Quali conseguenze potrà avere l’alleanza tra Veltroni e Di Pietro su materie scottanti come la giustizia e la sicurezza dei cittadini?
I soci fondatori del Pd (Ds e Margherita) hanno avuto un ruolo decisivo nel fare approvare in Parlamento (luglio 2006) l’indulto, appoggiato allora anche da una parte del centrodestra, ma aspramente contrastato da Antonio Di Pietro, che nel governo Prodi era sì ministro dei Lavori pubblici, ma non perdeva occasione per fare anche il “ministro ombra” della Giustizia, spesso in polemica con il ministro in carica, Mastella. Il risultato del provvedimento di clemenza fu una sorta di “libera tutti” superiore a ogni aspettativa: invece delle 12.700 scarcerazioni previste dal Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria), si arrivò a un totale di 26 mila. Un boomerang per la sicurezza dei cittadini: nel primo semestre 2007 le rapine sono aumentate del 36 per cento e i furti del 25 per cento. Una buona parte degli scarcerati sono già tornati dietro le sbarre.
Al di là delle cifre, quella tra Veltroni (che voleva correre da solo, ma non lo ha fatto) e Di Pietro appare un’alleanza innaturale tra garantismo e giustizialismo. Un garantismo, a questo punto, più che dichiarato che praticato quello di Veltroni, mentre il giustizialismo di Di Pietro è lo stesso dei suoi esordi da pm manettaro. Una contraddizione evidente, che sembra riportare la coalizione di centrosinistra ai tempi della “gioiosa macchina da guerra” di Occhetto (1994), quando grazie ai pm d’assalto i post-comunisti si sentirono a un passo dalla presa del potere.
Come si spiega?
In primo luogo Di Pietro si muove come chi abbia da sempre una cambiale elettorale da riscuotere nei confronti della sinistra post-comunista, che le sue indagini risparmiarono, senza mai coinvolgere i leader politici e sfiorando solo qualche funzionario (Greganti). Una cambiale che giunge a scadenza a ogni tornata elettorale da quando gli è stato riservato il collegio del Mugello, il più rosso d’Italia.
In secondo luogo Di Pietro appare oggi come il garante di quel mondo girotondino, giustizialista e illiberale che va da Beppe Grillo a Micromega, passando per Santoro e Marco Travaglio, una galassia che il Pd aveva tutto l’interesse a tenere sotto controllo, a scongiurare in ogni modo che alle elezioni del 13-14 aprile presentasse una “lista Grillo-Di Pietro”. Una simile formazione avrebbe sottratto al Pd l’elettorato giustizialista e antipolitico che si è riconosciuto nel “Vaffa day” ed ha avuto in Santoro il proprio cantore televisivo. Una quota che, a giudicare dagli ultimi sondaggi sulla lista Di Pietro, oscillerebbe dal 4 al 6 per cento.
In conclusione: un’alleanza innaturale, frutto di ipocrisia, che maschera un cedimento sostanziale al giustizialismo da parte del Pd. Altro che “rinnoviamo l’Italia”.
Polito (Pd): con noi Di Pietro non ci azzecca
“Che ci azzecca uno come Di Pietro con il Partito Democratico?”. Se lo chiede il senatore del Pd Antonio Polito che, in una intervista al Giornale, si dice perplesso non tanto dall'alleanza elettorale tra Pd e Italia dei Valori “che potrebbe anche essere accettabile”, ma “dall'annuncio dell'ingresso di Di Pietro nel Partito democratico, di una sua presenza strutturale nel nuovo partito”.
Polito parla del rischio al quale andrebbe incontro il Pd se vincesse con il contributo determinante di un gruppo parlamentare che risponde a un'altra sigla, un altro simbolo e un altro leader “finendo per essere troppo condizionato”. E fa l'esempio della legge sulle intercettazioni: “se venisse riproposta cosa farebbe Di Pietro? Lui si è sempre espresso contro”.
Sul contributo in voti portato dall'Italia dei Valori Polito si chiede: “se i numeri diventano un argomento determinante per il futuro del Partito Democratico, allora non si può negare che anche Diliberto e Pecoraro Scanio portano voti. Cosa facciamo, chiamiamo anche loro?”.