Sono passati 90 anni dalla Rivoluzione Russa. Ormai si può conoscere tutto di quel che avvenne in Russia nel 1917. Eppure i luoghi comuni che deformano politicamente la storia sono più resistenti e diffusi rispetto alla storia reale. Basta fare un esperimento molto semplice: chiedere a chiunque sia dotato di un’istruzione media che cosa sia stata la Rivoluzione Russa. Molti non l’hanno mai studiata o non la ricordano. Da quelli che la ricordano, in base a ciò che hanno studiato sui libri di storia, si otterrà sempre la stessa risposta: i comunisti, alla testa del proletariato, hanno rovesciato il potere zarista e hanno fondato l’Unione Sovietica. Poi possono seguire giudizi positivi o negativi sull’Unione Sovietica e sul comunismo, ma resta granitica la certezza che l’alternativa in Russia era tra il vecchio Zar (retaggio delle antiche monarchie europee) e i comunisti. Il che giustifica questi ultimi, anche agli occhi degli anticomunisti: la Russia non poteva tenersi lo Zar anche nel ‘900, era ormai un regime feudale che non trovava posto nel mondo moderno, tutto sommato i comunisti hanno fatto della Russia un paese moderno, hanno creato l’industria pesante e hanno lanciato lo Sputnik, ecc...
Si appare come dei provocatori anticomunisti se si racconta un’altra storia: il partito comunista (bolscevico) prese il potere con la forza, contro il parere del proletariato, dei sindacati operai e della stragrande maggioranza dell’opinione pubblica russa, in un paese che si era già liberato della monarchia zarista. Dopo la presa del potere, i comunisti hanno riportato all’epoca delle caverne una Russia che era in piena fase di modernizzazione. Questo fu il 1917? Sì: successe esattamente questo. E lo si può affermare ad alta voce, per due motivi fondamentali.
Dal 1905 la Russia si stava modernizzando
Già negli ultimi decenni del XIX secolo, la società russa si stava evolvendo, sviluppandosi un’industria autonoma sempre più florida e aumentando le interdipendenze economiche con l’Europa. Dopo la sconfitta nella guerra Russo-Giapponese del 1904-1905, una prima rivoluzione, guidata dai liberali, aveva costretto lo Zar Nicola II, nell’ottobre del 1905, a concedere una carta costituzionale che prevedeva l’istituzione di un parlamento consultivo: la Duma. Le garanzie costituzionali erano ancora molto limitate, come sempre nei Paesi privi di una tradizione democratica e di una struttura sociale aperta e pluralista, ma il primo importante passo era compiuto. Negli anni successivi, il primo ministro Stolypin, seppur non risparmiando ai rivoluzionari radicali metodi non propriamente “garantisti” (la famosa “cravatta di Stolypin” riferita alle impiccagioni), condusse gradualmente la Russia sulla strada della democrazia liberale. I suoi obiettivi erano chiaramente in questa direzione: garantire i diritti di libertà individuale; moderare le pratiche della polizia (adeguandosi agli standard europei); trasformare la Russia in una federazione di autonomie locali; garantire pari diritti a tutti i cittadini, indipendentemente da sesso, etnia, religione; legittimare i sindacati e provvedere a garantire istruzione e sanità a tutti. Ma Stolypin non aveva l’appoggio delle altre istituzioni. Ovviamente non aveva quello della corona, troppo aggrappata agli antichi privilegi. Ma soprattutto non ebbe il sostegno della Duma, dominata da utopisti che non volevano neppure sentir parlare di un compromesso con lo zar e il suo ministro. Neanche i liberali (il partito KD), che nella storiografia comunista sono bollati come “reazionari”, furono esenti da slanci utopistici autolesionisti: pur dovendo condividere in pieno il programma di Stolypin, si lasciarono affascinare da programmi radicali (come la redistribuzione della terra) per contendere elettori ai socialisti. Morto tragicamente Stolypin, in un attentato nel settembre 1911, fino alla I Guerra Mondiale, la politica russa si trasformò in un “muro contro muro” fra Duma e zar e, apparentemente, qualsiasi tentativo di riforma si arenò. Solo apparentemente, però: l’esperienza costituzionale e il maggior dinamismo economico stavano mutando profondamente la struttura sociale russa. La classe media di piccoli proprietari terrieri (i kulaki), cresciuta in seguito alle riforme agrarie di Stolypin, garantiva una salda stabilità sociale: le campagne erano sempre più ricche e questo eliminava gran parte delle cause di conflittualità sociale in un popolo costituito, per almeno due terzi, da contadini. L’industria era notevolmente cresciuta, tanto che la Russia era, nel 1914, la quarta potenza industriale del mondo. E maggiore industrializzazione significa maggior presenza di tecnici, operai specializzati, lavoratori istruiti e una classe di imprenditori indipendenti. I crescenti scioperi degli operai erano un fenomeno sempre meno conflittuale, dal momento che i sindacati erano legalizzati, come lo era il diritto di sciopero. La politicizzazione estremista della vita russa era in calo: i gruppi radicali erano sempre meno seguiti. La Russia era ancora sulla strada della libertà: le sarebbe occorsa una riforma “sbloccante” che raggiungesse gli obiettivi che Stolypin, in 6 anni di sapiente governo, non era riuscito a raggiungere. Le piombò addosso, invece, la guerra mondiale. La I Guerra Mondiale, oltre a provocare alla Russia danni immensi all’economia e milioni di morti, inasprì i conflitti politici, etnici e sociali, allargando le crepe che rimanevano da decenni. Questa miscela esplose nel febbraio del 1917, con il rovesciamento del regime zarista. La rivoluzione di febbraio, distruggendo la monarchia, distrusse anche le speranze di chi intendeva riformare gradualmente e pacificamente la Russia. Saltato il tappo dello zar, si scoperchiò il vaso di Pandora russo: anarchia nelle campagne, sbandamento nell’esercito e nascita di sempre più forti sindacati degli operai e dei soldati: i Soviet. Furono soprattutto loro la causa della implosione della democrazia russa. I Soviet erano talmente influenti da contendere il potere alla Duma, che avrebbe dovuto, tramite un governo provvisorio, guidare il Paese verso la transizione alla democrazia liberale. Anzi: i Soviet e il loro organo di raccordo burocratico, l’Ispolkom, pur rappresentando gli interessi del 10-15% della popolazione (i contadini non vi erano rappresentati) e pur non essendo elettivi e responsabili di fronte a un elettorato, detenevano il controllo assoluto sulle forze armate, su tutti i mezzi di trasporto e comunicazione, su gran parte dell’informazione, nonché il diritto di veto su qualsiasi provvedimento governativo. Non è esagerato affermare che il totalitarismo sovietico abbia cominciato a strutturarsi durante il 1917. Dall’altra parte, la Duma e i governi provvisori che esprimeva di volta in volta, erano troppo deboli per fronteggiare la situazione: pur limitando gli obiettivi militari (anche a causa dell’opposizione dei Soviet) e riconoscendo la debolezza in cui versava l’esercito, i successivi governi L’vov e Kerenskj, non ebbero la forza di prendere una decisione in merito alla continuazione o meno della partecipazione al conflitto. Queste erano le condizioni grazie alle quali i bolscevichi poterono prendere il potere. Non instaurarono il loro regime in un paese feudale stagnante, ma in una repubblica che stava nascendo, approfittando della debolezza istituzionale che caratterizza ogni giovane democrazia.
Il potere dei Bolscevichi era fondato solo sulla forza e non sul consenso
Fino al 1917, il partito di Lenin non aveva seguito in Russia. Fu la Germania imperiale, per motivi bellici (far uscire la Russia dal conflitto) a permettere il ritorno di Lenin in patria e la riorganizzazione del partito bolscevico. Il primo exploit politico bolscevico fu subito caratterizzato dal tentativo di conquistare il centro del potere con la forza. Quando il 4 luglio Lenin tentò il colpo di Stato una prima volta, il governo si salvò solo grazie alla disorganizzazione dei golpisti e successivamente non ebbe sufficiente forza e determinazione nel condurre la repressione degli insorti. Kerenskj, da uomo della sinistra radicale quale era, non vedeva nei bolscevichi una minaccia, ma restava terrorizzato da una fantomatica congiura di destra. Tentando di esorcizzare questa paura, prima chiese l’appoggio del generale Kornilov (un generale di provata fede liberale) contro eventuali altri colpi di mano, poi, dopo una serie di intricati malintesi, fece arrestare Kornilov stesso e il suo stato maggiore. Non solo: temendo un colpo di mano di destra, compì la mossa suicida di permettere il riarmo delle forze para-militari bolsceviche e la scarcerazione dei golpisti di luglio. Con l’“affare Kornilov”, la democrazia russa si era suicidata privandosi di qualsiasi mezzo di difesa. A questo punto Lenin, aiutato da Trotzkij, poté prendere il potere. Alla fine di ottobre, i bolscevichi, che erano una minoranza all’interno dei Soviet, conquistarono, con uno stratagemma, il controllo dell’organizzazione: il che voleva dire conquistare il controllo del potere reale nel Paese. Precedendo di alcuni giorni il Congresso dei Soviet, ma agendo ugualmente nel nome dei Soviet, Lenin guidò il colpo di Stato del 7 novembre 1917. Anche successivamente al golpe, il partito bolscevico dovette imporre il suo potere con la forza: fabbriche, ministeri e amministrazioni pubbliche entrarono subito in sciopero contro il nuovo regime. E Lenin dovette ricorrere all’intimidazione per farsi rispettare: stroncò gli scioperi, sostituì il personale dei ministeri, ricorse per la prima volta al terrore. Alla prima prova elettorale, le elezioni dell’Assemblea Costituente (le prime vere e proprie libere elezioni, a suffragio universale e a scrutinio segreto), i bolscevichi furono votati solo da un’esigua minoranza. Lenin, che aveva già conquistato la macchina dello Stato, sciolse l’Assemblea Costituente il 19 gennaio 1918 e poi fece sparare sulla folla che protestava per la soppressione della democrazia. Restava da occupare il resto della Russia. E anche questo compito fu svolto facendo ricorso alla forza bruta. La Guerra Civile tra i bolscevichi e gli eserciti che si opponevano al nuovo regime (le Armate Bianche) continuò fino al 1921 e costò alla Russia 1 milione di morti. Lo storico statunitense Richard Pipes smentisce un altro luogo comune: quello secondo cui i contadini si schierarono dalla parte dei bolscevichi, determinando la sconfitta delle Armate Bianche. In realtà i contadini non si schierarono: furono reclutati a forza da entrambi gli eserciti quando la linea del fronte raggiungeva, di volta in volta, i loro villaggi. I bolscevichi vinsero perché, sin dallo scoppio della guerra civile, avevano il controllo delle regioni centrali e più industrializzate della Russia, avevano la possibilità di reclutare il grosso della popolazione urbana russa (cosa che garantì loro una schiacciante superiorità numerica per tutta la durata del conflitto) e potevano sfruttare la maggior parte delle linee ferroviarie per spostare le loro truppe. Al contrario, i Bianchi era dispersi in tre regioni periferiche (estremo Nord, regione del Don e Siberia) non comunicanti e furono sempre in inferiorità numerica. Contrariamente alla vulgata che li volle al servizio delle “potenze imperialiste”, il sostegno che ebbero dalle potenze europee, dagli Stati Uniti e dal Giappone fu solo logistico e limitato nel tempo.
Nel frattempo, il nuovo regime consolidava gli strumenti per il controllo assoluto del potere. Due episodi sono da ricordare per comprendere la natura del regime bolscevico: la fondazione della polizia politica (la Ceka) il 20 dicembre del 1917 e la fondazione del primo campo di concentramento nelle Isole Solovki nel maggio del 1918. La polizia politica e i campi di concentramento per i lavori forzati, poi chiamati Gulag dal nome dell’agenzia che li amministrava, furono le caratteristiche peculiari della repressione comunista, poi esportate a tutti gli altri regimi comunisti nei decenni successivi e imitati dagli altri regimi totalitari, in primo luogo quello nazista. Entrambi questi strumenti erano necessari alla preparazione della nuova società, tramite l’eliminazione fisica del dissenso politico, della religione, dei ceti medi e anche dei contadini “che possiedono il grano, ma non lo cedono alla collettività”, che per questo motivo furono ufficialmente dichiarati da Lenin “nemici del popolo” sin dal maggio del 1918. La repressione di Lenin costò alla Russia (dal 1917 al 1924) circa quattro milioni di vittime, quattro volte tanto il numero complessivo dei caduti nella Guerra Civile. Sarebbe stato solo l’antipasto di quello che la Russia subì nei 74 anni successivi.