’amico Armando Meoni: «M’hanno creato questa fama d’avventuriero. Che motivo ci sarebbe di non profittarne? Tutte le sere, prima di coricarmi, su questa fama ci fo’ pipì, che la mattina possa ritrovarla più rigogliosa».
Ma una verità più cruda, e che non gli è stata mai perdonata, la disse in un’intervista al Tempo del luglio 1955: «Penso che se fossi vissuto in una società più virile e in mezzo a un popolo più virile sarei forse potuto diventare un uomo nel vero significato della parola. Ma se dovessi definirmi con una sola parola direi che, nonostante tutto, sono un uomo». In punto di morte, bisbigliò alla sorella Maria: «Di’ a tutti che Curzio Malaparte non è morto». Fu una frase attribuita al delirio. Mezzo secolo dopo, con Kaputt e La pelle, Malaparte è ancora uno dei pochissimi scrittori italiani tradotti e letti - vivi - in tutto il mondo.

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