di Giuseppe De Tomaso - vicedirettore de La GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO
La lunga discussione sul bipolarismo italiano, rilanciata dalla rottura tra Berlusconi e Fini, avrebbe fatto la sua bella figura nella Bisanzio delle dispute teologiche e filosofiche. Più l’opinione pubblica fatica a sintonizzarsi sul linguaggio esoterico e sul tatticismo esasperato della classe politica, più le battaglie nominalistiche monopolizzano le giornate del mega-circo politico e mediatico. Bipolarismo spinto, bipolarismo mite, bipolarismo coatto, bipolarismo perfetto, bipolarismo imperfetto... Bisogna riconoscere che il restyling terminologico del Palazzo procede alla velocità del prezzo del petrolio.
Se fino a pochi mesi addietro, il bipolarismo (vale a dire il confronto tra due coalizioni che gareggiano per la guida del Paese) era un’icona rispettata più della statua di Giuseppe Garibaldi (1807-1882), oggi le fortune del bipolarismo sono più in ribasso dei mercati azionari. Difficile trovare un avvocato difensore. Ancora più difficile incontrare uno scommettitore. Il bipolarismo all’italiana sembra arrivato al capolinea. Ma sarà davvero così? Dubitare è lecito.
Uno. L’Italia delle Regioni, delle Province e dei Comuni poggia su un solido impianto bipolare, a sua volta fondato sull’elezione diretta dei presidenti e dei sindaci. E’ l’investitura popolare del capo dell’esecutivo la vera polizza assicurativa del bipolarismo, non il sistema elettorale. Le coalizioni si formano attorno alle figure dei candidati presidenti o sindaci, più che su un programma condiviso o su un cartello elettorale di convenienza. Controprova: provate a conservare lo stesso criterio di voto, privato, però, della clausola di salvaguardia costituita dall’elezione diretta di governatori, presidenti o sindaci. Le coalizioni iniziali si scioglierebbero come caramelle, travolgendo l’intera costruzione del bipolarismo. Ma siccome nessuno, almeno per ora, si sogna di picconare gli edifici bipolari di Regioni, Province e Comuni, sorge spontaneo pensare che il bipolarismo sul territorio contribuirà a tenere in vita anche il bipolarismo di Camera e Senato.
Sarebbe perlomeno singolare, durante le campagne elettorali per Regioni, Province e Comuni, che due partiti alleati in periferia si combattessero come greci e troiani nella capitale. Del resto, se finora, il bipolarismo nazionale è riuscito a resistere alla congenita vocazione italica all’anarchia e all’adulterio (non solo sotto le lenzuola), la spiegazione non va ricercata tanto nel sistema elettorale più o meno bipolare, quanto sull’effetto imitativo e deterrente prodotto dal bipolarismo irrobustitosi nei sistemi a elezione diretta di Regioni, Province e Comuni.
Due. Se, viceversa, il bipolarismo ha fatto fiasco nel Parlamento romano, la causa non va ricercata tanto nei nuovi modelli elettorali sorti agli inizi degli anni Novanta quanto nei ridotti poteri di cui dispone il premier, privo della possibilità di scegliere i ministri, di cambiarli in caso di contrasti, e di minacciare lo scioglimento delle Camere in caso di stallo. E’ vero che, di fatto, negli ultimi lustri, gli italiani hanno scelto il loro presidente del Consiglio, ma la loro scelta non si è mai fondata su un pilastro costituzionale. Dopo il voto, Berlusconi e Prodi si sono ritrovati con gli stessi (scarsi) poteri di un Mariano Rumor (1915-1990), dc, presidente del Consiglio negli anni Settanta, che una volta si dimise al semplice annuncio di uno sciopero generale. Logico che il bipolarismo centrale, da noi, non dovesse e potesse funzionare. Neppure se al posto del Mattarellum e del Porcellum (le ultime due tipologie di tecnica elettorale) i legislatori avessero adottato il sistema maggioritario secco all’inglese, che rappresenta la quintessenza della democrazia del conflitto e dell’aut aut. Colà, cioè a Londra, il bipartitismo si è forgiato sul sistema costituzionale, che assegna poteri enormi al primo ministro, non già sul meccanismo elettorale. Se, a sorpresa, al premier di Sua Maestà fosse tolta la metà dei suoi poteri, il bipartitismo britannico comincerebbe a vacillare. Certo, i due-tre partiti storici non morirebbero - perché il maggioritario li sostiene -, ma dopo le elezioni laburisti e conservatori si dilanierebbero in mille correnti (micro-partiti) che renderebbero le giornate del premier più malinconiche di una serie di sedute dal dentista. Morale: il bipolarismo dipende dal sistema costituzionale (come dimostrano gli esempi in Europa e di Regioni, Province e Comuni), non dai sistemi elettorali, che possono essere proporzionalistici e maggioritari, ma producono un bipolarismo automatico solo se il timoniere dell’esecutivo è provvisto di poteri consistenti. Il resto è fuffa.
Tre . Se la figura del presidente del Consiglio rimarrà quella di un primus inter pares in Consiglio dei ministri, nessun intervento elettorale potrà modificare il doppio status del bipolarismo: forte in periferia, debole al centro. Lo scenario non cambierebbe neppure se dovesse passare il referendum elettorale di Segni e Guzzetta, la cui iniziativa punta a un traguardo ancora più ambizioso: il bipartitismo.
Finale. Non sarà la proporzionale invocata un po’ da tutti a uccidere il bipolarismo, come testimonia l’esperienza della Prima Repubblica, proporzionale sì, ma anche bipolare (sia pure in modo imperfetto). Il bipolarismo italiano è da sempre in sala di rianimazione, perché la Costituzione non ne agevola la guarigione. Rimarrà in queste condizioni, in una precaria salute di ferro, vita natural durante. Le alleanze locali gli daranno ossigeno. I regolamenti parlamentari (protesi a partorire micro-partiti come conigli) e la tentazione permanente di indebolire il capo di governo gli toglieranno la bombola per respirare.