Con assoluto sprezzo del ridicolo, Romano Prodi ha esibito davanti alla Camera il medagliere delle benemerenze che fantastica di aver acquisito in 20 mesi di governo. Non si dimette, ma rilancia, reclamando dal Parlamento quella fiducia che nessuno al mondo gli concede. Mai l’aula di Montecitorio aveva assistito a un’esibizione di tale perfetta impudenza, degna dello speciale premio Oscar per la più tosta faccia di bronzo.
L’Italia “sfilacciata e ridotta a coriandoli”, certificata dal presidente della Conferenza episcopale oltre che da ogni sorta di rilevazione statistica e osservatorio internazionale, è stata descritta con un paese di Bengodi, dove tutto va nel migliore dei modi. E ancor meglio andrebbe se fosse concesso al governo Prodi di arrivare al termine della legislatura.
La presuntuosa sicumera dell’uomo è quella che è. Ma si stenta a credere che Prodi possa seriamente illudersi che qualcuno guardi alla realtà delle cose con i suoi stessi occhiali rosa. Più che il discorso di un affabulatore, ridotto a imbrodarsi di lodi nella speranza di convertire il Parlamento a un atto di fede nelle virtù salvifiche del governo in crisi di un Paese in crisi, abbiamo ascoltato una proterva manifestazione di attaccamento alla poltrona ben oltre il verosimile e il sopportabile. Una voglia di potere oltre la tomba.
È evidente la ricerca dell’effetto intimidatorio sull’ex maggioranza di centrosinistra. Il premier più disavventurato dell’intera storia repubblicana pretende di inchiodare i suoi antichi sostenitori al rispetto del patto unitario infranto nell’impatto con la realtà. S’immagina di chiudere a mano armata la falla aperta dalla motivata defezione dell’Udeur di Mastella. Consapevole della solitudine a cui il suo fallimento lo condanna nel Paese e nell’Unione stessa, esige nondimeno la fedeltà dei vassalli in nome del male che minaccia di fare loro.
La pistola di Prodi è puntata principalmente su Walter Veltroni. Il leader del Partito democratico è invitato a recedere dall’intenzione di andare in splendido isolamento alle elezioni e rientrare disciplinatamente nella caserma dell’Unione. In caso contrario, dovrebbe vedersela non solo con la rivolta dei partitini ma anche con la decisione dello stesso Prodi di scendere in campo per sbarrargli la strada di un’affermazione elettorale. È il ricatto di un uomo che non accetta di farsi scaricare.
Si vedrà l’effetto dell’ultimatum prodiano nelle votazioni sulla fiducia al governo alla Camera e al Senato. È evidente che Prodi si lancia allo sbaraglio nella speranza di cavarsela ancora una volta. Altrettanto evidente che il suo successo nella difesa dell’indifendibile status quo metterebbe la pietra tombale sulle speranze di ripresa della Nazione. Non c’è ripresa possibile con un governo dalle pile scariche, nato dal bluff del pareggio elettorale camuffato da vittoria di una parte e travolto dal discredito in cui è rapidamente caduto nel Paese a causa della sua inconcludente prosopopea. Nelle cadute, la via della ripresa passa dal cambiamento. E quindi dal recupero di operatività del potere politico che solo l’appello alla sovranità popolare può conferire. Tutto il centrodestra è concorde su questa posizione.
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