Su 1 euro e 36 centesimi di quello che paghiamo la benzina al litro oggi, quasi 80 centesimi se ne vanno in tasse
Prendete un barile di greggio, ad esempio il cosiddetto Brent del Mare del Nord il cui costo è determinato dagli scambi alla borsa di Londra e costituisce pertanto il riferimento europeo. 159 litri di oro nero, il cui prezzo negli ultimi mesi è decollato fino a sfiorare la soglia fatidica dei 100 dollari a barile.
Ogni aumento del prezioso combustibile, prontamente amplificato dai media, suscita grandi preoccupazioni e il consumatore già prevede l’effetto a valanga dei rincari su beni di prima necessità: benzina (o gasolio) per l’auto, riscaldamento, luce, trasporti…
Pochi sanno, in realtà, che i rincari della materia prima incidono relativamente sul costo del prodotto finale, ovvero, che gli aumenti dei prezzi al consumatore non sempre sono giustificati, proporzionalmente, da un corrispettivo rialzo del greggio.
E’ interessante quanto riporta su questo argomento Luigi De Paoli, professore ordinario alla Bocconi ed esperto in economia delle fonti di energia, sul giornale di BocconiLab:
«Su un prezzo medio alla pompa fissato in questo momento a 1,35/1,36 euro al litro», spiega il docente della Bocconi, «tutta la filiera produttiva che dà origine a ciò che definiamo come ‘prezzo industriale’, incide per il 40% circa. Un altro 40% è costituito dall’accisa, un tributo indiretto che grava su determinati prodotti come appunto i prodotti petroliferi e i tabacchi, il restante 20% dall’Iva. Se volessimo poi scomporre ulteriormente, potremmo aggiungere che il 40-42% che abbiamo definito come prezzo industriale è in realtà un 30% di costo del greggio più il trasporto, un 6% di raffinazione e il 5-6% di distribuzione più guadagno del benzinaio. Quando si verificano aumenti o diminuzioni del prezzo del greggio, quindi, si devono intendere variazioni che incidono solo sul 30% circa di quello che sarà poi il prezzo finale della benzina».