È proprio vero: da quando il presidente Berlusconi ha lanciato il progetto del nuovo Partito del popolo delle libertà, nulla è più come prima. Tranne il modo di affrontare l’avversario da parte della sinistra italiana.
Un esempio per tutti: il raffronto tra la genesi del Partito Democratico e quella del raggruppamento politico destinato a raccogliere il testimone di Forza Italia. Per quasi tutti i politici e gli osservatori dell’attuale maggioranza, il Partito Democratico nasce su una spinta dal basso, del popolo vero, reale, quello delle primarie. Il Partito delle libertà, invece no.
Questa è un’operazione di vertice, anzi di super vertice perché fatta, voluta, decisa e nutrita dal solo presidente Berlusconi. E gli 8 milioni di firme (otto!) raccolte ai gazebo nell’ultimo fine settimana? Fittizi, artificiali nel numero e nella qualità. Insomma: i tre milioni (chissà?) di italiani che hanno votato alle primarie veltroniane sono esseri umani veri, pensanti, partecipanti, mentre gli otto dei gazebo sono finti: dei manichini, delle marionette.
Per farla breve: il solito modo di intendere amici e avversari.
I primi, portatori di valori, di partecipazione, di idee; i secondi, massa di manovra mossa da un computer centrale che tutto vede e tutto decide per tutti. Cambiare questa mentalità frutto di un vecchio modo staliniano di vivere la politica, questa sì sarebbe la vera riforma del Paese.
Quanto alla riforma elettorale, politici di varia estrazione e costituzionalisti in servizio permanente effettivo per il centro sinistra, stanno già spiegando che non vi è nessuna norma o consuetudine che obblighi a votare dopo che si è cambiato il meccanismo di voto. Il che può essere tecnicamente vero.
Il problema, però, è politico. Infatti, come si può sostenere che una maggioranza che è stata minoranza di voti nel Paese, e che ha ottenuto qualche seggio in più solo grazie alla legge elettorale, possa continuare a governare se quella legge non c’è più?
Avrebbe, dal punto di vista politico, una doppia delegittimazione: quella già uscita dalle urne, e quella confermata da un nuovo sistema di voto. Il che renderebbe moralmente e politicamente insopportabile qualunque ulteriore rinvio di nuove elezioni.
Nessuno vuole uccidere il bipolarismo, tantomeno Berlusconi che lo ha inventato e consolidato in questi 14 anni. Il proporzionale non è affatto l’antitesi del modello bipolare. La proposta del leader di Forza Italia è ben diversa e vuole semplicemente correggere i guasti di un sistema che, in teoria, è il migliore dei sistemi possibili, ma che nella sua attuazione pratica si è rivelato una trappola di ingovernabilità.
Basta dare un’occhiata a quello che è successo in questi anni e rendersi conto che la nuova fase lanciata da Berlusconi ha tantissime ragioni dalla sua parte. Il bipolarismo, affiancato dal sistema maggioritario, prometteva innanzitutto stabilità di governo, chiarezza di programmi davanti agli elettori e coalizioni politicamente omogenee. In più, sempre in teoria, assicurava un diritto assoluto agli elettori: in caso di caduta del governo liberamente scelto, l’unica strada possibile era il ritorno alle urne.
Nel 1994, all’esordio della nuova legge elettorale dopo 50 anni di proporzionale puro, il centrodestra vinse le elezioni, preparandosi a governare per 5 anni. Dopo pochi mesi, l’ormai famoso ribaltone costrinse Berlusconi alle dimissioni; fu fatto un governo ‘tecnico’ guidato da Lamberto Dini che portò alle elezioni nella primavera del 1996. Legislatura finita dopo appena due anni.
Nel ‘96 l’Ulivo con Prodi vinse le elezioni. Anche stavolta la sinistra si preparò a governare per 5 anni; invece ecco la sfilza di governi che si sono succeduti: Prodi, D’Alema, D’Alema bis, Amato. Dal 2001 al 2006 ha governato Berlusconi, ma i problemi non sono mancati. Le irrequietezze degli alleati hanno di fatto frenato l’azione dell’esecutivo, costringendo il premier a diversi rimpasti ed anche ad un nuovo governo (il Berlusconi bis). Se la legislatura e l’esecutivo sono durati 5 anni, il merito non è stato certo del sistema bipolare maggioritario, ma della capacità di Berlusconi di tenere assieme una coalizione inquieta e a volte anche rissosa.
Dall’aprile del 2006 ad oggi i problemi non si sono certo risolti. Anzi i 18 mesi di Prodi sono stati un continuo calvario tra liti, minacce, crisi, cadute parlamentari e soprattutto con l’accantonamento del programma presentato e messo da parte per evitare ulteriori lacerazioni. L’elenco dei ‘frutti’ del bipolarismo ingessato tanto caro a Romano Prodi è lungo: dissensi sulla politica estera, sulle grandi opere, sulle pensioni, sul welfare, sulla legge elettorale, praticamente su tutto. Questo bipolarismo ‘coatto’ che tiene insieme partiti e movimenti tanto diversi quanto inconciliabili ha prodotto l’ingovernabilità.
È questo sistema che Berlusconi vuol riformare, sciogliendo alleanza forzate e ridando fiato alla vocazione aggregatrice che sale dagli elettori. Un sondaggio effettuato da Sky Tg24 chiede ai telespettatori di esprimersi su questo quesito: “Il nuovo partito di Berlusconi deve andare al voto da solo o con gli alleati tradizionali?” Per il 75% delle risposte deve andare da solo. Segnale che la gente chiede fortemente un radicale cambio di passo.
Eventuali intese con il Partito Democratico sono evidentemente da considerare frutto della contingenza. E fa davvero sorridere chi oggi si scandalizza per questa apertura a Veltroni anche su possibili nuovi scenari. Perché già all’indomani del voto Berlusconi, prevedendo l’impossibilità di governare con i numeri risicati, disse che l’Italia necessitava di una grande coalizione.
Il discorso di San Babila ha rotto una situazione cristallizzata e dannosa per l’Italia. E chi adesso, offeso e arrabbiato, continua ad ergere barricate, è destinato alla sconfitta. E anche all’emarginazione.
La forza della svolta di Berlusconi, l’elemento che ha messo in moto le cose, è nella sua verità. Tutti vedevano bene che il bipolarismo era un re nudo. Il Premier eletto, chiunque fosse, era (è) l’ostaggio della propria coalizione. Portatore di un programma che non gli è dato di attuare e, soprattutto, di un carico di speranza destinato a mutarsi in delusione. La prima illusione era quella degli elettori, che credevano di eleggere un leader capace di prendere decisioni effettuali, forte del sostegno della sua maggioranza parlamentare. Ma questa era solo la poesia del bipolarismo, la sua versione in prosa era molto diversa.
Nel bipolarismo reale all’italiana, l’elezione di una maggioranza è un’impossibilità pratica, non potendosi chiamare maggioranza un’aggregazione parlamentare di soggetti politici ognuno dei quali armato di un micidiale potere di ricatto su qualsiasi atto del governo. Un po’ come non potevano dirsi eserciti le armate feudali messe in campo dai re di Francia, composte da tanti eserciti privati di signori autorizzati a entrare nella pugna o a uscirne, secondo convenienza.
Il bipolarismo o è l’anticamera del bipartitismo o è solo un imbroglio. Questo non significa che per tre lustri gli elettori siano stati imbrogliati volutamente, con dolo. Semplicemente, si è creduto, da entrambe le parti, che l’atto di fede nella poesia del bipolarismo servisse a migliorarne gradualmente la sua versione in prosa. Invano. Secondo un detto della politica inglese, i sistemi elettorali si giudicano alla prova cucchiaio. Cioè assaggiandoli, come per i budini. Ripetuti assaggi del bipolarismo all’italiana hanno dato esiti francamente scoraggianti, se non addirittura repellenti come nel caso attuale di un polo di centrosinistra inquinato dalla presenza condizionante e stravagante dei partiti della sinistra comunista.
Va riconosciuto a Walter Veltroni il merito di aver mostrato almeno l’intenzione di trarne le conseguenze, quando ha proclamato la “vocazione maggioritaria” del nuovo Partito democratico, ed enunciato il proposito di abbracciare una legge elettorale che consenta di fare a meno di legarsi a compagnie sbagliate. L’evoluzione di Forza Italia nel nuovo Partito del popolo della libertà segna l’irruzione sulla scena di un altro soggetto politico a “vocazione maggioritaria”. E anche assai promettente, a giudicare dai primi sondaggi, che gli assegnano un 37% delle intenzioni di voto.
Finalmente si delinea un sistema politico provvisto di buone gambe per camminare. Corredato di un sistema elettorale proporzionale liberatorio, rispetto sia alla necessità di formare coalizioni per vincere, anziché per il buongoverno, sia alla proliferazione incontrollata dei micropartiti. Un sistema adatto alla competizione tra proposte diverse di governo, ma anche all’incontro nel segno della buona volontà, quando indispensabile per il bene del Paese.
Come è stato fin qui in Germania, nonostante le incognite per ricadute politiche dell’unificazione. Dove vige un sistema politico sostanzialmente bipolare, perché articolato sui due grandi partiti, ma anche abbastanza flessibile da adattarsi a circostanze eccezionali. Tener conto delle caratteristiche del sistema politico tedesco, ai fini della rivisitazione in corso di quello italiano, significa uscire dall’incubo del bipolarismo per realizzarne il sogno.