Di Mario Cervi
Il voto aveva contenuti drammatici, ma il suo prologo, nell'aula di Palazzo Madama, tendeva decisamente al comico o al grottesco. A Jonesco sarebbe piaciuto, immagino, l'intreccio di nonsenso e di declamata vacuità che ha caratterizzato molti interventi e molti episodi dei quali gli italiani, grazie (si fa per dire) alla televisione, sono stati spettatori. I momenti migliori - o peggiori, giudicate voi - ce li hanno offerti gli uomini dell’Udeur di Clemente Mastella. C’era da aspettarselo. Il piccolo ma vivace partito ha per bocca del suo leader aperto la crisi, ed ha voluto esserne protagonista anche durante il dibattito parlamentare.
Il capogruppo dei senatori mastelliani, Tommaso Barbato, ha dichiarato annunciando la sfiducia, che «siamo persone serie» e che «il partito è unito e compatto ». Dopodiché proprio un senatore del gruppuscolo affidato a Barbato, Nuccio Cusumano, ha fatto sapere che tanto compatto il partito non era perché lui si sarebbe pronunciato in favore di Prodi. L’avrebbe fatto «in solitudine e in coerenza », nell’interesse del Paese. Diciamo, riduttivamente, che Barbato non l’ha presa bene: alla solitudine e alla coerenza ci crede poco. Si è scagliato contro Cusumano qualificandolo come «traditore, venduto e pagliaccio» (secondo alcune versioni anche sputandogli addosso). Ma Barbato smentisce «gli ho detto che è un traditore manon gli ho sputato e non ricordo di averlo offeso». Diciamo inoltre che Cusumano, di temperamento emotivo, s’è accasciato mentre Barbato lo prendeva a male parole ed ha avuto le opportune cure dall’attrezzatissima organizzazione sanitaria di Palazzo Madama. Ma Barbato, cuore di pietra, non ha espresso alcun pentimento sapendo del malore di Cusumano. «È svenuto? Sviene quasi tutti i giorni».
In questo quadro politicoclinico può essere inserito il caso del senatore Guido Possa di Forza Italia che, operato a una gamba dopo una brutta caduta, avrebbe dovuto godersi un periodo di riposo, ma l’emergenza l’ha costretto a presentarsi, aiutato da stampelle. Ho un po’ insistito sul ruolo dell’Udeur, ma non vorrei si pensasse che le sue microfaide e i suoi vistosi litigi abbiano rappresentato un’eccezione negativa nel comportamento composto e solenne di padri coscritti degni del laticlavio romano. Macché, gli italiani non hanno notato né compostezza né solennità. Piuttosto hanno provato un senso di disagio per quanto accadeva nell’aula - con un alternarsi di discorsi futili e di discorsi inutili - e per quanto era accaduto fuori dall’aula. Con trattative, contatti, riflessioni, conversioni, riconversioni. Alcuni esponenti della politica somigliano a quel principe di Casa Savoia che non finiva mai una guerra dalla stessa parte in cui l’aveva cominciata, e se finiva dalla stessa parte voleva dire che aveva cambiato casacca due volte. In un momento che viene descritto - e probabilmente lo è - come cruciale per le sorti del Paese, e che dovrebbe rappresentare la scena madre d’un dramma, viene invece propinata ai cittadini ed elettori italiani una recita da avanspettacolo (sia detto senza voler recare offesa ai degni comici che hanno calcato le tavole del Salone Margherita di Roma e dello Smeraldo di Milano). Luca di Montezemolo per verità non ha voluto avvicinare lo svolgimento della crisi a una recita d’avanspettacolo. Ha preferito definirla «più vicina a un suk arabo che a qualcos’altro». I rimbrotti e ammonimenti con cui il presidente Marini tentava di riportare alla ragione alcuni tipi particolarmente agitati non avevano molto successo. O piuttosto sottolineavano la sgangherata eccitazione degli eletti dal popolo le cui performance sono dal popolo seguite con mestizia e preoccupazione. Comunque finisc