LA FRAGILITA’ DEL GOVERNO DI CENTRO SINISTRA IN AMBITO DI POLITICA ESTERA, FATTORE DELLA DISCONTINUITA’
Tralasciandole sfaccettature di politica interna, vi è qualcosa di paradossale nella caduta del governo Prodi seguita al voto negativo in Senato. A cagionare la crisi è stato il concetto di “continuità” in politica estera, che da entrambi della maggioranza è stato letto in modo diverso. Soventemente si è asserito che le tematiche fondamentali di politica internazionale, quali Europa, Nato e Nazioni Unite, valevano per l’intero arco costituzionale. Il principio affonda le sue radici nel compromesso storico e nel progressivo avvicinamento del vecchio partito comunista all’area di governo. Da Berlinguer in poi, il tema di una politica estera bipartisan è stato in effetti il leitmotiv di tutti i programmi politici nazionali. Passavano, anche rapidamente, i Governi, ma le scelte e gli orientamenti di politica estera non si spostavano dalle linee di fondo tracciate nella storia del nostro Paese.
Si sono avuti momenti di tensione su particolari temi, come l’entrata nel Sistema monetario europeo (Sme) a fine anni ’70, o la decisione di schierare gli euro-missili all’inizio degli anni ‘80, entrambi rifiutati dai comunisti, anche se in modo blando rispetto alle durezze e all’opposizione dei decenni precedenti. Su questa continuità e solidità delle scelte di politica estera si è fatta strada, anche nella percezione degli alleati europei e statunitensi, la sensazione di un paese privo di sussulti, almeno in questo settore.
Per la prima volta nella storia della repubblica italiana, un Governo perde la propria maggioranza proprio sulla questione della continuità in politica estera. Il ministro degli Esteri ha molto insistito su questo “principio guida”, durante il suo intervento in Senato, ma con una sottigliezza tipicamente dalemiana. Invece che limitarsi a chiamare a raccolta l’intero arco di forze “costituzionali”, evidenziando gli aspetti di continuità della sua politica estera con quella precedentemente seguita dai governi italiani, ha inteso l’interesse di aggiungere il tema della “discontinuità” con il governo Berlusconi, con riguardo in particolare alla sua adesione alla politica neoconservatrice e unilateralista dell’amministrazione Bush.
In realtà, non va dimenticato che una certa dose di “discontinuità” il governo Berlusconi l’aveva praticata essenzialmente nei riguardi dell’Unione Europea. E’ bene rammentare, infatti, lo sconcerto dei nostri partner europei di fronte ad comportamenti particolarmente assertivi dei suoi ministri e dello stesso premier su varie questioni, dal lungo braccio di ferro sull’agenzia alimentare a Parma all’iniziale rifiuto di aderire alla proposta di mandato di cattura europeo.
Meno evidente è stata la “discontinuità” nella contestatissima decisione di inviare le nostre truppe in Iraq sotto la copertura di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, la 1511 del 16 ottobre 2003, che di fatto dava una garanzia di multilateralismo alla decisione del governo italiano di fare parte di una forza multinazionale. Ma, ovviamente, è stata bipartisan e chiaramente multilaterale la decisione di mandare le nostre truppe in Afghanistan, non solo sotto l’egida delle Nazioni Unite, ma anche nel contesto “istituzionale” rappresentato dalla Nato, cui l’Italia aderisce senza dubbio alcuno (tanto che lo stesso D’Alema, da presidente del Consiglio nel 1999, l’aveva utilizzata come copertura politico-istituzionale nell’operazione militare in Serbia).
E di questo, di Afghanistan, si stava discutendo in Senato. Ragioni di politica interna alla coalizione del centro sinistra hanno spinto il Governo a sottolineare una discontinuità che, sulle materie oggetto dell’odierna controversia, e cioé l'Afghanistan stesso e la base di Vicenza, erano invece molto più di forma che di sostanza.
Purtroppo, questo non ha convinto i massimalisti “taliban-chic” e ha alienato i continuisti. Il paradosso è che non si è così apprezzata, come dicevamo, la vera e significativa discontinuità tra il governo Berlusconi e quello Prodi in politica estera, e cioè la politica europea: discontinuità che invece raccoglie ampi consensi bipartisan.
Si poteva fare diversamente? L'insistenza dei due schieramenti politici contrapposti sulla necessità che il governo avesse una maggioranza "autonoma" in politica estera rendeva probabilmente questo grottesco gioco delle parti una scelta obbligata, che tuttavia ha finito per riflettersi negativamente sull'immagine politica del paese. L'esempio di altre democrazie "bipolari" è da questo punto di vista diverso: un voto bi-partisan non è considerato un momento di debolezza del Governo o dell'opposizione, ma l'espressione di un più solido consenso nazionale, di un patrimonio comune. Ma il nostro bipolarismo è caratterizzato da una netta assenza del principio di solidarietà condivisa sui grandi temi di interesse nazionale: elemento questo che fa dubitare della solidità e della lungimiranza di ambedue gli schieramenti sul ruolo e sulle responsabilità dell’Italia nel mondo. Giuseppe Paccione