Mentre in Birmania decine di monaci rimangono rinchiusi nelle carceri della giunta militare comiunista che 50 anni opprime quel popoo e quella nazione, pubblichiamo questo articolo di Giuliano FERRARA, che suona condanna sia per i pacifisti a senso unico delle nostre parti che rimangono rilenti difronte alla tragedia del popolo birmano e ancor più dei monaci, sia per gli ipocriti del nascente PD che giusto per la faccia hanno pubblicato solo sui loro siti web ipocrite dichiarazioni di condanna della repressione comunista in Birmania.
I monaci birmani interferiscono con splendente regalità spirituale nella plumbea laicità della
politica autoritaria incarnata dalla giunta del generale Tan Shwe. Quelle tonache zafferano sciamano per le vie di Rangoon al canto “democrazia”, e sfidano la logica del coprifuoco e della repressione militare. I sindacati clandestini, il governo in esilio che aveva vinto
le elezioni 17 anni fa, la dissidente premio Nobel agli arresti domiciliari, la società tradizionalista aggrappata alle roccheforti buddiste tra le colline di Mandalay e la gente comune vessata da decenni sono tutti al rimorchio di questa esplosione di spiritualità di piazza, che incanta il mondo intero. Anche i cristiani birmani, pochi convertiti dell’epoca coloniale, sono chiamati a pregare.
Non è come nel Tibet dei lama, dove l’eroismo della santità al servizio del popolo nutriva e nutre la rivendicazione dell’indipendenza, schiacciata in un’epoca di divisione del mondo e di cortine di ferro. Non è come quando i bonzi vietnamiti si bruciavano in piazza per testimoniare nell’autoannullamento la speranza di una disperazione coltivata da decenni di guerra nella penisola tonchinese. Stavolta i monaci che cantano la democrazia e radunano il popolo a pretenderla, sfidando il colosso amico cinese e la stabilità custodita dall’India immobile, mettono in pericolo i traffici e la congerie di interessi che sorreggono un potere senza legittimità. Questi monaci ribelli sono al centro di un mondo nuovo, che la tragedia della Tien An Men aveva lasciato intuire con un fatale anticipo nell’anno di grazia 1989.
George W. Bush all’Onu sveglia tutti riprendendo i temi politici universalistici dei suoi discorsi sulla libertà che hanno fatto storcere il naso ai sapienti d’Europa, proponendo e imponendo nuove dure sanzioni ai generali sempre sul punto di ricorrere alla mano forte, reinventando una diplomazia dei diritti che si fa strada anche a Parigi, rilanciando il grande mito dell’esportazione della democrazia, con cui si è aperto dopo l’11 settembre il XXI secolo. Gli americani predicano da tempo contro la tirannia, confermando in questo di essere un potere imperiale con un contenuto religioso, una vocazione metapolitica che è la stoffa di cui è fatta quella strana nazione.
Il cosiddetto fatto religioso si impone con quelle serpentine colorate anche all’attenzione dei più scettici. La laicità non può essere la divisione della coscienza umana, l’esclusione di uno dei doni della storia, la fede, dal campo di battaglia della ragione. La democrazia non è una procedura, una tecnica avalutativa, è prima di tutto una vocazione fondata sul concetto di persona, e questo perfino nel mondo in cui l’io personale è negato dallo spirito del Buddismo, nel mondo in cui una forma millenaria di atarassia, di apatia politica è addirittura considerata una virtù.
L’Occidente opulento e incerto si è lasciato attraversare dalla religione degli orientali in mille modi fatui, qualche volta frivoli. Nella forma del sincretismo, nelle prescrizioni rituali vegetariane, nell’elaborazione di una religione personale fai-da-te, in quell’assopimento della coscienza, di natura oppiacea, che emana fumo da molti cervelli. Generazioni di europei e di americani hanno fatto della non-violenza, che è uno strumento di lotta asperrimo, un alibi pacifista per la rinuncia, per il disarmo della mente e del cuore. E adesso arrivano questi monaci birmani, che della democrazia potrebbero infischiarsene, che le sono lontani quasi per statuto, e la parola cantata, quella che convince e trascina, passa interamente e compiutamente a loro.