di Mario Cervi -
Nelle prime righe d’un suo commento alla vicenda Rai-Mediaset significativamente titolato «I tartufi del giornalismo», Francesco Merlo ha scritto su Repubblica di ieri che «questo non è un articolo contro Silvio Berlusconi e la sua parte politica». Voglio a mia volta precisare che questo non è un articolo contro Francesco Merlo, collega che stimo molto, e nemmeno contro chi la pensa come lui. Bisogna del resto riconoscere a Merlo, che pure insiste sulla intollerabilità di determinati comportamenti addebitati al clan del Cavaliere, d’averci risparmiato certe esagerazioni del suo direttore Ezio Mauro. Merlo mantiene il problema delle liaisons dangereuses tra uomini (e donne) di Saxa Rubra e uomini (e donne) di Mediaset nell’ambito delle azioni e delle trasgressioni professionali: senza chiamare in causa la Spectre dei film di 007 o l’orwelliano Grande Fratello. Su questo si può polemizzare concretamente. Quando invece alle telefonate - discutibili quanto si vuole - tra colleghi di diversa appartenenza aziendale viene attribuito il significato d’una congiura, d’un attentato alla democrazia, d’una minaccia all’informazione, d’una deriva autoritaria non c’è più spazio per la razionalità. Ce n’è soltanto per i toni alla Ahmadinejad.
Non mi occupo, perché già se n’è trattato esaurientemente, delle accuse e del loro fondamento. E lascio da parte la questione - quella sì attinente a metodi orwelliani - delle circostanze in cui conversazioni private e personali sono diventate, in spregio alla legge, di dominio pubblico. Sono in totale disaccordo con Merlo quando sostiene che «in Italia non c’è nulla di più valoroso e di più pulito della spazzatura visto che si arriva alla verità solo rovistando tra le scorie gergali e i rimasugli verbali». (Così tutto può essere giustificato, ed è allora inutile fare la faccia feroce verso chi se l’intende con i mafiosi, visto che i mafiosi sono la miglior fonte d’informazioni sulla mafia).
Tuttavia, l’ho accennato, mi preme di parlar d’altro: ossia dell’accenno di Merlo ai «tartufi del giornalismo». Ci sono, lo so benissimo. Ci sono sempre stati. Lo posso affermare per esperienza diretta risalente ai «formidabili» anni in cui Indro Montanelli, star del Corriere , capì che quella non era più la sua casa: avendo maturato un disagio sempre più profondo per le concessioni a un populismo di maniera, a un’arrogante socialità salottiera, alle ipocrisie del politicamente corretto. Non voglio tirare in ballo nessuna Spectre. Ma la situazione che Michele Brambilla ha fissato nelle pagine de L’eskimo in redazione era proprio quella d’un conformismo plumbeo: che non aveva nemmeno un briciolo delle audacie e dei rischi che contrassegnano le rivoluzioni. Era un conformismo di sinistra burocratica che furoreggiava sia con gli striscioni delle piazze sia con le pensose elucubrazioni dei circoli letterari.
Il giornalismo si avviava verso una omologazione ferrea, tutti i maggiori quotidiani scrivevano le stesse cose con titoli suppergiù uguali e i comitati di redazione - appartenenti in toto allo schieramento di sinistra - pretendevano di imporre un’unica linea all’intera stampa italiana. Per questo Montanelli - che fu osannato come esponente d’un liberalismo colto, risorgimentale aristocratico dopo che ebbe litigato con Berlusconi, ma che prima era bollato come fascista - volle dare una voce ai senza voce, all’esecrata maggioranza silenziosa. Lo fece fondando questo giornale. Nato proprio in opposizione a una oppressiva e offensiva normalizzazione giornalistica, esaltata come massima prova di democrazia da tanti, troppi tartufi. Merlo non è un tartufo: e penso che lui non voglia qualificarmi come tale. Ma ce ne troviamo intorno una gran quantità, tartufi rossi, tartufi bianchi, tartufi neri. E proprio da molti di quei tartufi si alzano gridi d’indignazione e di dolore. Ma per favore.
Mario Cervi