di Cristiano Gatti – Il Giornale
Servirà un po’ di tempo. Servirà anche un buon logopedista per sciogliere i nodi della lingua e rendere agile la dizione. Ma alla fine tutti quanti dovremo chiamare la Vetta d'Italia col suo vero nome: Glockenkaarkofl. Così sarà sulle cartine geografiche, sui cartelli stradali, sui libri di scuola, sui documenti ufficiali. Forza, provare. Cosa sarà mai: Glockenkaarkofl. Dovremo farci l'abitudine e l'orecchio: presto, una legge dell'Alto Adige eliminerà per sempre la versione che piace a noi. Assieme alla Vetta d'Italia, saranno abbattuti altri ottomila nomi in lingua tricolore. Ottomila sui novemila esistenti.
Sopravviveranno in doppia versione solo i Comuni. Il resto della geografia locale - cime, torrenti, boschi, masi, valli e contrade - avrà solo nomi e cartelli tedeschi. La Val Fiscalina, dove l'altra settimana s'è sbriciolata mezza montagna: Fischleinthal. Il Maso Corto, ben noto agli sciatori per la sua pista leggendaria: Kurzhof. E l'ormai famoso Plan de Corones, che si portava dietro la sua gloriosa storia latina e ladina: niente da fare, sarà una volta per tutte Kronplatz. Devo un'avvertenza: può darsi che nella trascrizione abbia infilato qualche sfondone. Chiedo subito scusa. In questo strano luogo d'Italia, che qui orgogliosamente chiamano Sud Tirol, non sempre hai sottomano un interprete.
Siamo alle ultime fasi del progetto: nell'indifferenza babbea e indolente dello Stato sovrano, stanno ricostruendosi una piccola Austria. È il bricolage dell'autodeterminazione, che ormai va avanti da un secolo. Si pensava allora, alla fine della Grande Guerra, che dopo un paio di generazioni tante velleità autonomiste si sarebbero via via stemperate. Invece, un secolo dopo, è pure peggio. I nipoti stanno realizzando il sogno dei nonni sconfitti: ripristinare l'Austria là dove una guerra l'aveva sfrattata.
Inutile ripercorrere la storia dei trattati e dei tralicci, una storia che comunque ha portato in questi luoghi tanti privilegi e tanto benessere. A questo punto interessa soltanto l'ultimo capitolo. O «l'ultima questione irrisolta», come la definisce l'indiscusso sovrano del dorato reame, quel leggendario presidente della Provincia, nonché pezzo grosso del Südtiroler Volkspartei, che risponde al nome di Luis Durnwalder. In termini tecnici, si discute della toponomastica. Cioè i nomi geografici. Di tutte le materie affrontate nei vari trattati per l'autonomia, nettamente la più ostica ed esplosiva. Perché la più simbolica. Perché mette in gioco l'identità del popolo, che qui da troppi anni cammina in bilico tra le rivalità etniche. È come mettere d'accordo i nonni sul nome del nipotino: un affare in sé effimero e impalpabile, ma capace di scatenare furibonde guerre familiari. Qui, da quasi cent'anni, cartelli stradali e carte geografiche vengono fatti e rifatti. Prima del Novecento domina il tedesco, poi arriva Mussolini e impone l'italiano, quindi si arriva nell’ultimo Dopoguerra alla mediazione del bilinguismo. Ogni nome ha due versioni. Un principio che sembra di massimo rispetto. Che non mortifica nessuno. Tant'è vero che viene continuamente richiamato in tutte le leggi e in tutti i trattati di questa incredibile e interminabile contesa.
Però c'è un però: l'ultimo Statuto per l'autonomia, del ’72, lascia al governo locale il compito di riordinare la toponomastica, fatto salvo il principio del bilinguismo. Guarda caso, fino ad oggi tutti se ne sono guardati dal mettere il piede sulla mina. Ora, l'ardimentoso Durnwalder si accinge a farlo. Il suo partito ha pronto un disegno di legge, che ovviamente in sede di votazioni passerà a mani basse, avendo il gruppo Svp da sempre la maggioranza assoluta in consiglio provinciale. Che cosa preveda il piano, più o meno, ho già detto: dopo un certosino lavoro di riordino, ottomila nomi in lingua italiana spariscono dalla circolazione. E dalla memoria. Ottomila su novemila, meglio ribadire. Come dice il presidente provinciale di An, Alessandro Urzì, «dopo la pulizia etnica, siamo alla pulizia toponomastica».
Il geniale Durnwalder ha in mente un criterio perfetto. Dice: per sapere se abbia ancora senso tenere in vita un nome, italiano o tedesco che sia, bisogna solo vedere se la gente lo usa. Dunque, si andrà a chiedere di villaggio in villaggio quali nomi vengano usati realmente. Perché il nome sopravviva, italiano o tedesco che sia, deve essere familiare ad almeno il venti per cento della popolazione di quel luogo.
A prima vista, sembra persino equo: in sostanza, sopravvivono i nomi usati e muoiono quelli che nessuno usa. Nobilissimo. Se non fosse che il criterio contiene un meccanismo diabolico: da queste parti, ormai, i tedeschi sono il settanta per cento. Pochissimi, in giro per le vallate, i paesi dove gli italiani arrivano al venti per cento. Chiaro l'effetto pratico: saranno pochissimi i paesi in cui il venti per cento riuscirà a salvare il mome italiano. Se non suona troppo brutale, il progetto di Durnwalder va definito in un modo molto semplice: è una saporitissima polpetta avvelenata. Guarda caso, in zona tira già aria da guerra santa. Da tempo i toni non erano così esasperati. Spiega ancora Urzì, che ha avviato una petizione popolare: «Fuori, la gente fatica magari a capire tanta tensione su una questione formale. Ma nessuno deve mai dimenticare che nei nomi ci sono la storia e la cultura di un'identità: perso il nome, è persa la memoria. E qui di tutto abbiamo bisogno, tranne che di questo. Durnwalder vuole riportare indietro le lancette della storia: di un secolo». Sempre sul fronte Polo, Forza Italia ha presentato un'interrogazione parlamentare, firmata da Michaela Biancofiore. Ma la difesa dei nomi italiani non è esclusivo affare di versante destro: come si dice, è allarme trasversale. I Verdi, da queste parti fortissimi, così si esprimono per bocca di Cristina Kury, che pure è di etnia tedesca: «Presenteremo una nostra proposta. Il principio assoluto, che non si tocca, resta il bilinguismo. Punto. Durnwalder non può aprire una simile questione a un anno dalle elezioni. Se lo fa, è per ricompattare sull'orgoglio il gruppo tedesco. E forse anche per sfruttare il suo grande momento a Roma: tre senatori Svp tengono in vita Prodi, possono chiedere qualunque cosa...».
Da parte sua, il presidente Durnwalder sembra sguazzare a proprio agio in questo brodo primordiale del muro contro muro. In diverse occasioni, non esita a manifestare pubblicamente tutta la sua determinazione ad andare fino in fondo. «Quello della toponomastica è un nodo irrisolto, voglio chiudere in tempi brevi. Le preoccupazioni degli italiani? Se viene cancellato un nome che non si usa, non si perde nulla». A un cronista locale che giorni fa gli faceva notare l'inghippo della legge, questa la risposta: «Non capisco il problema. Se in un paese la maggioranza è tedesca e si usa solo la versione tedesca, al gruppo italiano non si toglie niente». Una dedica anche a Ettore Tolomei, lo studioso che nel secolo scorso mise a punto un elenco delle denominazioni storiche di questi luoghi: «Quel pazzo ha cambiato i nomi originari, imponendo nomi di fantasia. Reinswald è diventato San Martino, Obereggen è San Floriano. Ma se chiami un'ambulanza per San Martino o per San Floriano, i soccorritori non arriveranno mai...». È facile prevedere: se Durnwalder non fa marcia indietro, presto l'Italia si fermerà a Trento. Qui, un domani, l'impronta nazionale resterà riconoscibile soltanto nei fondi pubblici che l'indefesso Stato sovrano continua a inviare. Per dovere di cronaca, non va comunque ignorato come Durnwalder sia disposto ad aperture, secondo quanto dichiarato recentemente: «Intendiamoci: se poi un italiano, in privato, vorrà usare il nome italiano, potrà farlo. Non sarà la versione ufficiale, ma potrà farlo...». Gli va riconosciuto: è molto umano.