Da Il Tempo di oggi, a firma Gianni Pasquarelli
Che il centrodestra debba ricucire strappi che vi sono stati e vi sono, è fuori dubbio. Occorre semmai chiedersi se ve ne siano le condizioni. A parere mio, sì. Ammettiamo che la repentina decisione di Berlusconi di fondare un nuovo partito all’insegna del "popolo delle libertà" sia stata la goccia che fa traboccare il vaso, e che quella mossa possa avere alimentato gelosie elettorali e altro simile. Non risulta però che il Cavaliere abbia inteso dire che i suoi tradizionali alleati - Lega, Udc e An - avrebbero dovuto sforbiciare le rispettive radici localistiche o democristiane o nazionaliste sull’altare del nuovo partito, il quale, peraltro, è tutto da edificare nei contenuti programmatici, nelle regole di vita democratica, nei rapporti col Pd in quanto polo alternativo al centrodestra. Se davvero l’ex premier avesse chiesto ai suoi alleati di fare harakiri, avrebbe dato prova di tale ingenuità che non gli è congeniale, non fosse altro perché in Italia i governi si fanno con le maggioranze parlamentari.
Per dire che la strategia delle alleanze, da noi, dovrebbe possederla anche un partito che sfiorasse o superasse il 50 per cento del voto popolare, come dimostrò di avere nell’aprile del ‘48 la Dc di De Gasperi. Ancor più oggi si deve averla, oggi che un partito il quale registrasse il 30 o il 35 per cento dei consensi si doterebbe di un patrimonio invidiabile, noto essendo quanto sia frammentato lo scenario dei partitini italiani. Se così è, viene spontaneo domandarsi quale sia il tasso di omogeneità programmatica nel centrodestra, la natura del collante che può tenerlo unito come alleanza.
In politica estera l’armonia c’è: europeismo, atlantismo, Nato, alleanza strategica con gli Usa che non esclude il confronto dialettico fra amici; in politica fiscale, viene in mente Luigi Einaudi: «Quando s’inaspriscono troppo le tasse i contribuenti tartassati potrebbero far di tutto per non pagarne, e le aziende penalizzate potrebbero produrre meno reddito tassabile»; sulla sicurezza del cittadino, le idee collimano; sull’immigrazione pure: la quale va pilotata in modo che serva al paese ospitante e all’immigrato che abbia mestiere e voglia di lavorare; sul sistema elettorale, invece, le idee divergono. Forse occorre rovesciare il discorso: se si concorda che sia l’elettore a scegliere l’eletto, a indicare il tipo di governo e chi debba guidarlo, e a ridurre la proliferazione di partitini personali e familiari, allora non dovrebbe richiedere troppa fatica trovare un’intesa, al di là dall’eterno e fiaccante dibattito su maggioritario, proporzionale o una loro dosata miscela.
Altrettanta armonia non pare esista nell’Unione come somma di riformismo e antagonismo: permissiva e proibizionista sulla droga, amica dei poveri e dei «salotti buoni», dei gay e della Chiesa, amante dei diritti umani e di Castro, a favore e contro la Nato, bipolaristi e proporzionalisti in materia elettorale. Un guazzabuglio.