BRUNO VESPA
Volo Milano-Roma, ore 10 di martedì 27 novembre: la prima fila dell’aereo era occupata da tre deputati di An, Ignazio La Russa, Alessio Butti e un terzo parlamentare. Un giornalista li salutò: «Che bella fila…». La Russa ribatté pronto: «Ricominciamo da tre». Chiosò il cronista: «Se non state attenti…». Risata ge- nerale. Qualcuno dei presenti tornò con la memoria indietro di quasi 15 anni: 18 aprile 1993, riunione del comitato centrale del Msi. Si discusse su come esercitare un ruolo politico con cinque deputati: tanti se ne aspettava il partito di Gianfranco Fini se fosse passata (come passò) la riforma elettorale maggioritaria frutto dei referendum di Mario Segni. Le cose andarono diversamente e un anno dopo il Msi era al governo.
Da allora Fini e Silvio Berlusconi hanno litigato spesso: sul governo Maccanico che il presidente di An (d’accordo con Pier Ferdinando Casini) bloccò all’inizio del 1996, sull’alleanza contro natura di Fini e Segni alle elezioni europee del 1999, sul referendum per l’abolizione della quota proporzionale, sul licenziamento di Giulio Tremonti nell’estate del 2004, sulla «discontinuità» e la crisi del governo Berlusconi dei mesi successivi, sulla separazione delle carriere tra giudici e pm, sulla revisione delle aliquote fiscali, sulla gestione della spesa pubblica, sulle cene del lunedì ad Arcore tra il Cavaliere e Umberto Bossi e su mille altre questioni.
Ma alla fine si trovò sempre un accordo, anche con Casini e Bossi. Perché, in fondo, le divergenze sulla linea politica all’interno della Casa delle libertà sono state sempre infinitamente minori di quelle che ogni giorno si manifestano nell’Unione. Certo, il carattere delle persone talvolta non aiuta. Berlusconi, che pure sarebbe un mediatore nato, non sa tenere a freno la lingua e così regolarmente negli anni a Fini e a Casini arrivavano le accuse di ingratitudine e perfino di tradimento che il Cavaliere spandeva a destra e a manca. E loro replicavano dicendo che Silvio aveva una concezione proprietaria della politica e stava al governo solo per pensare agli affari suoi.
Queste divergenze, che pure impallidiscono dinanzi a quelle che Romano Prodi deve gestire ogni giorno, hanno fatto tuttavia breccia da lungo tempo nell’animo del Cavaliere. Quando a metà ottobre sono andato a trovarlo per il mio ultimo libro, gli ho detto che l’opinione pubblica, nel caso di una vittoria elettorale del centrodestra, non avrebbe accettato il ripetersi del gioco delle parti che aveva sfibrato l’ultimo governo Berlusconi. Lo trovai perfettamente consapevole della situazione e per nulla orientato a presiedere un governo secondo i vecchi riti. Il Cavaliere mi parlò in termini ancora non chiari del «popolo della libertà» e si vide nelle settimane successive che cosa aveva in testa.
Al di là delle insofferenze e talvolta perfino degli insulti che i soci dell’ex Cdl si scambiano quasi ogni giorno, i segnali sotterranei di ricomposizione non mancano. Per dirne una, e nemmeno delle più importanti: tra qualche mese si vota per la Provincia di Roma. Udc e An amerebbero entrambe candidarsi alla presidenza: possono farlo senza Forza Italia?
Eppure, l’intemerata del Cavaliere e la nascita del Partito della libertà sono servite a mettere un punto fermo utile all’intera compagnia del centrodestra: non si può continuare come prima. Non si può trasformare ogni vertice in un giallo e considerare ogni pranzo in via del Plebiscito come una convocazione alla mensa del padrone.
Ci sarà probabilmente una federazione del centrodestra, potrà esserci perfino una doppia tessera che consenta a tutti di restare in casa loro e di abitare, se vorranno, anche nella casa nuova. Ma speriamo sia finito per sempre l’incubo di riunioni dalle quali tutti escono dicendo una cosa diversa.