di Giuliano Cazzola
Le cronache del "giovedì nero" si sono lungamente diffuse su di un burrascoso colloquio svoltosi alla buvette del Senato tra Lamberto Dini e Tiziano Treu, a lungo "compagni di strada" (Treu è stato ministro di Dini) in Rinnovamento Italiano, poi nella Margherita, prima che la nascita del Pd (il solo Treu ha aderito) dividesse i loro percorsi.
L’oggetto della disputa ha riguardato il disegno di legge su welfare e mercato del lavoro e segnatamente il capitolo pensioni, che è poi quello più a rischio sul versante dei conti pubblici. Il piano finanziario a corredo del pacchetto Damiano prevede una copertura di 10 miliardi dal 2008 al 2017 (si noti che i risparmi cumulati garantiti dall’effetto scalone entro il 2018 sarebbero stati pari ad oltre 65 miliardi). Dei 10 miliardi di maggiori oneri, 7,48 miliardi vengono attribuiti alla revisione dello scalone (mediante un sistema che agisce – è visibile la mano della RGS – sulle c.d. quote ovvero sulla somma del requisito contributivo e di quello anagrafico e su di una serie di scalini consistenti in un requisito minimo di età); 2,52 miliardi servono invece per finanziare il Fondo per i lavori usuranti, materia sulla quale, nella trasformazione del testo del protocollo del 23 luglio in norma del disegno di legge è "saltato" il riferimento a 5mila pensioni all’anno, rendendo ancor più inconsistenti gli strumenti di difesa del sistema contro l’assalto dei prepensionamenti di massa "sospinto" da una disciplina troppo generosa del lavoro usurante. Il Governo ha ampliato a dismisura la platea (sono previsti 1,4 milioni di lavoratori, ma saranno di più).
Si tenga conto – è l’unico precedente in materia – che lo "stralcio Salvi", nel 2000, consentì di liquidare, con le tutele previste per le mansioni usuranti, 6mila trattamenti. Ma ci vollero 250 miliardi di vecchie lire.
La nuova normativa, infatti, oltre a riconoscere a troppe condizioni lavorative la fattispecie di lavori usuranti, non si limita ad intervenire sugli anni di effettivo svolgimento di attività disagiate (come è avvenuto nel caso dell’esposizione ad amianto), ma riconosce una sorta di status di lavoratore usurato, che è possibile acquisire – e non perdere più neppure se cambiasse profondamente il tipo di lavoro - in relazione al tempo in cui la persona – semel usuratus semper usuratus - è stata adibita alle fatidiche mansioni usuranti.
Il requisito anagrafico è ridotto di tre anni rispetto a quello previsto (con un minimo di 57 anni) purché i richiedenti "abbiano svolto tale attività a regime per almeno la metà del periodo di lavoro complessivo o (nel periodo transitorio) almeno sette anni negli ultimi dieci di attività lavorativa". E’ in quest’ultima parte il veleno dell’operazione consumata dall’Esecutivo e dai sindacati, con la regia delle frazioni comuniste. Grazie alle maggiori facilitazioni concesse, appunto, nel periodo transitorio, molti lavoratori avranno la possibilità di aggirare nei prossimi anni il pur graduale innalzamento del requisito anagrafico per la pensione di anzianità. Per altro, ad essere onesti, occorre riconoscere che tutta la materia dei lavori usuranti – per come è stata definita – è una trappola da cui è difficile liberarsi, anche se venisse reintrodotto il riferimento dei 5mila casi all’anno. Se viene riconosciuto – sulla base di requisiti accertati – che un lavoratore ha diritto al bonus per il lavoro usurante, non lo si può mettere in lista di attesa, qualora sia stato superato il massimale di legge. Qualunque giudice gli riconoscerebbe un diritto soggettivo ad avvalersene.
Così, nel protocollo, il combinato disposto tra l’indicazione di un riferimento numerico (le 5mila unità annue) e di una copertura finanziaria (252 milioni medi all’anno) era stato introdotto dall’Economia al solo scopo di investire il Parlamento del problema di dover rifinanziare la misura in caso di sfondamento degli stanziamenti previsti. Si tratta, dunque, di una sorta di Triangolo delle Bermude da cui non si può uscire facilmente, neppure ripristinando il riferimento delle 5mila unità. Ma con questa soluzione il sistema pensionistico è seduto sul classico barile di tritolo.
Come se non bastasse, in modo del tutto improprio rispetto ai contenuti del protocollo, il Governo, nel ddl, ha riaperto i termini per le domande di trattamento agevolato per esposizione all’amianto che è già costato al sistema la bellezza di centomila prepensionamenti (con proiezioni economiche future devastanti: 13,5 miliardi nel 2015). Della tragica esperienza dell’esposizione all’amianto - riguardante una platea più ridotta e tardivamente ridimensionata – il Governo non ha tenuto conto per nulla nel definire la nuova normativa. L’emergenza lavori usuranti ha messo la sordina all’altro corno del dilemma-pensioni: la trasformazione dello scalone in un mix di gradini e quote. Va detto subito che la cifra di 7,48 miliardi è sottostimata.
Prima che la trattativa conclusasi con la stipula del protocollo prendesse il via, l’Economia divulgò delle ipotesi di spalmatura dello scalone con i relativi costi. Quella che partiva da 58 anni nel 2008 per arrivare ai 62 negli anni successivi – articolata sulla base di scalini rigidi - avrebbe richiesto (per ammissione della RGS) 9,5 miliardi di copertura come dato cumulato fino al 2016. La soluzione trovata – scalini più quote - è senz’altro più flessibile e quindi maggiormente onerosa. Come possa oltre 2 miliardi in meno rimane un mistero.
E la copertura ? Le misure proposte sono aleatorie o inique. Prendiamo il caso dei 3,6 miliardi derivanti dall’incremento di 3 punti (uno all’anno) dell’aliquota contributiva dei lavoratori parasubordinati in via esclusiva. Questo intervento è particolarmente maledetto perché colpisce il settore più svantaggiato del mercato del lavoro (quegli atipici per i quali la sinistra piange amare lacrime da coccodrillo), già penalizzato dalla batosta consistente nell’aumento di 6 punti contenuto nella legge finanziaria (e già assorbito nel quadro della manovra per l’anno in corso). In sostanza, questi lavoratori, nell’arco temporale di un quadriennio (2007-2010), subiranno un salasso di ben 9 punti di aliquota contributiva che i committenti preleveranno, alla fine, dai loro modesti redditi. Viene poi penalizzata la rivalutazione automatica delle pensioni più elevate, alla faccia di quanti reclamavano il recupero del potere d’acquisto mortificato.
Ma la cosa più curiosa riguarda le misure per la razionalizzazione degli enti previdenziali a cui si attribuiscono 3,5 miliardi di euro di risparmi. Se questo risultato non sarà raggiunto scatterà, dal 2011, un prelievo contributivo aggiuntivo dello 0,9% a carico di tutte le categorie di lavoratori. Come si vede le uniche indicazioni – per altro abbastanza incerte – dotate di una qualche credibilità riguardano percorsi di maggiori entrate attraverso incrementi del prelievo contributivo. Col paradosso che tra qualche anno l’aliquota contributiva di un cocopro sarà superiore di ben 6 punti rispetto a quella di un artigiano o di un commerciante. Infine, i puristi abbacinati dal calcolo contributivo, che per tanto tempo hanno accusato la legge Maroni di violare i sacri principi della legge Dini del 1995, si saranno accorti che di quell’impianto è rimasto ben poco. I coefficienti di trasformazione sono stati contemporaneamente definiti e rinviati.
Inoltre aleggia - inutile come un buon proposito, falsa come una bugia - la promessa, derivante da una strana alchimia, di un tasso di sostituzione del 60% ai giovani di oggi e pensionati di domani.