di Giuseppe Pennisi
I primi sondaggi di opinione indicano che il nuovo soggetto politico delineato da Silvio Berlusconi avrebbe, se si votasse oggi, più consensi del PD guidato da Walter Veltroni. Suggeriscono inoltre che sono soprattutto i giovani ad essere attratti dalla nuova formazione. Cerchiamo di approfondire il fenomeno ed esaminarne le determinanti. Una diecina di anni fa un pamphlet parlava di “guerra dei trentenni” perché il welfare (principalmente la normativa sulle pensioni e sul mercato del lavoro) militava apertamente contro di loro. La “guerra” non c’è stata anche poiché il nostro non è un Paese di rivoluzioni ma di jacqueries: buttare dalla finestra il Ministro delle finanze del Lombardo-Veneto austro-ungarico, cercare di distruggere l’automobile del Capo del Dipartimento della Protezione Civile, intento a tentare di mettere ordine nel caos dei rifiuti in Campania. L’aumento della violenza giovanile connessa con il tifo sportivo ha le proprie radici, in parte, nelle jacqueries di elementi di una generazione che si sente, a torto o a ragione, discriminata.
Alcune settimane fa numerosi quotidiani e periodici si sono soffermati su dichiarazioni del Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi sulle crescenti differenze di reddito (e di consumo) a svantaggio delle fasce di età più giovani: nessuno, però, ha esaminato l’analisi originale ed integrale su cui si basavano le affermazioni di Draghi e, soprattutto, la ha poste nel contesto di una più vasta ricerca internazionale, di cui il lavoro del servizio studi Bankitalia è parte integrante (pur se si tratta di una serie di studi distinti e non coordinati da un organo collegiale o simili). In primo luogo, l’analisi Bankitalia riguarda i lavoratori di genere maschile (non è chiaro perché non tratti anche delle donne) su un arco di tempo trentennale (dall’inizio degli Anni 70 all’inizio del 21simo secolo) ed integra due fonti di dati: le statistiche Istat e le rilevazioni dell’Istituto di Via Nazionale sui redditi e la ricchezza delle famiglie. Il suo punto centrale non è (come messo in rilievo da molta stampa) l’aumento del “wage gap” (differenza salariale) tra giovani ed anziani (dal 20% all’inizio degli Anni 80 al 35% al volgersi nel nuovo secolo) ma l’individuazione del momento di svolta: il peggioramento avviene all’inizio degli Anni 90 quando le leggi sul lavoro degli Anni 70 cominciano a mordere le nuove generazioni (bambini o neonati quando venne varato lo “Statuto dei Lavoratori”). L’analisi corrobora quella che era soltanto un’intuizione nel pamphlet sulla guerra dei trentenni di dieci anni fa.
C’è, però, molto di più. Una determinante importante – di cui pare non accorgersi il servizio studi di Bankitalia – è esaminata in un lavoro della London School of Economics, della Facoltà di Economia dell’Università di Oslo, dal Center for Econonic Performance, dall’Institute for Fiscal Studies e dal Centre for Economic Policy Research. Tutti istituti distinti e distanti dalle nostre beghe ed intellettualmente vicini al riformismo europeo a sinistra del centro. Il lavoro è di micro-analisi (ossia si basa su indagini di campo), non riguarda soltanto i maschi ma pure le donne ed è relativo agli Usa ed al Regno Unito – non all’Italia. Usa e Regno Unito sono due Paesi in cui la normativa sul lavoro non ha preso la piega che ha avuto da noi negli Anni 70 (ed 80), ma dove c’è un analogo fenomeno di crescente differenziazione dei salari (a svantaggio dei giovani): le conclusioni puntano il dito sulle dimensioni di imprese (le PMI tendono a pagare i giovani peggio) e sull’introduzione delle nuove tecnologie (che non si modernizza paga poco i nuovi entranti nel proprio organico). Quindi, non sono soltanto le rigidità del mercato del lavoro (ed il lungo processo per rimuoverle) all’origine del “gap” ma anche una struttura produttiva fatta di PMI e (soprattutto nel Sud) con un marcato ritardo tecnologico.
Una soluzione è indicata in un lavoro di tre giovani economisti italiani ma pubblicato dall’Istituto Tedesco di Studi sul Lavoro (Iza). E’ un’analisi econometrica del “gap” in 12 Paesi europei. Il miglioramento della qualità e quantità di istruzione – concludono - è una leva efficiente per ridurre il differenziare tra giovani e vecchi. Un’altra soluzione è delineata in un’analisi comparata effettuata da Università tedesche e pubblicata in questi giorni dal National Bureau of Economic Research (Nber) Usa: l’evoluzione demografica (ossia l’invecchiamento della popolazione) produrrà una graduale riduzione dei rendimenti medi nei Paesi delle “pantere grigie” (90 punti di base, ossia circa un punto percentuale, tra il 2005 ed il 2050) ed un flusso di capitali verso i Paesi “giovani”, ma ad esso seguirà un riflusso man mano che le famiglie ridurranno i loro risparmi, con la conseguenza che per i giovani di oggi c’è speranza di un futuro migliore in quanto l’invecchiamento dei loro padri e zii (ed il riflusso di capitali) dovrebbe portare loro buste-paga più pesanti.
Veniamo adesso al contesto italiano di politica economica. In primo luogo (come sottolineato su L’Occidentale del 21 novembre) il ddl sul welfare rappresenta un passo indietro (specialmente in materia di previdenza) che, in particolare nella versione che ha raggiunto l’aula, penalizza i giovani. La finanziaria non contiene virtualmente nulla per incoraggiare la crescita delle dimensioni d’impresa e l’ammodernamento tecnologico. Il coraggioso “Quaderno bianco sulla scuola” dei Ministeri dell’Economia e delle Finanze e del Ministero dell’Istruzione è stato presentato con tanto spolvero da Romano Prodi in persona a fine settembre, ma successivamente lasciato a raccogliere polvere nello scaffale dedicato ai “libri dei sogni”. La disillusione delle giovani generazioni non può che aumentare: quelli che non cadono nelle jacqueries, non fanno la guerra ma scendono in campo politicamente. Sanno anche che, se non cambia rotta, l’Italia ha meno speranza degli altri in termini di riflusso di capitali : lo ricordano periodicamente i rapporti Ice-Prometeia e Unctad sugli investimenti dal’estero.