di Giuseppe De Tomaso
NON ABBIAMO MAI NASCOSTO LA NOSTRA AVVERSIONE AL FEDERALISMO IN SALSA ITALIANA PER CUI CI HA FATTO PIACERE LEGGERE L'EDITORIALE DI QUESTA MATTINA DEL VICEDIRETTORE DELLA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO GIUSEPPE DE TOMASO SULL'ARGOMENTO CHE AMPIAMENTE CONDIVIDIAMO. ECCOLO.
Il professor Giovanni Sartori è l’erede di Indro Montanelli (1909-2001). Toscanaccio come il principe del giornalismo italiano, Sartori non è avvezzo alle mezze misure e ai chiaroscuri. Adopera la penna come una clava e, nei confronti dei suoi critici, è persino più tagliente della buonanima di Indro. Fiero della sua cattedra di maestro di politologia (i cui testi sono stati tradotti in quasi tutti i Paesi del globo), il professore sembra quasi non voler ammettere il contraddittorio, meravigliandosi se qualcuno non gli riconosce l’attestato, stavamo per dire il dogma, dell’infallibilità. Ad esempio in materia di riforme elettorali, argomento su cui Sartori esterna con l’aura dell’ipse dixit e con l’autoconvinzione dell’inappellabilità, degna di una Corte di Cassazione. Guai a dissentire dal «papa» della politologia. Si rischia di restare fulminati come improvvidi alpinisti intenti a scalare il Cervino durante un temporale. Anche sui problemi ambientali, che pure esulano dai suoi studi, il Nostro è più intollerante e categorico di un oracolo. Ma, si sa, nessuno può mettere il freno al proprio carattere, soprattutto se proviene dalla regione (la Toscana) più arguta e attaccabrighe d’Italia.
Ma su un tema, il Maestro ha ragione da vendere, anche se la materia del contendere non rientra tra le sue qualifiche e benemerenze accademiche: il federalismo. Sartori, infatti, è un politologo, non un costituzionalista. Il che non gli impedisce di esprimersi sulla questione federallismo con una libertà di linguaggio, una proprietà di argomenti e un anticonformismo tematico addirittura superiori a quelli solitamente usati nei commenti sui modelli elettorali.
Sartori è tra i pochissimi esperti a non diffondere quotidianamente il verbo del federalismo, il cui tasso di intangibilità negli ultimi lustri ha superato il grado di inattaccabilità di Giuseppe Garibaldi (1805-1882), non a caso dipinto negli scritti leghisti come l’eroe dei cialtroni e dei furfanti. Al comandante delle camicie rosse che contribuirono all’unità nazionale, il capo delle camicie verdi che sognano la disgregazione dello Stato unitario, evidentemente non gliel’ha mai perdonata. Ma non divaghiamo.
Il federalismo di Bossi si è imposto sul mercato dei prodotti politici con uno spot più allettante di uno strip-tease: più libertà e meno tasse. In effetti l’esperienza degli Stati federali dimostra che le intuizioni di Thomas Jefferson (1743-1826), Carlo Cattaneo (1801-1869) e Gianfranco Miglio (1918-2001) erano tutt’altro che sballate o illusorie. Negli Stati Uniti e in Canada il livello di tassazione è sicuramente più basso che in Italia, mentre il livello di libertà è probabilmente più alto. Allora, perché non provare anche noi a ispirarci al vangelo del federalismo?
E’ la storia di Stati Uniti e Canada a fornire la risposta acconcia. Colà il federalismo ha funzionato e funziona perché ha sposato la filosofia, vorremmo dire l’antropologia, del territorio. Una filosofia fondata sulla competizione più che sulla protezione, sulla concorrenza più che sull’assistenza. Basti leggere i precetti dell’economista americano Dwight Lee, il teorico del federalismo competitivo. Ovvio che se l’obiettivo primario di una regione diventa quello di ridurre la pressione fiscale per attirare nuovi investitori nazionali e internazionali, il federalismo può funzionare, vedi, ad esempio, i buoni risultati ottenuti dal sistema costituzionale svizzero. Ma se il federalismo deve giustamente rinunciare, com’è il caso italiano, al rodeo tra ricchi e poveri (perché in tal caso si rischierebbe la disintegrazione dello Stato, visto il dislivello produttivo e di raccolta fiscale tra le due Italie), tanto vale rinunciare all’impresa. Anche perché tutte le riforme in senso federale varate finora hanno generato una sorta di sublimazione dell’eterogenesi dei fini: meno libertà e più tasse, anziché più libertà e meno tasse. Alla spesa allegra dello Stato si è aggiunta la spensieratezza finanziaria di Regioni, Province e Comuni. Né ha agito da deterrente nei Palazzi cittadini la prospettiva, da parte degli elettori, del «vedo, voto e pago» o del «pago, vedo e voto» o del «voto, vedo e pago», vale a dire il timore, presso le amministrazioni, di perdere le votazioni in caso di gestione dissipatoria delle risorse locali. Anzi, la spesa pubblica è cresciuta proprio con l’inconfessato desiderio di ipotecare la conferma al potere soddisfacendo nuove clientele, nuovi gruppi di pressioni, nuovi potentati elettorali.
Basterebbero queste riflessioni per seppellire definitivamente ogni velleità federalistica. Chi paga? Chi pagherà? Chi lo dirà ai nostri figli che i conti sono saltati quando è decollata la teoria dell’autogestione finanziaria? Sulla carta, il Belpaese doveva stare meglio. Ma non è la prima volta, per parafrasare una massima di Guido Carli (1914-1993), già ministro del Tesoro e governatore di Bankitalia, che un cavallo assetato decida di non bere, in pieno solleone, sul ciglio di un fiume. In Argentina è già accaduto, come non si stanca mai di ripetere l’economista Vito Tanzi, già direttore del Fondo Monetario: la bancarotta di Buenos Aires fu determinata dalle spese pazze dei cacicchi locali.
Ma c’è un’altra domanda - oltre alle considerazioni sulle lungaggini burocratiche, sulle spirali di sprechi, sui contenziosi giudiziari - che rende altamente pericolosa la scommessa federalistica: chi decide? Chi decide dove realizzare la Tav, un rigassificatore, una centrale? Certo, le popolazioni vanno ascoltate, ma alla fine qualcuno dovrà pure decidere, se non si vuole rassegnarsi alla paralisi amministrativa e all’inazione pubblica e privata. Può un Comune bloccare un tratto stradale che interessa a milioni di automobilisti? Per velocizzare le decisioni e ridurre i costi del sistema e della Casta, c’è bisogno di meno statalismo, non di più federalismo. A furia di riforme federalistiche, infatti, il Belpaese rischia di dover fronteggiare le pretese e gli sprechi di 20 Stati, non già di uno Stato solo.
Un plauso, dunque, al professor Sartori. Bene, bravo, bis.